Il territorio è la base di una buona salute mentale

La storia di FabriQa23 è quella di un collettivo composto da operatori della salute mentale, volontari e cittadini, impegnati sia per scelta che per necessità all’interno di servizi pubblici, cooperative sociali e associazioni attive sui territori. Quella di FabriQa è solo una protostoria, il racconto di un piccolo gruppo che ha iniziato a pensare diversamente. Anche se è molto semplice non è una storia scontata.
Inizia a Trieste con un manipolo di operatori e operatrici della salute mentale, friulani e giuliano-isontini, che si ritrovano a un convegno dove sul palco sfila la gloria dei servizi della salute mentale: OMS, direttori, ospiti speciali: un meccanismo ben oliato, come su una rivista patinata. In quella occasione è stata forte l’indignazione nel veder presentata una storia senza sofferenze e senza uno sguardo alla fatica di chi lavora ogni giorno per raggiungere il massimo, con il minimo di risorse. Era acutissimo il senso di solitudine e ineluttabile la consapevolezza di trovarci in un’epoca di crisi dei sistemi di welfare, dove la vetrina della Salute Mentale viene rappresentata senza protesta, senza contraddizioni, senza conflitti.
Da quel momento è nata non solo l’urgenza di mettere in luce quelle contraddizioni e quei conflitti confrontandoci tra noi, ma anche quella di includere altri soggetti nello spazio di discussione; così avremmo potuto evitare di vivere passivamente l’indignazione, incanalando il pensiero collettivo verso una spinta per il cambiamento. Non ci interessava restare sulla difensiva, immobili nei nostri spazi, ci serviva “altro”, una comunità, un collettivo, un’assemblea.
Da questo primo momento di frustrazione partecipata è nata un’assemblea aperta che si è tenuta a Zugliano (Ud) presso il Centro Balducci di don Pierluigi Di Piazza, luogo dove il vociare dei pensieri individuali aveva la possibilità di declinarsi attraverso la dimensione collettiva, spingendosi fino a mettere a fuoco i confini stessi del lavoro in Salute Mentale, includendo riflessioni su quanto fosse necessario il posizionamento degli operatori nel loro agire, per poter mantenere vivo un pensiero critico e creativo, rispetto all’organizzazione e al potere trasformativo dei Servizi.
Siamo partiti dichiarando che le cose non potevano più essere come prima e che rimaneva solo una certezza condivisa, ossia che La Salute (mentale) è un diritto a rischio, così come lo sono tutti i diritti che non sono sostenuti da pratiche imbevute di realtà. Per questo sentivamo forte il bisogno di una democratizzazione dei processi e di azioni politiche trasformative. Ed era quell’assemblea il punto di partenza.
Per comporre la contraddizione tra pensare e agire, tra la politica come enunciato e le pratiche di salute e di trasformazione, pensammo al concetto della Fabbrica, dell’operatore-operaio, che forgia i diritti relativi alla salute, partendo dalle sue stesse mani.
Un laboratorio con più ambizioni e qualche stravaganza ortografica. FabriQa23 è nata così.
Il principale focus dei dialoghi del gruppo è centrato sui Servizi di Salute mentale, in quanto buona parte del collettivo è rappresentato da lavoratori e lavoratrici che orbitano nei centri di salute mentale (CSM), Servizi territoriali aperti sulle 24 ore (7 giorni su 7), ben radicati nei territori e considerati parte integrante della comunità.
Per comprendere lo stile dei FabriQanti è necessario conoscere il contesto in cui sono nati e in cui si continuano a muovere ogni giorno, partendo proprio dalla descrizione della realtà di un centro di salute mentale 24 ore, che consideriamo il cuore pulsante della promozione della salute mentale in questo territorio.
24 ore di cura
Il CSM è l’unità territoriale del dipartimento di salute mentale, uno spazio capace di garantire accesso e ascolto alle persone con problemi psichici, anche nei momenti di massima sofferenza, un luogo dove si costruiscono occasioni di ripresa, di consapevolezza, di miglioramento della qualità della vita. È il luogo in cui si promuove l’accessibilità ai diritti di cittadinanza per ogni persona che vi accede. È un servizio universalistico, a bassa soglia, si può entrare e chiedere un colloquio, con o senza impegnativa del medico, senza prenotazioni o file d’attesa, e soprattutto gratuitamente. Oltre alla facile accessibilità, i servizi di salute mentale territoriali si distinguono per le porte aperte, e per il fatto che non si applica alcun tipo di contenzione; lo strumento terapeutico principale è la relazione, lo stare con le persone, per accompagnarle nel loro percorso di ripresa.
Il principio fondante del Centro di Salute Mentale è l’idea di essere parte del territorio, di attraversarlo ed essere attraversati, di conoscere e aggregare le realtà e le risorse naturalmente presenti, per dare vita a reti e alleanze come strumenti di cura.
Nel momento in cui un cittadino inciampa in una fase di malessere, e necessita di essere accolto in un luogo di cura, un CSM 24 a bassa soglia, geograficamente vicino ai suoi cittadini, aperto, accogliente, evidenzia tutta la sua importanza. Questo perché le persone in crisi non vengono “ricoverate” in un reparto d’ospedale distante decine di km dal proprio contesto di vita, ma vengono accolte in uno spazio familiare, all’interno della comunità di appartenenza, permettendo così di rimanere sempre in contatto con i propri affetti, e le proprie risorse.
Come collettivo abbiamo stabilito da subito che la salute mentale riguarda tutti, mentre la psichiatria è solo dei tecnici. Quando parliamo di salute mentale intendiamo un sistema di assistenza territoriale, capace di uscire dai luoghi istituzionali, oltre i protocolli diagnostici e di cura, quindi capace di entrare nella società e di intercettarne i bisogni. Tutto questo distingue la salute mentale dalla psichiatria, quest’ultima resta rinchiusa negli ambulatori, non sempre capace di contemplare i bisogni delle persone nei processi diagnostici e terapeutici, più spesso abile a tradurre, attraverso un linguaggio scientifico, ogni forma di miseria o protesta in un corrispondente disturbo; riducendo così la sofferenza umana a una etichetta. La solitudine, l’isolamento, gli ambienti di vita malsani, la mancanza di opportunità lavorative, le disparità, la violenza, la mancanza di servizi accessibili, l’emarginazione, sono temi con i quali quotidianamente ci troviamo ad avere a che fare e, al tempo stesso, sono fattori che ogni persona può incontrare nel proprio cammino di vita.
Crediamo esista una sorta di malattia sociale, una sofferenza diffusa, a cui siamo tutti soggetti e che lascia pensare che interi territori, interi contesti di vita, andrebbero curati (dall’ambiente ai cittadini che lo abitano). Per fare questo c’è bisogno di un sistema socio-sanitario diverso, capace di coinvolgere le persone (servizi, investitori, cittadini, utenti, ecc.), nelle diverse fasi di un processo decisionale, per una reale co-progettazione in grado di produrre risposte diverse, trasformative, non standardizzate.
La salute mentale si differenzia dalla psichiatria per questa sua apertura al contesto sociale, dal quale non solo acquisisce risorse, ma sul quale ha il mandato di attivare processi di sviluppo. I servizi di salute mentale devono essere intesi e vissuti come un aiuto, uno slancio per riprendere in mano la propria vita. Questo non sempre è facile per tutta una serie di motivazioni, perché il territorio non è pronto ad accettare la “diversità” e tutto ciò che è di difficile comprensione e “gestione”. Si scorge qui il ruolo catalizzatore dei servizi territoriali, che hanno il compito di migliorare il rapporto a tre: i servizi pubblici, la cooperazione e la cittadinanza. Solo nei contesti di vita accoglienti appare possibile indurre processi di prevenzione e cura, di accoglienza della fragilità, di mutuo aiuto e di ripresa della propria vita.
Parlare di salute mentale è un modo per non cadere nella trappola riduzionista “Sintomo-malattia-cura”. La salute mentale parte dalla sofferenza umana per comprendere la persona in tutta la sua complessità, passando per la sua storia di vita, la sua cultura di provenienza, il suo contesto di vita e per tutti quegli aspetti sociali e ambientali che la contraddistinguono.
Crediamo che i processi trasformativi partano più spesso di quanto si immagini dalla sofferenza, dalla protesta e dal disagio.
Lavorando in questo sistema si entra in contatto con infinite forme di miseria umana, riscoprendo il senso del collettivo come antidoto alla solitudine, imparando a conoscere il disagio e la marginalità, a sostenere le pressioni custodialistiche ed espulsive prodotte dal contesto sociale, e al tempo stesso si scoprono inaspettate abilità, strane forme di creatività, spontanei movimenti di cura e di attenzione all’altro. Queste straordinarie esperienze di umanità e di reciprocità hanno potenziali terapeutici che molte persone innescano nella relazione di aiuto con l’altro, in modo del tutto spontaneo e spesso inconsapevole.
Così nasce il desiderio di dialogare con la cittadinanza per svelare questo potenziale e spiegare che la terapeuticità che ognuno può mettere in gioco è direttamente proporzionale al grado di responsabilità che intende agire nel legame con l’altro. L’alternativa, come abbiamo appreso, è la malafede, l’auto inganno.
Proteggere il sistema sanitario pubblico
Come collettivo ci siamo assunti la responsabilità di proteggere il sistema sanitario del Friuli Venezia Giulia, in quanto rappresenta un’esperienza di un modello strutturato di salute mentale territoriale, che può vantare adesione capillare al territorio e pratiche virtuose con ridotte spese sanitarie, fondate sul principio dei progetti personalizzati e dei budget di salute, strumento economico e amministrativo nato in questa regione negli anni ’90 per spostare i fondi pubblici dedicati ai posti letto in comunità su progetti terapeutici individuali personalizzati.
Tale modello virtuoso, negli anni, ha attratto l’interesse di moltissimi tra operatori, responsabili e users italiani e stranieri, ed è riconosciuto Centro di Riferimento OMS per la salute mentale di comunità per la deistituzionalizzazione e per la lotta alla contenzione.
Nonostante questo, tale idea di welfare, invece di essere protetta e sostenuta dalla politica, attualmente viene messa sotto attacco per il suo essere universalistica, gratuita e non improntata al business.
Nella generale deriva neoliberista, produttivista e prestazionale, in cui la cultura moderna sta affondando, il sistema salute mentale della nostra regione risulta essere una nota stonata (ancor di più se paragonato al vicino Veneto o al distante sistema lombardo) e crea imbarazzo tra i politici locali. Nel tentativo di “modernizzare” il sistema sanitario questi ultimi hanno dichiarato apertamente l’intento di dare vita a realtà private alternative, che permetterebbero così di rimaneggiare le (già carenti) risorse dedicate alla salute mentale.
Questo processo di trasformazione al negativo non coinvolge solo i servizi pubblici di salute mentale ma, anche e soprattutto, i suoi partner della cooperazione sociale; soggetti molto più fragili in termini economici e contrattuali, in virtù della deriva degli appalti pubblici. Si rincorre il risparmio e non le capacità; le regole del gioco sono così strette da non lasciare spazio alla creatività e all’intrapresa. Le cooperative sono entità giuridiche ben precise, il cui mandato è sancito dalla legge 381/91, che già nel suo primo articolo definisce lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità, la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini, attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse, finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Ebbene, oggi questo mandato sembra condizionato in prima battuta dal ginepraio burocratico a cui sono sottoposti i sistemi di programmazione e di attivazione delle risorse sanitarie, come sta accadendo in gran parte delle istituzioni pubbliche e private. Davanti a questo i singoli operatori possono adeguarsi passivamente al sistema, per esempio limitandosi a compilare moduli e verbali con parole vuote di senso, sottraendo tempo agli incontri umani, oppure possono scegliere di compiere delle minime ma quotidiane azioni di disobbedienza dei protocolli e delle procedure volte, per esempio, a forzare i tempi, i verticismi e le modalità di attivazione dei progetti.
In seconda battuta, i processi di delega che i servizi pubblici mettono in atto verso le cooperative nella gestione dei casi complessi assumono un ruolo rilevante nel costruire una prassi in cui gli operatori del privato sociale, con minore potere salariale, vengono considerati manodopera a basso costo, a cui affidare le mansioni che gli operatori pubblici non svolgono. Questo è un segnale lampante di come la cooperazione sociale stia perdendo il suo ruolo politico nelle dinamiche di welfare e di come, nella collaborazione col servizio pubblico, stia ormai assumendo una posizione di sudditanza, di passiva accettazione del ricatto della sussistenza economica.
Nel lavoro territoriale si parte dall’orizzontalità dei rapporti umani, pur riconoscendo le diversità di ruolo, contrattuali, culturali e individuali, e nel tentativo di superare le comprensibili contrapposizioni quotidiane, ma è necessario trovare soluzioni alternative, per dimostrare che è possibile lavorare diversamente, in modo etico, prendendosi cura anche dei lavoratori.
Il lavorare insieme, come un’unica squadra, è ciò che a oggi permette di tenere le porte aperte del CSM, e ha permesso, anche nel periodo della pandemia, di implementare il lavoro sul territorio, nonostante la riduzione di risorse, così da intercettare e riaccompagnare le persone nei loro contesti di vita.
Negli anni questa collaborazione tra pubblico e privato ha permesso di sviluppare un dialogo a tre con la cittadinanza per dare vita a esperienze abitative etiche, dedicate a un piccolo numero di users e rispettose della soggettività di ognuno, esperienze orizzontali volte all’emancipazione e alla responsabilizzazione di tutti gli attori, e soprattutto rivolte alla deistituzionalizzazione della fragilità e alla garanzia dei diritti.
La gamma di esperienze collezionate dal nostro gruppo di lavoro vanno dalla frequentazione di luoghi istituzionali chiusi come le carceri, i Centri per il rimpatrio, le case di riposo, le comunità psichiatriche, alle abitazioni fatiscenti, isolate dal mondo, prive di servizi, passando per spazi del territorio come bar, associazioni, o altri luoghi di incontro.
Le realtà con cui entriamo in contatto sono innumerevoli ed è immediatamente evidente quanto l’ambiente di vita influisca sulla salute fisica, mentale e sociale di una persona.
Conoscendo gli spazi di vita di una persona si può comprendere profondamente il senso di quello specifico disagio psichico, quanto quel malessere non riguardi solo il singolo, ma un’intera comunità, e che quello è anche il luogo dove si trovano risorse inaspettate.
Tutto questo consente di vedere in modo diverso la storia dell’altro, della sua famiglia, le dinamiche e gli aspetti culturali, come anche l’ambiente di vita e lo spazio vissuto. Questo pensiero, che ci accompagna fin dai primi momenti della relazione di aiuto, non solo ci permette di cogliere il bisogno immediato, esplicitato dal soggetto, ma anche altri possibili bisogni. Sappiamo che l’esistenza umana è complessa e pertanto ci approcciamo all’altro con grande rispetto, senza fretta e senza risposte pre-codificate.
Nonostante gli anni di pandemia, ancora oggi nell’opinione pubblica prevale l’idea che la cura debba avvenire nei contesti ospedalieri, nelle cliniche sanitarie o nelle residenze istituzionali, e non a casa delle persone; determinando in questo modo il continuo ricorso a strutture chiuse, dedicate alla cura, separate dal resto della società e non sempre rivolte a processi di emancipazione. Il nostro agire guarda alla possibilità di trasformare l’idea stereotipata dei “tecnicismi che curano” in un pensiero più complesso, che integri cioè elementi sociali, relazionali e sanitari, contro la predeterminazione della cronicità, contro i “percorsi di fine vita” nelle case di riposo, contro le soluzioni asilari come unica risposta al “dove lo mettiamo”. La volontà è quella di convincere dell’esistenza di un’alternativa etica all’istituzionalizzazione delle fragilità e del disagio in genere.
Questa idea dell’abitare parte dai diritti, è il necessario presupposto per una Salute etica: il diritto alla casa e il diritto alla cura, che si intrecciano tenacemente per garantire ad ogni individuo la possibilità di vivere e di essere curati, in un luogo che si possa definire “la mia casa”, evitando lungodegenze istituzionali e istituzionalizzanti.
Da qui la ricerca di pratiche ispirate all’Housing first, che sancisce la priorità di ogni soggetto di vivere in un luogo dignitoso che riconosce come proprio, prima di altre proposte sociali, sanitarie o esistenziali. Per ottenere la libertà e la dignità abitativa è necessario che i processi di aiuto dedichino il giusto tempo all’ascolto e all’analisi dei bisogni, nell’ottica della scelta condivisa, della “contrattazione” e della “co-progettazione”, come metodologie di confronto tra i diversi soggetti, istituzionali e non, al servizio della persona o di un gruppo di persone.
Parlare del complesso tema dell’abitare consente di fare un esercizio basato sull’integrazione di differenti punti di vista, sulla democratizzazione dei processi decisionali, sulla sinergia tra risorse miste pubbliche e private, sulla responsabilizzazione di ogni attore sulla base delle competenze e del ruolo, sulla necessità di una convergenza delle risorse su un obiettivo condiviso.
L’esercizio sta anche nel programmare e dare vita a pratiche che considerino due concetti chiave come la collettivizzazione delle risorse e la riproducibilità dell’esperienza. La prima da intendersi come il tentativo di ottimizzare le decrescenti risorse attraverso la trasformazione di un percorso personalizzato individualizzato in un progetto collettivo, a vantaggio di molti, così che dal bisogno di un soggetto nasca un’opportunità per molti (al di là che siano o meno portatori di un disturbo); mentre quando parliamo di riproducibilità, si intende l’adattabilità dell’esperienza ad ogni condizione di fragilità, sia essa per fase di vita, per condizioni di fragilità fisica o intellettiva, legata a un percorso migratorio o a un progetto alternativo al carcere.
Il lavoro territoriale fondato su una concezione etica dell’abitare deve essere accompagnato da un parallelo e imprescindibile lavoro con la comunità di riferimento, per sensibilizzare la cittadinanza attraverso momenti di incontro aperti, per divulgare l’esistenza di pratiche di salute dei territori e per innescare la lotta allo stigma. Questo significa cogliere ogni occasione per il coinvolgimento del vicinato, del quartiere e della comunità, attraverso momenti di socializzazione, di conoscenza e incontro tra persone e istituzioni, per avviare un dialogo continuo su temi come la comunicazione, l’organizzazione territoriale dei servizi sociali e sanitari di prossimità, per affrontare i normali pregiudizi, la paura dell’altro e per prendere coscienza dei frequenti sentimenti di solidarietà selettiva in cui spesso si inciampa.
Obiettivo ultimo di tutti questi presupposti è riuscire a trasformare le domande di cura che nascono sempre nei Servizi sulle 24 ore (CSM, PS, Guardie Mediche, Forze dell’ordine, 118, istituzioni chiuse, ecc.), i quali, essendo sottoposti a continui processi di delega da parte della società, per la gestione delle emergenze, sono sempre più spesso soggetti alla pressione data da millantati allarmi sociali. Questi sono spesso il risultato di un inestricabile intreccio di questioni sociali di varia natura, come le spinte espulsive, le richieste di sorveglianza e custodia, le pretese di sicurezza e di controllo di quelle condizioni di deriva sociale, o di grave disagio psicofisico, che solitamente producono l’urgenza di una risposta istituzionale, che poi spinge il sistema a cedere al fascino delle soluzioni facili (in termini amministrativi), e rapide, come le risposte asilari, capaci di interrompere prontamente l’allarme sociale innescato, al prezzo però di estraniare la persona dal resto della società in nome della sicurezza e della protezione della comunità.
Vogliamo mettere in guardia la popolazione dai processi involutivi a cui vengono sottoposti i servizi sanitari, e chiarire la prospettiva per cui il sistema sanitario nei prossimi anni rischia di diventare un sistema accessibile a pochi e garantito solo a chi ha le risorse per pagare una prestazione la prospettiva sanitaria che nei prossimi anni rischia di palesarsi come un sistema accessibile a pochi e garantito solo a chi ha le risorse per pagare una prestazione. Inoltre, siamo interessati a svelare i parallelismi tra questa involuzione e i sentimenti di separazione, frammentazione, esclusione, intolleranza, nati dalla paura dell’altro, dall’indifferenza. Ma vogliamo anche fare un lavoro riflessivo su noi stessi.
In questa società edonistica e prestazionale, è nata una sorta di collusione tra chi domanda rimedi per “non soffrire più” e chi con il proprio sapere tecnico dice di avere la soluzione a tutti i mali del mondo, grazie a tecnicismi sempre più raffinati, che in fin dei conti non hanno portato ad una riduzione della sofferenza quanto piuttosto al dilagare di nuove diagnosi e approcci. In questa collusione vediamo una grande menzogna da parte di tecnici che non sempre ammettono di essere limitati nelle risposte di cura.
La salute mentale è per noi un osservatorio dei processi economici, culturali e sociali in atto, ma è anche uno spazio concreto di critica/pratica della patologizzazione che pervade il sociale e dei suoi modi di operare attraverso metodologie, epistemologie, politiche e retoriche.
È infine per noi un terreno di lotta sui temi del diritto alla casa, all’autonomia, alla partecipazione delle comunità alle politiche di welfare, a un lavoro degno (per senso, qualità e livelli di salario) per chi si occupa di cura.