Il supermarket del bene
Non siamo di fronte a una novità. Non ci svegliamo, adesso, sorpresi che l’incubo sia diventato realtà: quando parliamo di ristrutturazione del welfare, marketing del sociale e pornografia umanitaria, stiamo biasimando gli effetti di un processo molto più ampio, una trasformazione di sistema che va avanti da almeno dieci anni e che non riguarda una singola organizzazione no profit. All’interno, ad esempio, della lista delle organizzazioni internazionali che operano in Italia, la maggior parte ha enormi strutture dedicate al marketing e alla pubblicità all’avanguardia, grazie a un investimento, appunto, decennale.
Una serie di queste famose e riconoscibili organizzazioni, arrivate nel nostro paese solo alla fine degli anni novanta e l’inizio degli anni zero, ha da subito ragionato in termini di vendita del prodotto umanitario e sociale. All’epoca era una totale novità perché le organizzazioni italiane tradizionali avevano sempre percorso altri canali per trovare risorse, come la vicinanza alla politica, oppure attraverso il concreto radicamento territoriale.
In base a delle analisi di mercato, infatti, questi nuovi soggetti hanno compreso che c’era una fortissima propensione a donare in Italia per diverse ragioni, la più evidente, è che la carità è un valore condiviso in un paese cattolico come il nostro. In questi ultimi anni abbiamo osservato che anche tra i migranti c’è una buona propensione altruistica al dono, soprattutto quelli di origine musulmana che hanno fra i cinque pilastri della fede l’elemosina rituale, tant’è vero che Islamic Relief, la più grande Ong umanitaria islamica, ha una sede molto attiva in Italia. Tutte queste grandi organizzazioni, già molto presenti nel mondo anglosassone, hanno aperto la loro sede italiana in un’ottica di espansione del mercato, cominciando a raccogliere cifre consistenti: i bilanci sono ormai sui trenta, quaranta milioni di euro, di cui una parte consistente (25-30 per cento a volte) è investita in raccolta fondi e nell’acquisto di spazi pubblicitari.
Nelle piccole organizzazioni siamo stati abituati alla logica delle conoscenze per i media main stream, per cui si chiede aiuto ad amici giornalisti, mentre queste organizzazioni hanno negoziato da subito con i principali programmi televisivi l’acquisto di spazi pubblicitari. Una volta, per capire come è cambiato il paradigma, alla Rai c’era il segretariato sociale che dava gratuitamente degli spazi, ora esiste ancora ma è marginale rispetto agli spazi che acquistano direttamente alcune Ong internazionali.
Queste ong hanno raccolto e raccolgono molte risorse, anche in questi ultimi anni di crisi. Essendo ben strutturate hanno, da una parte e in piccola parte, cooptato alcuni bravi operatori sociali e alcuni quadri intermedi dei partiti di governo, come hanno sempre fatto le associazioni italiane, ma soprattutto investono nel campo specifico della vendita del prodotto umanitario: assumendo ampi gruppi di comunicatori, è stato costruito un brand, un marchio. Un marchio importato dall’estero, dalle case madri. Si parla infatti di family, famiglie di ong che si muovono insieme in tutto il mondo con gli stessi prodotti comunicativi, come ad esempio fanno Save the Children, ActionAid, Medici senza frontiere, Oxfam.
Questo processo di aziendalizzazione del sociale ha fatto sì che, oggi in Italia, esistano dei colossi del sociale, non solo di provenienza internazionale, la cui crescita è andata di pari passo con la destrutturazione completa del welfare, col venire meno di una serie di servizi. Si tratta di organizzazioni enormemente liquide che non hanno neanche il problema di dover discutere del piccolo bando, del piccolo finanziamento solitamente vitali per le organizzazioni del sociale. Le imprese del sociale internazionali negoziano direttamente con le grandi industrie, che prevedono sempre una percentuale dei loro ricavi in beneficenza: questa carità aziendale può equivalere a finanziamenti di un milione, due milioni di euro alla volta. Ovviamente alla grande impresa fa gioco che ci sia un marchio affermato tra i suoi beneficiari, che diventa una sorta di auto-pubblicità indiretta e positiva. Sappiamo oggi dell’esistenza, oltre al green wash (la pratica di finanziare progetti ambientalisti da parte di aziende inquinanti per “lavarsi” la coscienza e la facciata) anche del blue wash per chi dona alle Nazioni Unite. Uno dei più grandi donatori, nella cooperazione internazionale, è l’Eni che finanzia progetti sociali nei paesi strategici, dove ci sono interessi aziendali.
La vittima in questo processo è la rete di protezione sociale, quella dei servizi. Non è possibile accusare le grandi organizzazioni di questo stillicidio di tagli al sociale, perché riguarda un processo molto più articolato che ha origine nelle scelte politiche degli ultimi venti anni. In cui le grandi organizzazioni hanno un ruolo di stampella non necessariamente di attore principale.
Queste multinazionali del bene, dopo dieci anni nel nostro paese, si sono rese conto negli ultimi anni in cui la crisi è stata molto forte di come non fosse più possibile costruire una narrazione, o meglio una comunicazione volta alla raccolta fondi, operando solo all’estero. Un paese in crisi e in difficoltà, come l’Italia, necessita di messaggi che aggancino i potenziali donatori alla loro difficile realtà. Dunque si sono aperti dei servizi caritatevoli, proliferano le attività nel nostro paese. Le organizzazioni che hanno investito solo sul marketing si sono trovate in difficoltà, e stanno ovviando alla penuria di operatori attraverso una grandissima campagna acquisti di operatori sociali precari, talvolta molto competenti, altre volte meno, o di intere associazioni. Ci si chiede però quale sia, in realtà, la capacità di intervenire per il benessere dei bambini in un determinato luogo e in un modo efficace quando le scelte sono fatte pensando sempre al marketing e non solo alla mappa dei bisogni. Ci sono operatori sociali molto bravi, ma anche manager che gestiscono programmi sull’infanzia e che non sanno di cosa stanno parlando. Tutto ciò sta avvenendo da alcuni anni, soprattutto, nelle periferie meridionali del nostro paese.
La capacità di penetrazione di queste multinazionali, in aree depresse del nostro paese, è molto evidente: possono contare su una capacità di interlocuzione istituzionale molto alta, portata dalla visibilità del loro marchio; garantiscono visibilità alle istituzioni, sindaci e assessori che gli concedono spazi e affidano servizi come i centri territoriali o le social card; e hanno – soprattutto – un capitale da investire con un pubblico sempre più in difficoltà. Così lentamente queste organizzazioni hanno acquistato sempre più potere e trasformato il sociale. Ormai è pacifica l’idea, per fare un esempio, del potenziale di co-finanziamento da parte di chi eroga i servizi, cioè di quanti soldi una organizzazione può garantire per un progetto sociale. L’ente pubblico che una volta garantiva dei servizi, prima li affidava con bandi al ribasso, oggi li affida a chi può pagarli in parte. Diventando sempre più prigioniero di logiche di mercato, visibilità e mai rispondendo alle esigenze di persone e territori.
Eppure in tutta questa trasformazione si è persa la cultura sociale, del servizio e del territorio: anche cooptando dei bravi operatori, si tratta di un processo non più associativo, che si alimenta attraverso il marketing e la comunicazione. Gli operatori cooptati lavorano per un’azienda, che ha come obiettivo il rivendere il loro lavoro, non garantire i servizi. Si è imposto il modello di intervento sociale anti-associativo e anti-democratico poiché non si condividono le decisioni ed è teso a prendere spazi e aumentare bilanci. Il termine Ong è ormai improprio per queste organizzazione di impresa sociale: tutti i meccanismi sono aziendali e non è rimasto nulla di associativo. Anche le strutture si sono rese simili alle dinamiche del mercato: un direttore di un’organizzazione del genere può guadagnare migliaia di euro al mese ed è tutto legittimo, nel senso, che è commisurato ai risultati interni di bilancio. È diventato un manager del sociale, cosa che negli Stati Uniti è normale dove esistono grandi organizzazioni che hanno bilanci di 400-500 milioni di dollari, i cui direttori possono chiamare quotidianamente al telefono il presidente americano e hanno salari intorno ai 300-400 mila dollari all’anno. Che sia chiaro, queste logiche sono ormai proprie anche di tante italianissime organizzazioni. Poca democrazia, dirigenti padroni e obiettivi legati al fatturato non alla, eventuale, missione sociale.
Tra le culture proprie dei bravi operatori sociali c’è sempre stata quella della disobbedienza, non obbligatoria ma necessaria quando le istituzioni e il potere vogliono imporre scelte sbagliate. Un operatore, sulla base della forza di una realtà territoriale, può avere la capacità di dire dei “no”, di opporsi, di discutere e di negoziare. Questa è stata ed è la storia di tanti interventi sociali del passato e di alcune zone e periferie del nostro paese. L’opzione è del tutto assente in questa riorganizzazione dei servizi in base alla carità, visto che la capacità e l’obiettivo di emancipazione dei soggetti scompare.
Anche dal punto di vista dei progetti di interesse le cose sono, radicalmente, cambiate. Le grandi organizzazioni impongono, sempre in termini di marketing, le mode del sociale. Ad esempio se viene deciso dall’alto, cioè dagli esperti di mercato, che questo è l’anno del “minore non accompagnato”, in tutte le sedi verrà data precedenza a questo tema. L’interlocuzione istituzionale privilegiata, sulla base della forza economica, diventa una possibilità di impostare le politiche, ed i bandi, a livello nazionale, europeo, delle Nazioni unite. È evidente che l’ottica è molto più quella del marketing che dell’analisi dei problemi, cioè dal basso verso l’alto, e tantomeno della definizione di quali siano i bisogni dei minori in un territorio. E sappiamo che siamo sempre di fronte a questioni che riguardano in senso ampio gli spazi, le persone, le famiglie, le scuole, mai una singola categoria di persone.
Magari queste organizzazioni conoscono la strategia di marketing per il prossimo triennio, ma l’analisi del paese in cui operano è sempre marginale o strumentale. Al contrario si fa un ragionamento probabilmente in altre sedi, si raccolgono delle informazioni di sondaggi e studi sui potenziali donatori e si decide che una, e una sola, è la strada da seguire. Esiste da sempre, è vero, un’ampia possibilità di errore nel sociale, di organizzazioni che dicono A e fanno B, di bandi costruiti male che costringono gli operatori a fare di necessità virtù. Ma queste problematiche ci sono sempre state, mentre la scomparsa di una forte cultura sociale è preoccupante. E le organizzazioni multinazionali fanno le acquisizioni, come per i rami di azienda per acquistare nel loro portafoglio anche la cultura del sociale. Così la grande organizzazioni ne acquisisce una più piccola per dotarsi del know how in un determinato settore. Non è un caso, ad esempio, che Save the Children abbia acquisito Merlin, una grande ong inglese di servizi medici una sorta di Emergency, garantendosi in questo modo un nuovo know-how in campo sanitario.
Siamo di fronte a logiche appunto di puro mercato ed è questo il problema fondamentale se si pensa a quella che è stata la lotta, la storia del sociale in Italia, che ha portato alla creazione degli spazi adeguati, dei servizi, di una cultura pedagogica e di educazione. Tutto questo sta scomparendo o è già scomparso e si è imposto un modello di welfare caritatevole e di mercato, sostanzialmente privato, affidato al buon cuore e alle scelte di un’organizzazione privata e non più a una guida reale ed efficace da parte degli enti pubblici. Può essere legittimo che delle aziende del privato sociale facciano le loro campagne, il loro marketing. È però meno legittimo che diventino i soli soggetti che definiscono le politiche sociali collettive, per forza di cose piegate alle loro campagne pubblicitarie. Inoltre è altrettanto meno legittimo che questo avvenga nel disfacimento dello Stato e dei servizi pubblici. Pensiamo a dei Comuni a rischio di fallimento economico, come quello di Napoli, che non ha una euro, spesso neanche per garantire gli asili. Dove o interviene il privato e la sua carità o scompare il servizio. Un esempio inquietante sono le cliniche private per poveri, come quella di Emergency a Mestre (e la sanità veneta era una delle migliori in Italia fino a poco tempo fa), dove buona parte degli utenti sono italiani e non solo migranti, e tutti hanno bisogno di un servizio totalmente gratuito e soprattutto più efficiente.
Ripeto il problema riguarda tutti ed è la nuova forma del privato sociale all’interno della ristrutturazione e distruzione del welfare. E sono coinvolte cooperative, grandi organizzazioni internazionali e organizzazioni italiane laiche e religiose. Lampedusa è il caso emblematico di come queste imprese private sociali non attuino alcun tipo di contestazione. Non bisogna dimenticare che a Lampedusa, oltre ai militari, carabinieri, polizia, capitaneria di bordo, c’è anche il personale delle organizzazioni umanitarie che per anni e intere stagioni non ha denunciato lo stato di degrado e di disumanizzazione nel centro di accoglienza dell’isola. Un’organizzazione o associazione non governativa, quindi in teoria autonoma, ha il dovere di fare questo tipo di denunce, di disertare quando non si rispettano le regole. Nella maggior parte dei casi, per Lampedusa, si è trattato di cooperative che assumono precari, sfruttati che diventano a loro volta carnefici di altri disgraziati. E poi di grandi organizzazioni che si sono vendute la storia che accoglievano i migranti mentre tacevano la vergogna di quel centro di accoglienza. Ci si domanda come mai queste organizzazioni, che investono molto sui diritti dei bambini vittime di conflitti bellici, non abbiano alzato la loro voce contro il centro d’accoglienza di Lampedusa.
Anche dal punto di vista dell’immaginario pubblicitario umanitario le cose sono mutate: vent’anni fa si sono diffuse le prime immagini di bambini affamati del Biafra, con la pancia gonfia per il lungo digiuno e le mosche intorno agli occhi e al naso. Adesso la qualità delle immagini è migliore e le tecniche di ricatto emotivo sono più raffinate. Gli stereotipi funzionano ancora bene, come il campo profughi che piace sempre molto e coglie subito l’immaginario di chi legge un articolo, anche se poi, ad esempio, i profughi siriani dell’ultimo periodo non sono ospitati in maggioranza nei campi profughi. In una logica di mercato, come quella di molte organizzazioni che difendono i diritti dei bambini, c’è la necessità di vendere il “prodotto bambino”. Un video recente, di richiesta fondi, sulla Siria è diventato virale ed è esemplare di come le tecniche di comunicazione si sono raffinate: il video documenta la vita normale di un bambino siriano (è tutto girato in estrema soggettiva) finché non viene stravolta dalla guerra. Si vedono immagini di vita normale nelle quali ci si può immedesimare, fino a che non sopraggiunge un conflitto bellico terribile. Un linguaggio semplice e immediato, realizzato in modo pregevole e elevatissimo a livello tecnico. Si tratta, comunque, di messaggi più o meno strutturati, ma sempre costruiti con un’immediatezza e una capacità di cogliere nell’animo delle persone che sono portate a empatizzare e poi comprare/donare per il prodotto umanitario.
Un altro elemento di puro marketing è la vendita porta a porta, fatta dai cosiddetti dialogatori. L’associazionismo italiano è cresciuto nella cultura della diffusione tramite banchetto nelle piazze e nelle strade, luoghi pubblici dove incontrare, parlare, discutere, trasmettere campagne e iniziative. La logica del dialogatore è diversa perché commerciale. I dialogatori sono ragazzi che spesso hanno maturato un percorso di studi in cui avrebbero voluto impegnarsi nel sociale e che invece vendono prodotti umanitari e, assunti da agenzie interinali, si trovano proiettati all’interno di un meccanismo puramente aziendale. Impegnati a far firmare fogli di carta in cui ci si impegna per qualcosa. Alcuni di loro, addirittura, guadagnano a provvigione. Si tende a pensare che i “dialogatori” non siano più efficaci come 5-10 anni fa, che siano diventati solo elemento di disturbo, ma se ancora proliferano vuol dire che il mercato li premia e che riescono a raccogliere molte donazioni.
Buona parte del welfare caritatevole riguarda poi le adozioni a distanza. Anche in questo caso il prodotto è il bambino come consumo, poiché si consuma anche donando. Ci sono organizzazioni in Italia che hanno bilanci di 20 milioni di euro solo di adozioni a distanza. Andrebbero chiamati, nella maggior parte dei casi, sostegni a distanza, ma “adozione” è un termina evocativo e crea maggior empatia. Il sostegno sarebbe una cosa più complicata che peraltro prevede una relazione e non una o due lettere all’anno. ed è praticato da molte piccole organizzazioni che però non fanno marketing ma provano a costruire appunto una relazioni tra chi sostiene in Italia e chi è sostenuto. E di solito i sostenuti sono intere famiglie e mai il singolo bambino.
L’impressione è che, tendenzialmente, il processo sia inevitabile, vinceranno questo tipo di grandi imprese del sociale e il welfare caritatevole sarà sempre più la regola e contemporaneamente si ampliearanno le sacche di diseguaglianza. L’ultimo baluardo può essere rappresentato dalla Chiesa Cattolica, cioè l’istituzione caritatevole per eccellenza, causa spesso di enormi problemi, ma anche di solide culture politiche e sociali non costruite sul marketing e con un fortissimo radicamento territoriale. La resistenza delle associazioni di base cattoliche la si vede ancora nei risultati annuali del 5 per mille, nei quali il gruppo delle grandi multinazionali si pone ai primiposti, seguito, dopo la ricchissima associazione dei notai (che evidentemente versano a loro stessi il 5*1000), dalle organizzazioni cattoliche con un forte radicamento sociale e poi un’infinità di soggetti piccoli e debolissimi. Il 5 per mille è sintomatico di come sarà il welfare di domani: dovrà essere fattto di fondi privati e ogni singolo euro sarà conquistato con il coltello in bocca, nei territori, casa per casa, persona per persona. Ovviamente i pesci piccoli nel lungo periodo verranno divorati, dai grandi supermercati del bene.