Il sol dell’avvenire
Quando oltre un decennio fa mettemmo in campo il progetto “Centro Territoriale Mammut” lo facemmo per dare gambe e ali a una consapevolezza maturata nei precedenti dieci anni di lavoro sul campo: la necessità di intervenire più incisivamente sui mille problemi che ci trovavamo ad affrontare, uscendo da quelle che erano diventate gabbie anziché volani di cambiamento sociale. Alla ricerca quindi di un nuovo modo di essere organizzazione di base, in grado di superare i modelli di aggregazione politica e sociale rimasti ostaggio di una visione non funzionale al cambiamento, quanto al mantenimento della propria organizzazione. Alla salvaguardia dei piccoli e grandi poteri che erano riusciti ad accumulare, in equilibri quasi sempre molto costosi (in termini di fatica esistenziale, malattie e piacevolezza di vivere, prima ancora che economici) prima di tutto per gli stessi membri di quelle organizzazioni.
Ci dicemmo che era necessario partire da un’analisi della realtà che non fosse più succube degli alti e bassi umorali, dei calcoli di convenienza per il proprio gruppo, ma finalmente in grado di indagare la realtà esterna ripulendola da pulsioni e proiezioni del proprio irrisolto psicologico individuale e di gruppo. Ripartire quindi dal contatto con la realtà. Solo così avremmo potuto mettere in campo un’azione davvero incisiva.
Il modello della ricerca azione ci sembrò il più adeguato, portandoci a pescare tra quelle pratiche capaci di vera circolarità tra campo e teoria. Esperienze come l’inchiesta di base degli anni Settanta o la ricerca di Le Bohec attorno alla parola e quelle della psicologia umanistica hanno arricchito il nostro bagaglio. Assieme alle azioni messe in campo con grandi e piccini in giro per l’Italia: i tanti cerchi da cui abbiamo “munto” quelle che sono oggi le nostre nuove possibili basi.
Sicuramente non possiamo dichiararci insoddisfatti per il cammino di questi anni, per molti versi segnati da coincidenze e eventi fortunatissimi. Essendo più o meno certi ormai che un percorso di ricerca azione fatto come si deve sia davvero in grado di smuovere le montagne.
Allo stesso tempo non abbiamo potuto chiudere gli occhi avanti alle amarezze che l’incontro con la realtà è andato regalandoci. Come Mammut per primi siamo caduti nelle principali trappole che si presentano a chi fa ricerca. A partire dalla questione della sopravvivenza personale e dell’organizzazione, l’avere il respiro corto per la continua carenza di risorse umane ed economiche (tema a cui non abbiamo trovato ancora una soluzione!). C’è poi quella sorta di automatismo che ti fa credere di dover scovare il marcio a ogni costo e di doverti focalizzare il più possibile su di esso. In ottemperanza a una doppia necessità: (quella psicologica) continuare a interpretare la parte dei Salvatore mascherato e (l’altra economica) convincere i possibili finanziatori della necessità di sostenere l’intervento. Benché abbiamo cercato in ogni modo di avversare questi terreni paludosi, non possiamo non ammettere, ahinoi, che anche il Mammut si è più di una volta trovato a navigare per questi mari. Finendo a fare quello che molti altri gruppi fanno con totale disinvoltura ormai, senza crearsi troppi problemi: abbiamo più di una volta spostato la nostra bussola, cadendo nella litania del racconto narcisistico, dei duri e puri, dei bravi e intelligenti a ogni costo, naturalmente incompresi. Questa e altre storie abbiamo cominciato a raccontarci sempre con maggiore convinzione, accorgendoci troppo tardi che il racconto era diventato la nuova prigione.
Ampliando il campo
Napoli e la Campania costituiscono per noi ancora una volta un’impareggiabile lente di ingrandimento, capace di far risaltare dinamiche di sicuro presenti anche a livello mondiale, ma che qua si vedono meglio, perché ingigantite e spesso più spettacolarmente sceneggiate.
La situazione vissuta in Campania è infatti per molti versi paradossale ed estrema: decenni di mala politica hanno visto riportare danni senza pari in ognuno dei settori del vivere comune. Dalla sanità, alla scuola, al mantenimento di un buono stato di città e siti naturalistici, al disequilibrio tra ricchi e poveri, alla costante sensazione di precarietà economica in cui molta parte dei cittadini versa. Situazione che sta avendo ultimamente preoccupanti moti regressivi, in fenomeni come lo spaccio, il controllo del territorio da parte della camorra, la dispersione scolastica, la miseria in cui una non irrilevante fetta di popolazione versa. Lo stato di salute delle nostre campagne è forse uno dei settori più eloquenti.
Sappiamo ormai tutto, o quasi, del disastro in cui versiamo, grazie al prezioso sforzo di molte menti e movimenti che in questi anni si sono dedicati a un’analisi approfondita e capillare di quanto marcio ci fosse nel Potere nostrano. Funzione di smascheramento che, intendiamoci, riteniamo fondamentale, perché capace di portare una qualche trasformazione anche culturale, anche in Campania. Eppure, secondo noi, a questo punto (o forse ormai da un bel po’) è proprio questa stessa capacità di analisi e il relativo impiego delle energie migliori (perché più “pure”, vive, intelligenti, scrupolose e meno interessate al Potere) nella ricerca del marcio a essere diventato uno dei grandi ostacoli al cambiamento. Essendosi trasformata questa ricerca in una spinta non solo disfunzionale al cambiamento, ma anche capace di (co-)produrre la cultura del fantomatico populismo, costruendo il bagaglio cognitivo-emozionale da cui attingono a piene mani i peggiori leader politici del momento. Per la sua esiguità numerica il “gruppo” (che gruppo non è, perché piuttosto costellazione di identità individuali e collettive quanto mai variegate e spesso l’un contro l’altra armata) di persone di cui stiamo parlando potrebbe essere liquidato come irrilevante. Percentualmente non raggiungerebbero il 5% in termini elettorali, eppure essendo tra le poche menti pensanti rimaste al Paese, questo gruppo si è dimostrato in grado di esercitare un’influenza non irrilevante anche sul pensiero prevalente. Non stiamo parlando di banali dietrologie pilotate da interessi economici e di Potere. Ci riferiamo piuttosto a un corto circuito culturale, che si è venuto a creare nell’intreccio tra l’abitudine a ricercare il male, la visione apocalittica e la paralisi autolesionista. L’analisi del male è diventata a un certo punto “paralisi” prima di tutto per quelle forze sane che avrebbero potuto e dovuto occuparsi di commutare il male in bene. E non è questo un fenomeno ascrivibile agli ultimi anni, in quanto la comunicazione di scienziati e attivisti capaci di suscitare l’allerta in ambito ecologico risale almeno agli anni Settanta. Anziché unire le forze per tracciare nuovi solchi possibili di umanità nuova, si è venuto a sclerotizzare uno scenario dove chi avrebbe potuto avere la forza di cambiare le cose, è rimasto ostaggio del proprio filone narrativo, del mito macabro che è andato raccontandosi individualmente e in gruppo, mito attorno a cui ha preso forma il proprio equilibrio di vita (un equilibrio molte volte tristissimo, ma comunque si sa che è molto difficile uscire dalle proprie certezze, anche quando queste sono diventate prigioni).
È come se fossero andati a intrecciarsi gli approcci più nobili dell’analisi e dell’intervento sociale, ma nel modo peggiore, lasciando cioè da parte ogni aspetto di salvazione per estrarne il solo fattore persecutorio. Da una parte la cultura cattolica, dove in molti hanno finito per rimanere orfani del Dio che ne era la premessa, per far proprio solo il lato persecutorio e apocalittico. L’uomo è cattivo, deve espiare, la Terra è in mano al Male, non c’è salvezza non c’è speranza… Per quanto assurdo, per tanti (atei, ma anche buddisti o convertiti ad altra fede) questi costrutti sono diventati il deposito del proprio super-io, principi e idee depositatisi alla base, spesso del tutto inconsapevolmente, del proprio dover essere. Dimenticandosi però che premessa dell’approccio cattolico era il messaggio di salvezza spirituale, soprattuto nel Nuovo Testamento, dove il buon catechismo insegna sin da bambini che il messaggio di cui farsi portatori è quello della Buona Novella, della possibilità di farcela malgrado tutte le sofferenze e il male, se si persegue il Regno dei Cieli e si accetta l’amore di Dio. L’altro approccio, quello proveniente da ambiti anarco-social-comunisti, convinti che le istituzioni (almeno quelle borghesi) sono cattive a prescindere, il Potere (borghese) è cattivo (sempre) e ogni sforzo militante va direzionato verso la dimostrazione di queste premesse. Anche chi si ispira a questi approcci (di certo più eterogenei rispetto a quello cattolico) sembra aver dimenticato che l’opera di distruzione aveva una finalizzazione salvifica, non nell’ultraterreno ma in una società più giusta che gli uomini avrebbero potuto costituire su questa Terra. Sappiamo bene che stiamo generalizzando per grandi linee un discorso complesso e ne chiediamo scusa, stando davvero troppo stretti in questa categorizzazione filoni di pensiero come quelli ispirati a Bakunin. Ma per il momento questa banalizzazione basta al nostro ragionamento sui perché della paralisi e del graduale peggioramento dello stato di salute del nostro vivere collettivo.
Non di rado, esponenti di entrambi gli approcci (li chiamiamo “cattolici senza Dio” e “materialisti rivoluzionari”) hanno miscelato questa visone apocalittica con la visione narcisistica di sé come superuomo, massimamente intelligente quanto incompreso dalla massa (l’intellettuale maledetto), all’insegna dell’arroganza e di un incrollabile complesso di superiorità (che sappiamo non essere altro che un complesso di inferiorità camuffato). Caratteristiche che hanno attinto a piene mani da strutture caratteriali individuali predisposte a questo tipo di cultura. Strutture caratteriali con molti tratti comuni, come la propensione ad appartenere a una sorta di comunità dei perdenti, dove l’unica cosa che conta è fare la guerra, non fa niente se si perde (anzi, meglio). Modalità questa ampiamente studiata nella psicologia quanto nella sociologia dei gruppi, con protagonisti soldati bravissimi ma che non vincono mai una guerra o, per rimanere nella metafora napoletana, calciatori super prestigiosi che non riescono a segnare un gol. Tipologie caratteriali il cui tratto più inquietante è l’aver perso le radici nella vita. Tanto che la si voglia vedere da un punto di vista spirituale (perso il contatto con il divino); o del materialismo rivoluzionario (siamo tutti più o meno schiavi di bisogni indotti, controllati e manipolati più che mai dal Potere); scientifico (smarrito il contatto con la curiosità e la sete di conoscenza originarie); o da quello psicologico. Dove molti sono gli studi che confermerebbero il distacco tra mente e corpo, tra i pensieri e la base vitale, la radice organica che consentirebbe loro di essere connessa con l’energia vitale. Ad esempio Alexander Lowen (iniziatore della bioenergetica) e il suo collare energetico forniscono materiale prezioso per chi volesse approfondire questi aspetti. Da Lowen prendiamo in prestito la metafora del “pantano masochistico” (che l’autore riferiva a una precisa struttura caratteriale) ma che a noi sembra quanto mai utile a fotografare la situazione di impasse politica che si è venuta a creare. Non avendo più contatto sufficiente con la propria energia vitale, viviamo la strana condizione di un diffuso vampirismo sociale, dove la disgrazia e gli abusatori sono diventati la preda più agognata.
È un po’ come se, incuranti del saggio detto popolare, ci si fosse tenuti l’acqua sporca, buttando via il bambino.
Altro aspetto disarmante di questa modalità di stare nel sociale è forse la mancanza di volontà di abbattere davvero il Potere marcio. In molte circostanze abbiamo potuto osservare la costituzione di una sorta di legame simbiotico perverso tra i poli opposti dei “puri e duri” e dei “Poteri forti”. Come tra quell’adolescente che consuma la sua fase di vita nel demolire e smontare l’autorità genitoriale, ma che se non ci fossero i genitori cadrebbe nel più profondo sconforto. Così in molti casi sembra che non ci sia nessuna reale volontà di detronizzare i Potenti, perché in quel caso bisognerebbe in qualche modo assumerne il ruolo, e l’intenzione di farlo non c’è proprio.
Eros
L’impressione è insomma che anche la parte migliore della nostra umanità sia rimasta sopraffatta dalla pulsione di morte, con tutte le sue derivazioni e possibili applicazioni. Angoscia di morte sciorinata in ogni salsa, connotando di energia mortifera il sotto-messaggio più profondo delle nostre azioni di denuncia e rivolta. Per dirla con Freud è come se anche questa parte di umanità avesse cominciato a votarsi al Thanatos e non più all’Eros, Eros da escludere e tacciare come sporco nemico.
Il tutto ha finito per produrre un movimento di distruzione attraverso strumenti anche sofisticati di analisi, il più delle volte capaci solo di confermare quanto intelligenti e illuminati siano i denuncianti e quanto marci e irrecuperabili i Poteri. Falsando prima di tutto il piano della ricerca e dell’inchiesta di base, che si è vista annullare la necessità metodologica minima di avere un’ipotesi attorno a cui raccogliere tracce e prove capaci di validarla o meno. L’ipotesi sembra essere sempre la stessa: “Il potere fa schifo, è marcio e la vita su questa terra è un disastro e finirà a breve perché gli uomini cattivi l’hanno distrutta”, e tutto quello che c’è da fare è cercare prove che portino acqua a questa tesi. È facile vedere quanto questa ipotesi non sia solo campana ma mondiale.
Non più ricerca e inchiesta di base rigorose, ma un lavoro di scrittura minato alla base dalla falsità dello spirito che lo anima, proprio come fa il Potere. “Malattia” che ha fatto vittime in ognuno dei campi dove un’impostazione di ricerca sarebbe necessaria, dal giornalismo, all’attivismo di base, al volontariato, alla cooperazione internazionale, al mondo del cinema e del teatro. In un momento più critico che mai per la ricerca accademica, sempre più condizionata da carrierismo e dalle richieste degli sponsor che la finanziano, schizofrenica quanto mai nella distanza tra campo e teoria. Spesso assistiamo al doppio binario di chi, per committenza (da università, enti di ricerca e affini) cerca e diffonde dati e notizie positive, salvo poi indossare i panni del più convinto critico apocalittico quando si trova a militare nei gruppi di base.
Una visione unica, quella del liberismo/capitalismo, ha finito così per avere terreno libero, grazie anche al grande vuoto apertosi rispetto al potere creatore (che solo l’Eros ha). I Poteri peggiori di questa terra hanno avuto la libertà di perseguire i propri scopi senza più rivali (in mancanza cioè di soggetti capaci di promuovere una visione realizzativa di società terrene verso cui tendere).
Trappola in cui, malgrado le buone intenzioni, non abbiamo difficoltà ad ammettere che, nel nostro piccolo, siamo caduti anche noi, oggi più che mai alla ricerca di strade di uscita autentiche e non superficiali.
Una via d’uscita c’è
Un primo passo è quello di essere ancora più radicali nell’applicare la metodologia della ricerca-azione, a partire dall’onestà intellettuale di chi la propone e la attua. Un secondo sarebbe forse porsi delle domande attorno a questa intenzione: l’obiettivo è cambiare quello che non va o rimanere nel problema. Nel caso si opti per la volontà di cambiamento, non si potrà probabilmente che partire da una visione che lo renda realizzabile. Una visione il meno particolare possibile, ma capace di comprendere un punto di arrivo per l’umanità nel suo insieme. Senza sfociare nella megalomania, ma semplicemente tenendo presente gli insegnamenti di maestri come John Dewey, per cui è impossibile fare educazione senza avere presente una modello di società auspicabile verso cui tendere. “È per questo che sono convinto che la Weltanschauung (n.d.a.: una visione del mondo) non possiamo crearla a nostro piacimento, essa deve sorgere spontaneamente dal fondo stesso della cultura, per cui non dipende né dalla scienza né da un genio particolare. La visione del mondo è il mito inglobante di una cultura”, scriveva Raimon Panikkar, tra i più lucidi filosofi del nostro tempo, fautore del dialogo interculturale e interreligioso. Fare insomma della visione di cambiamento e di uscita dal problema la nuova ipotesi attorno a cui indagare con altrettanta onestà intellettuale e vigore. Questi e altri passi implicheranno probabilmente un atto di coraggio iniziale: rinunciare all’appartenenza al “gruppo” di cui sopra e al conformismo sociale che ne consegue. Atto molto più difficile di quanto si immagini, perché il bisogno di appartenenza è una delle pulsioni più forti che l’individuo conosca (come ci hanno dimostrato sociologi come Elias o psicologi come Foulkes).
L’esempio delle terre inquinate in Campania torna di nuovo utile al nostro ragionamento. Tutti sanno quanto sia disastroso lo stato attuale delle campagne nella Terra di lavoro, ma in pochi conoscono gli esperimenti (a quanto pare riusciti) come quelli di San Giuseppiello, nel giuglianese, a opera di un gruppo di studiosi della facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli, guidati dal prof. Massimo Fagnano. Esempi che andrebbero fatti conoscere e portati a modello. Fare della via d’uscita l’ipotesi della propria ricerca, non vuol dire assolutamente rinunciare alla funzione critica, di osservazione e denuncia. C’è di sicuro da indagare su quanto interventi come questi siano validi nel tempo, ma anche da battagliare, visto la fine che sta per fare l’ex area Resit, sito ben più ampio e da molti associato alle vicende virtuose di San Giuseppiello. La differenza sta nel pensare a queste come azioni inserite nell’ambito di una ricerca tesa alla realizzazione di una visione di cambiamento, alla conferma di un’ipotesi positiva da validare. Cosa molto diversa dal mettere in campo sforzi senza forza, perché rassegnati e fallimentari (forse perché tesi a confermare la vera ipotesi/visione attorno a cui si sta contribuendo, quella del senza speranza e del dimostrare che tutto fa schifo).
La proposta è insomma il ritorno radicale a una prospettiva dell’Eros, campo verso cui schierarsi con determinazione. E, come ci insegna la pedagogia, non solo con idee e pensieri. È necessario recuperare la profondità vitale che è stata alla base dei veri rivoluzionari di ogni tempo, a cui ricollegare le idee e i pensieri del tempo nuovo. Ancora una volta da qualsiasi prospettiva la si voglia guardare, bisogna trovare una nuova radice vitale, che ci permetta di attingere a quella che la religione chiama Dio, la tradizione materialista foga di giustizia sociale, la scienza rigore della ricerca, la psicologia parte vitale di sé. È arrivato il tempo che il pensiero radicale si spogli della sua arroganza/paura di essere un umano “normale”, tornando finalmente a servire la Vita.
La foto è tratta da Farmacia notturna dei fratelli D’innocenzo (Contrasto 2019).