Il voto dei giovani

Il dato nazionale
A livello nazionale, il primo elemento che mi sembra interessante sottolineare del risultato elettorale è che il Movimento 5 Stelle ha preso le stesse percentuali dappertutto, al Nord come al Sud, in città come in provincia, nelle zone ricche come in quelle schiacciate dalla crisi. Si tratta di un aspetto inedito per un paese come l’Italia dove il voto registra normalmente molte differenze da regione a regione. Forse è un dato da mettere in relazione all’orizzontalità della rete e all’approccio che un certo settore dell’elettorato ha all’informazione online. O forse dimostra semplicemente che l’Italia è un paese molto più omogeneo di quanto si pensi, nonostante le differenze tra le sue parti.
C’è un altro fattore poi che era evidente anche a piazza San Giovanni, la sera del comizio conclusivo di Grillo, come rilevato in seguito da Renato Mannheimer: al di là della questione se il M5S abbia sottratto maggiormente voti al centrosinistra o al centrodestra, la questione più rilevante è che dei circa 8 milioni e mezzo di voti che il M5S ha ottenuto, il 20% proviene da persone che in precedenza si sono astenute, e il 16% dai giovani che hanno votato per la prima volta. Tale dato si evince anche confrontando la differenza dei voti ottenuti tra Camera e Senato. Alla Camera, dove votano anche gli elettori tra i 18 e i 25 anni, il M5S ha ottenuto un milione e quattrocentomila voti in più, cioè più o meno il 16% di cui parla Mannheimer.
Davanti a noi c’è quindi un voto giovanile precisamente orientato. Elemento confermato anche da un ricerca Tecnè: se a livello nazionale Grillo ha preso il 25,5%, il Pd il 25,4%, il Pdl il 21,5%; tra gli under trenta Grillo ha preso il 38% e il Pd il 26%, mentre il Pdl è un partito quasi da anziani. Ma tra gli studenti – e questo è il dato più impressionante – Grillo ha preso il 54,8%, il Pd il 22% e il Pdl l’11%. Tra i disoccupati, tra i giovani disoccupati, Grillo ha preso invece il 41%. I dati dicono questo. E Grillo, che rimane uno con del fiuto, quest’aspetto l’ha colto subito, fin dal primo commento post-elettorale: è un commento intelligente, politicamente criticabile ma intelligente. “Gli italiani non votano a caso”. “In Italia”, ha argomentato Grillo, “ci sono due blocchi sociali. Il primo blocco, che chiameremo Blocco A, è fatto di milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario, disoccupati spesso laureati che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere (…). A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori strozzati. Il secondo blocco sociale, il Blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno passato indenni la crisi” (ovviamente per lui in tale blocco ci sono tutti i lavoratori dipendenti). “Il Blocco A vuole il rinnovamento, il Blocco B la continuità, il Blocco A ha votato in massa per il Movimento 5 stelle”. Al di là della ricostruzione pro domo sua, in realtà Grillo ha colto degli elementi di verità. La cosa interessante di questo post è che tra i cinquemila commenti che sono seguiti, nell’80% dei casi la gente scriveva “Beppe io sono un professore e ho votato per te” oppure “io appartengo al Blocco B e ho votato per te”.
Allora, secondo me ci sono due aspetti in questo fenomeno da cui è necessario partire. Il primo è che nel M5S c’è una forte componente peronista (non nel senso del populismo, del giustizialismo, elementi che pure ci sono): la cosa che più colpisce è questa capacità di raccogliere gente di destra e di sinistra, o gente che non ha mai votato, e di incorporare una destra e una sinistra al proprio interno, ovviamente in una dimensione liquida, frullando insieme le due cose; quest’aspetto costituisce qualcosa di radicalmente nuovo. Se vogliamo rimanere nel suo schema, in realtà Grillo ha preso voti sia nel Blocco A che nel Blocco B. Per quanto lui racconti il proprio movimento come un movimento di rottura, in realtà io credo che il 25% dei voti non li ha ottenuti con la “rottura”, e neanche con la voglia di cambiamento come dicono, ma catalizzando questo rancore sordo, plurale, che è percepibile nel paese. Ovviamente il rancore va sempre interpretato, sociologicamente, perché ci dice 1) che non è stato capito dai grandi partiti e 2) che, per quanto spesso negato, esso esiste davvero. Poi ovviamente dobbiamo chiederci chi è Beppe Grillo e in che modo egli lo interpreta, che cosa propone in concreto…
Tuttavia, e qui veniamo al secondo aspetto, è indubbio che – al di là della trasversalità del movimento – il Blocco A, come lo chiama Beppe Grillo, dati alla mano, ha votato in massa per lui. La cosa interessante, che noi poi possiamo interpretare in vari modi, è che paradossalmente tra i giovani, quelli che hanno votato veramente in massa per Beppe Grillo sono gli studenti. Come interpretare questo dato molto importante? Cosa significa, che lo studente ha una maggiore percezione della sua esclusione sociale? Che egli percepisce una situazione di massa senza sbocchi? Detto questo, proprio perché sono studenti, bisognerebbe capire il rapporto tra questo movimento e i movimenti di critica al sistema capitalista che c’erano prima e che sembrano falliti in pochi anni. E nel mezzo sarebbe interessante vedere anche, alla luce di queste percentuali del voto studentesco e del voto degli esclusi, il rapporto che ci può essere tra il voto grillino e l’esaurirsi dell’Onda studentesca.
La Piazza grillina San Giovanni
La prima domanda che mi sono fatto quando sono stato a San Giovanni, alla fine della campagna elettorale di Grillo, è stata: quanti di quei 300-400mila partecipanti potevano stare in un’altra piazza san Giovanni, diciamo “di sinistra”? Ovviamente non proprio il concertone o una manifestazione nazionale della Cgil, ma prendiamo l’esempio dei girotondi o di una manifestazione per l’acqua pubblica. L’idea immediata è stata: non più del 20%. Ed è esattamente la percentuale che ha dato il Censis: un 20-25% del voto grillino viene da sinistra, Pd, Sel e Idv, il resto è altro. È vero anche che il Pdl ha perso molti voti, però la vera “base” del Movimento 5 Stelle, il suo corpus, è un altro, e su questo bisogna interrogarsi. In questo corpus la percentuale giovanile è molto forte.
Non bisogna demonizzare il M5S, ma piuttosto biasimare Grillo, non in quanto persona, come spauracchio, ma come capopopolo anti-democratico che estremizza i toni plumbei della distruzione, delle macerie, per occupare il vertice del potere. Questo è l’aspetto che trovo ambiguo in Grillo, perché non vi è alcuna critica radicale della politica volta alla trasformazione della politica. Nei fatti Grillo vuole distruggere il palazzo per entrarci lui, nel palazzo. Ha buon gioco a dire “ah, ma noi siamo il movimento delle proposte, leggiti il programma”: Grillo dovrebbe riconoscere, come i più intelligenti dei suoi eletti, che con queste proposte si ottiene il 4-5% dei voti; il 25% è stato ottenuto grazie alla furia antipolitica. Sarebbe bastato fare l’applausometro di piazza San Giovanni, quando diceva “Tutti a casa, apriremo il Parlamento come una scatola di tonno, siete dei ladri, dei morti che camminano…” Lo dico proprio senza nessuna remora, oggettivamente è un tono nazista, nel senso del nazismo o del fascismo delle origini. Si stimola una reazione trasformando la piazza in una corrida.
Poi ovviamente c’è anche altro. Quando hanno sfilato per pochi secondi i suoi candidati, c’era quello che diceva “acqua pubblica, reddito di cittadinanza” e sembrava in linea con i movimenti, e quello che subito dopo rispondeva “sovranità monetaria”, e sembrava appena uscito da Casa Pound. Questa è la pluralità che chiamo peronista, una pluralità di gente che in qualche modo nel movimento è entrata e ci ha anche intravisto una buona dose di movimentismo. Ma c’è un forte stridore tra questa pluralità e la verticalità Grillo-elettori, una verticalità molto riduttiva, carismatica e oggettivamente populista.
Infatti la prima mossa politica di Grillo, che questa cosa l’ha capita, è stata quella di dire: “Imponiamo la legge del vincolo di mandato dei parlamentari”. È vero che, come notava qualcuno, gli ultimi parlamenti sono stati particolarmente trasformisti, ma la Costituzione italiana, scritta da ex detenuti politici, impone la libertà di coscienza, un “no” preciso al vincolo di mandato perché imporlo vorrebbe dire darla vinta al partito totalitario. La cosa curiosa di Grillo è che quando sostiene queste cose non si rende conto di sostenere esattamente le cose che Simone Weil criticava nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici che lui invece cita come suo testo di riferimento. Simone Weil criticava non l’istituzione dei partiti tout court per sostituirli con un partito solo, ma criticava il partito staliniano, cioè il partito in cui l’uno, il singolo candidato eletto, è totalitariamente vittima della decisione del gruppo dirigente, del capo, che paradossalmente è proprio quello che Grillo vuole fare.
Qui c’è una impasse della politica: oggettivamente noi potremmo andare – e Grillo lavorerà per questo – verso un governo delle grandi intese, o delle piccole intese, da cui loro staranno fuori; ma in ogni caso questo governo avrà vita breve, si riandrà a votare e loro presumibilmente potrebbero diventare il primo partito in assoluto, mantenendo il Porcellum perché gli conviene: potrebbero infatti avere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera con diecimila voti in più.
La situazione è effettivamente grave, siamo davanti a un punto di rottura del sistema. Ciò ripropone il problema: che sarà del Movimento 5 Stelle? Quale attrito si creerà tra la pluralità interna e il decisionismo grillino? È come un buco nero: c’è un nuovo partito con centocinquanta parlamentari, il cui obiettivo politico è la distruzione totale del sistema, cioè creare le macerie su cui erigere un governo unico, il loro. Identificando la democrazia diretta con la distruzione dei corpi intermedi (partiti, sindacati), questo movimento non propone alcuna alternativa, bensì ha un’idea oggettivamente totalitaria e verticistica della partecipazione politica.
Destra, sinistra e verdi
Dire che “destra e sinistra sono uguali” – discorso che Grillo è stato bravo a intercettare ma che viene fatto anche da tanti altri – è esattamente ciò che ha distrutto la politica in questo paese. Il che non vuol dire rifarsi pedissequamente a Bobbio o a un’interpretazione statica della contrapposizione politica. Grillo in realtà minimizza il berlusconismo. Un conto è dire “c’è stato Berlusconi da una parte e dall’altra il Pd – cioè D’Alema, Veltroni e compagnia bella non hanno interpretato l’opposizione come doveva essere fatta”; però il grillismo non dice questo, forse un elettore grillino su dieci dirà “il Pd non ci ha difeso contro Berlusconi, perciò voto Grillo”. In realtà la posizione grillina dice “è tutto uno schifo, tranne Grillo; tutti hanno rubato, tranne Grillo; Pdl e Pd(meno elle) sono due facce della stessa medaglia…” Altra espressione tipica di Grillo è quella storicamente adottata da ogni politica reazionaria, di destra, camuffata da presunta oggettività: “Non esistono idee di sinistra o di destra, esistono solo idee buone o cattive”. Tutto ciò porta alla riduzione della complessità sociale a una logica binaria.
In realtà queste cose sono sempre esistite nelle viscere della maggioranza silenziosa, nella pancia dei movimenti reazionari. È il mito della presunta equidistanza. Quando don Milani dice che l’equidistanza tra ricchi e poveri, tra oppresso e oppressore, è una mistificazione (perché se tu sei equidistante tra il più debole e il più forte sei a favore del più forte) dice qualcosa che oggi potrebbe smascherare immediatamente il grillismo.
La novità è che ora, per la prima volta, questo discorso è stato incorporato in un movimento che ha introdotto anche tematiche proprie dei movimenti ecologisti. Ma in che modo? Il M5S appare un aggregatore di sindromi Nimby, cioè di istanze localistiche e egoistiche. Non solo non esistono più i Verdi, ma non esistono più un pensiero ecologista e una politica ecologista che siano innanzitutto universalisti, che siano in grado di mettere insieme questioni ecologiche, questioni politico-globali, questioni sociali, questioni universali – quello che insomma facevano Ivan Illich o Alex Langer.
Nei confronti di questa pluralità di sindromi Nimby, Grillo ha avuto – come dice anche Giuliano Santoro in Un Grillo qualunque. Il Movimento 5 Stelle e il populismo digitale nella crisi dei partiti italiani (Castelvecchi 2012) – la capacità di inglobare i movimenti, snaturandoli e mettendogli il cappello in testa. Per esempio nel libro Il Grillo canta sempre al tramonto. Dialogo sull’Italia e il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, Dario Fo e Gianroberto Casaleggio (Chiarelettere 2013), il No Tav in Val di Susa viene raccontato come esperienza unicamente prodotta dal M5S, quindi c’è anche un atteggiamento molto staliniano nei confronti delle altre forze in campo.
Secondo me c’è un discorso di fondo fa fare, quello dell’eliminazione delle questioni sociali e la loro sostituzione con altro. Nel successo del Movimento 5 stelle c’è la vittoria di una cultura molto prossima agli editoriali de “Il Fatto quotidiano”, cioè la sostituzione del tema dell’ingiustizia sociale col tema della corruzione.
Questa logica regressiva ha portato alla fine della sinistra in Italia. Questo sussulto è stato politicamente interpretato prima da Di Pietro e adesso da Grillo in maniera oceanica e, se vuoi, in maniera molto più radicale, perché lui non sostiene il partito della procura: la sua è un’idea di forca molto più brutale e allo stesso tempo più sofisticata. Se fossi un intellettuale vicino al M5S mi interrogherei sul fatto che il successo è stato sì dato da un voto di cambiamento, ma che nasceva da questo rifiuto collerico. Questo è un dato di fatto. Anche la rivoluzione francese, che i grillini citano spesso, è nata sull’odio sociale, sul fatto che le masse a un certo punto sono esplose, e questo possiamo dirlo di qualsiasi rivolgimento sociale: lì però c’era, accanto a quello molto forte sull’universalità, un discorso sulle classi che non esiste nel M5S.
Grillo fa spesso un elenco di tutti i drammi possibili e immaginabili, nominando gli imprenditori che si suicidano, ma non ha mai dedicato un solo rigo agli operai che si suicidano. Per me l’uso della parola “operaio” è un test nell’Italia di oggi, perché quando tu praticamente parli di tutti i problemi – che oggettivamente ci sono – ma non parli di operai e proponi una singolare alleanza tra incazzati, esclusi, disoccupati, malati, piccoli risparmiatori e piccoli imprenditori, da cui sono escluse le vittime dello sfruttamento lavorativo, la cosa deve farci insospettire. Lo stesso si può dire per le questioni che riguardano il tema cittadinanza-uguaglianza: il M5S è spaventosamente sordo davanti alla questione dell’immigrazione.
Come ripartire
La domanda che dobbiamo porci, al di là di che cosa può essere la politica, al di là di come risalire la china, è: “quale alternativa al modello Grillo dare a un ventenne”. La domanda più ovvia che uno si può porre commendando le elezioni è “perché un ventenne avrebbe dovuto votare Bersani?” Non è una domanda irrispettosa o ironica, è reale; quando Bersani pensa di fare il simpatico citando una brutta canzone di Vasco Rossi, quando parla davvero come se fossimo nella Bassa padana degli anni trenta, mostra un enorme vuoto di capacità comunicativa. Non c’è comunicazione. Non c’è prima di tutto con l’Italia che non appartiene all’elettorato Pd e che non viene da quella tradizione politica e culturale, e in secondo luogo non c’è con i più giovani. Si pone a una distanza enorme.
Sul fatto che molti giovani – non tanti, per la verità, perché anche questo mito va sfatato – dicessero “se ci fosse stato Renzi, l’avrei votato”, ho idee forse minoritarie. Non credo che con Renzi si sarebbe invertito il risultato, tant’è vero che quella era paradossalmente una ipotesi formulata da un politico di destra, e Renzi in fondo è un politico della destra interna del partito. Tuttavia anche tutti i vecchi dirigenti, che ora chiedono sotto voce le dimissioni di Bersani o le dimissioni dei segretari locali, di tutti insomma tranne che di se stessi, ripropongono la stessa logica perdente.
La domanda “perché un ventenne avrebbe dovuto votare Bersani?” è importante; l’autocritica avrebbe dovuto riguardare non solo Bersani ma tutti – il che non vuol dire dare spazio automaticamente ai quarantenni come Renzi o ai “giovani-vecchi” come li chiamano, Matteo Orfini e simili.
Detto questo, c’è ovviamente dell’altro. C’è una nuova generazione che io e i Tq facciamo fatica a comprendere, i ventenni. C’è stata una frattura in Italia in questi dieci anni. Da una parte chi ha oggi vent’anni ed è nato nel 1993, è nato sotto Berlusconi ma è diventato adulto molto dopo Genova, e molto dopo la fine dei movimenti contro la globalizzazione liberista. Sono nati in un’epoca in cui effettivamente il dominio di Berlusconi era assoluto e l’assenza di una opposizione di sinistra era evidente; viceversa la liquidità della rete, che è una cosa che esiste per quanto non vada né demonizzata né esaltata per motivi diversi, è in una fase di crescita inarrestabile. È sempre il solito discorso, io credo che Facebook, Twitter, i social network, i blog, l’informazione online, siano degli straordinari strumenti di comunicazione e a volte anche di controinformazione; rimane però un dato lapalissiano: un conto è che a utilizzare i social network e i blog sia un trentenne o un quarantenne che viene dal vecchio mondo e accanto al nuovo continua a usare la carta, i libri, le riviste; un conto è una generazione che è nata solo all’interno di questo universo. Effettivamente si è generata una mutazione. E la vittoria del Movimento 5 stelle viene in parte dall’aver assorbito e interpretato questa mutazione; ovviamente con profondissime contraddizioni, perché mentre i Piraten tedeschi sono una movimento più lineare, qui stiamo parlando di qualcosa messo in piedi da due miliardari sessantenni sulla base di una struttura verticistica.
Due sono gli aspetti che mi premono. In che modo i ragazzi di oggi possono elaborare una dimensione critica, per criticare il grillismo? Voglio dire: perché tante cose che a noi, almeno a una parte di noi, sembrano evidenti nell’autoritarismo di Grillo, per i ventenni così non sono? Forse è tanto forte la distanza nei confronti di quella che è stata percepita come vecchia politica, che la vittoria della rete, anche attraverso un capo autoritario, ti sembra una cosa comunque più vicina… Io ho l’impressione che il decisionismo di Grillo possa creare maggiori attriti fra gli eletti, o una parte degli eletti, che hanno forse una maggiore coscienza critica, che non fra gli elettori. E questo è un aspetto. L’altra impressione è che effettivamente molti ventenni non sanno che sia esistita una storia d’Italia prima del 2000, non hanno nessuna memoria; ovviamente non ne hanno una “privata”, perché erano bambini, ma non ne hanno neanche una storica. Sembrano non essere a conoscenza del fatto che in Italia siano esistiti altri movimenti che criticavano lo status quo. Questo lavoro di chiarimento, di racconto, francamente non so chi possa farlo. Non lo fa la scuola, non lo fa l’università, non lo fanno i giornali. Non lo fanno i trentenni… Probabilmente un racconto si è interrotto. Il problema è che ovviamente – e su questo i Wu Ming hanno ragione – abbiamo a che fare con un movimento che non vuole elaborare un orizzonte politico anticapitalista, o prendere atto delle divergenze e delle profonde iniquità di classe. Il problema è quanto guadagna il politico, cioè la vecchia logica di destra: per certi versi Grillo ridice esattamente le stesse cose che diceva il Msi nel 1992, “arrendetevi, siete circondati, tutti a casa…” Quest’idea che il problema sia solo e soltanto una politica indistinta da mandare “tutta a casa”, che le diseguaglianze economiche siano prodotte non dal mercato, dall’alienazione, dal controllo oligopolistico dei mezzi di produzione, ma dalla politica che si arricchisce, è una vecchia idea delle destre reazionarie, obiettivamente falsa anche nella organizzazione della società. Il fatto che molti giovani grillini pensino a Steve Jobs come un modello vincente, e invece a tutta la politica come un modello negativo, fa riflettere. È infatti difficile, in questo momento, individuare dei singoli temi o dei singoli aspetti su cui dialogare, se poi l’assetto è fortemente centralizzato sulla figura di Grillo e su posizioni così distruttive. Bisogna superare anche l’ambigua simpatia che suscita il M5S e l’idea secondo cui, avendo al suo interno anche delle componenti rivoluzionarie o ribellistiche, automaticamente sia il nuovo. Nella storia del Novecento, le componenti rivoluzionarie e ribellistiche sono state (anche) all’origine dei fascismi. Se leggiamo libri come Il garofano rosso di Vittorini o il racconto di Bilenchi, I silenzi di Rosai, capiamo perché una generazione è diventata fascista, fascista di sinistra, inseguendo il ribellismo fascista antiborghese contro il vacuo parlamentarismo, contro le “facce da culo” del gruppo dirigente socialista – il Psi dell’epoca era più o meno percepito come il Pd di oggi. L’altra cosa che mi viene in mente è una considerazione che fece Salvemini quando lo intervistarono in esilio in America negli anni quaranta: “Noi che avevamo posizioni radicali”, disse più o meno, “abbiamo criticato Giolitti, abbiamo criticato l’Italia liberale, abbiamo criticato quel sistema di rappresentanza ossificato che non era reale rappresentanza e che non era tanto meno reale democrazia. Però solo molto tempo dopo ci siamo resi conto che abbiamo lavorato anche noi a distruggere tutto. Quella critica radicale, paradossalmente, ha aperto la strada a una dissoluzione dalla quale hanno tratto alimento i fascisti”. A volte la storia si ripropone ponendoti di fronte dei bivi tragici, ugualmente tragici. Per evitare la distruzione sulle cui macerie poi si insedierà Grillo, non puoi giustificare tout court tutto l’esistente. Ma, viceversa, in che modo esercitare la critica dell’esistente?
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