Il sindacato italiano, il grande assente

Ma il movimento sindacale che progetto ha per il Paese? Non ci si pone neppure la domanda, tanto si dà per scontata l’assenza di qualsiasi segnale o cenno di proposte. Una mancanza ancor più sconcertante nel momento in cui il Paese sta attraversando la crisi più profonda dal secondo dopoguerra. È comune la sensazione che il Covid-19 abbia esasperato le storture di un sistema, quello capitalistico a trazione neoliberista, che aveva già da tempo esaurito la tanto decantata spinta propulsiva, annunciata oltre trent’anni fa con la promessa di crescita e maggiore ricchezza per tutti. Erano evidenti da tempo gli effetti collaterali insostenibili: aumento della povertà e delle disuguaglianze, incontrollabile degrado dell’ambiente e depredazione delle risorse naturali.
In questo contesto appare impressionante il silenzio di un soggetto, il movimento sindacale, che nella storia di questo Paese, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, aveva svolto un ruolo di primo piano nella ricostruzione sociale e civile.
Abbiamo assistito alla performance molto strombazzata dei “tecnici” della Commissione Colao, presentata come il pensatoio che avrebbe ridisegnato la società e l’economia italiana; quotidianamente ci giunge la litania della Confindustria e delle varie associazioni imprenditoriali di categoria che chiedono risorse pubbliche a man bassa. Ma da questi soggetti la prospettiva che viene delineata nella sostanza è quella di rilanciare sui vecchi binari la megamacchina acciaccata del sistema, attraverso l’immissione di un fiume di euro, che stranamente fino a ieri mancavano per garantire, ad esempio, uno stato sociale decente e un sistema sanitario capace di fronteggiare una pandemia risparmiandoci tante morti evitabili.
In questo contesto appare impressionante il silenzio di un soggetto, il movimento sindacale, che nella storia di questo Paese, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, aveva svolto un ruolo di primo piano nella ricostruzione sociale e civile.
In verità a un osservatore attento che non si limita alle notizie veicolate dai grandi mass media non sfugge il fiorire di una progettazione alternativa, ancorché espressa da piccoli gruppi, ricca di proposte che colgono questa fase come un’occasione per intraprendere finalmente un percorso nuovo, nel segno di una vera ricostruzione sociale ed ecologica. Il problema è che tutte queste belle idee non trovano gambe e forza per imporsi a un sistema economico e produttivo troppo incline a perseguire il profitto immediato, riluttante a incorporare i costi ambientali e sociali, pena la perdita della cosiddetta competitività. Ma nel cuore del sistema produttivo che si vorrebbe cambiare radicalmente vi sono, anche e soprattutto, gli operai, gli impiegati, i tecnici, la manodopera come si diceva una volta, più o meno organizzati nei sindacati. E senza il protagonismo di costoro sembra davvero difficile realizzare l’auspicabile profondo cambiamento. Occorre solo ricordare che le più importanti conquiste di civiltà ottenute in questo Paese nel secolo scorso furono il frutto delle battaglie intraprese dal movimento operaio, insieme ad ampi settori della società, tra cui i giovani e gli studenti, tra fine anni sessanta e gli anni settanta: dallo Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970 alla riforma sanitaria del 1978, solo per citarne due tra le più significative. In quella fase l’Italia è stata rivoltata come un calzino e fu ridotta significativamente la distanza tra costituzione formale e costituzione materiale. Ora che raccogliamo i cocci di quest’ultimo trentennio e che si imporrebbe per il bene di tutti e dell’ambiente un’inversione di rotta, il sindacato e i lavoratori sono pressoché muti e annichiliti. Eppure, proprio loro avrebbero il diritto di intervenire e proporre una via d’uscita: su di loro è stato caricato in gran parte il peso dei meccanismi perversi del neoliberismo, con la solitudine in cui sono stati ridotti, con la perdita di diritti e tutele, a partire dalla certezza di un’occupazione stabile, con il peggioramento delle condizioni di lavoro, con le nuove malattie professionali e l’aumento degli infortuni, con il depauperamento dei servizi sociali, dalla previdenza alla sanità. Non solo ne avrebbero il diritto, ma anche il dovere nei confronti di una società, di una politica, di un’imprenditoria, di un’intellettualità, come non mai smarrite, capaci solo di ripetere le vecchie e stantie formulette neoliberiste, come dischi rotti. Avremmo tanto bisogno, oggi, di un sindacato, come si diceva una volta, capace non solo di tutelare efficacemente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche di proporre un’idea diversa di società. Invece, purtroppo, il sindacato balbetta, sembra limitarsi alla pur necessaria e sacrosanta difesa dei lavoratori dagli effetti immediati della pandemia (sospensione dei licenziamenti, estensione della cassa integrazione, riconoscimento della contaminazione da Covid-19 come infortunio sul lavoro…), ma dice troppo poco su come dovrebbero riconvertirsi l’economia e la società, dopo questo sconvolgimento epocale che ha messo a nudo l’insostenibilità sociale e ambientale del sistema.
La Cgil, l’organizzazione cui ho dedicato un pezzo della mia vita, tra il 13 e il 15 novembre scorso ha promosso una serie di incontri, Futura: lavoro, ambiente, innovazione, in collaborazione con Futuralab e visibile su Collettiva.it. Con tutta franchezza la sensazione è di assistere a dibattiti un po’ più strutturati di quelli consueti delle televisioni, in alcuni casi anche con spunti interessanti, ma ben lontani da quanto sarebbe oggi necessario. Il pensiero dello storico non può non evocare il Piano del lavoro per la ricostruzione del Paese dopo la Seconda guerra mondiale elaborato dalla Cgil di Giuseppe Di Vittorio, che nei fatti diventò il riferimento per le forze progressiste nei decenni successivi. Eppure oggi più che mai avremmo bisogno di un progetto di quel livello, un grande Piano del lavoro e dell’ambiente offerto dal sindacato al Paese e sostenuto da un nuovo protagonismo sociale dei lavoratori.
È un rovello che forse appartiene solo a chi, come lo scrivente, ha vissuto tra l’impegno sociale in una prima metà dell’esistenza e l’impegno ambientale nell’altra metà, e che di queste due vite è impastato, senza ripensamenti o impossibili scissioni, con la convinzione (l’illusione?) che questione ecologica e questione sociale o camminano insieme o tutte due restano al palo, confortato, su questo punto, dall’insegnamento della Laudato si’ di Francesco.
Per trovare il bandolo della matassa mi sono rivolto a un amico, vecchio compagno del secolo scorso, Osvaldo Squassina. Apprendista in una fabbrica meccanica fin da ragazzo, poi operaio in un grande complesso siderurgico, dove diventa delegato di reparto e poi sindacalista a tempo pieno fino a dirigere una delle più importanti e combattive organizzazioni dei metalmeccanici Cgil, la Fiom di Brescia. Conclude il suo impegno, dopo il pensionamento, come consigliere regionale, tra il 2005 e il 2010, prima di Rifondazione comunista, poi di Sinistra ecologia e libertà. Dunque, il solito glorioso ex-combattente, testimone nostalgico del passato? Invece Osvaldo, già operaio siderurgico, si trasforma, da autodidatta, in intellettuale, diventa studioso e ricercatore, promuove inchieste sui salari e sulle condizioni di lavoro nel cuore industriale del profondo Nord. Svolge insomma quel ruolo che un tempo era un vanto della cultura più impegnata, prima che gran parte della nostra intellettualità si riducesse a chiacchierare negli studi televisivi.
Confrontarsi con Osvaldo è oggi davvero un privilegio, essendo il suo attuale lavoro tanto prezioso quanto raro. Da questo dialogo possiamo ricavare alcune considerazioni utili per districare la matassa.
L’ubriacatura neoliberista è durata perché, prescindendo da un’analisi qualitativa, la produzione industriale bene o male ha retto fino al dicembre 2019, come anche l’occupazione, certo a scapito delle compressione dei diritti e dei salari dei lavoratori (26mila euro lordi l’anno per gli operai maschi e 17mila per le donne, a fronte di una media di 120mila euro per i dirigenti). Ma la crisi violenta del Covid-19 ha messo in luce i piedi d’argilla della nostra struttura produttiva: da un canto povera di innovazione nei settori di punta e quindi prevalentemente fatta di “contoterzisti” e di componentistica per grandi multinazionali estere in particolare tedesche, dall’altro dipendente da un’idea miope di competitività, basata sulla compressione delle condizioni di lavoro e dei salari, sull’emarginazione del sindacato, sul ripristino del potere assoluto del “padrone” nell’impresa. E così, se si indaga oltre la cortina fumogena della pubblicità, si scopre che l’industria 4.0 italiana è poco più di un’immagine ben curata, ma priva di sostanza, costruita prevalentemente per mungere la mucca degli incentivi pubblici. Insomma, si è puntato sulla riduzione dei costi, del lavoro innanzitutto, come surrogato della mancata innovazione. Dunque il sindacato è stato messo fuori gioco, ma non per questo la tendenza al declino dell’industria italiana e della nostra economia si è invertita. Anzi, con l’emergenza pandemica si è ulteriormente aggravata.
Se si indaga oltre la cortina fumogena della pubblicità, si scopre che l’industria 4.0 italiana è poco più di un’immagine ben curata
Ma perché il sindacato non riesce a uscire dall’angolo neppure in una situazione così eccezionale come quella che sta attraversando il Paese?
Nei gruppi dirigenti pesa ancora come un macigno la sconfitta subita a partire dalla metà degli anni ottanta. Schematicamente, Cisl e Uil hanno deciso che il ruolo del sindacato dovesse caratterizzarsi per una qualificata offerta di servizi ai lavoratori, lasciando agli imprenditori la gestione delle aziende, magari ipotizzando un qualche coinvolgimento dei lavoratori nella distribuzione degli utili.
Ma il conseguente abbandono di un’idea di sindacato portatore anche di un progetto di cambiamento della società ha investito gli stessi gruppi dirigenti della Cgil, che hanno introiettato la sconfitta concentrando le poche energie rimaste nella difesa, quanto più possibile, dei lavoratori.
Si è trattato di un vero e proprio deserto creato attorno al mondo del lavoro, di cui, però, non sono responsabili solo i dirigenti sindacali (a suo tempo, purtroppo, nel sindacato molti pensarono che una svolta moderata che accettasse le compatibilità imposte dal sistema potesse rappresentare una via d’uscita dalle difficoltà). Gli imprenditori, potremmo dire, hanno fatto il loro mestiere, anche se con una strategia di corto respiro. I partiti politici, di quella che si chiamava un tempo la sinistra, in gran parte, com’è noto, si sono accodati sottovento alla tendenza dominante.
E gli intellettuali? Osvaldo ricorda quale fu il contributo fondamentale della cultura e della ricerca in quella mirabile stagione dei diritti nella fabbrica e nella società: quelle conquiste furono il risultato di un incontro straordinariamente fecondo tra la forza e la determinazione dei lavoratori in lotta per il cambiamento e il supporto di elaborazioni e di proposte offerto da ricercatori, tecnici, operatori delle diverse professioni empaticamente dialoganti con loro.
Ma soprattutto era il clima culturale che confortava e rafforzava quella che all’epoca veniva definita “centralità operaia”, intesa come motore essenziale della trasformazione della società. Ora, dice Osvaldo, a regnare è la “solitudine operaia”, il senso profondo di un generale abbandono: la sconfitta patita ha visto troppi “compagni di strada”, tanti intellettuali “amici” dileguarsi e accodarsi al carro dei vincitori. Cosicché lavoratori e sindacati si sono necessariamente ripiegati su se stessi nel tentativo di lenire le ferite subite e che continuano a essere loro inferte.
Solo classi dirigenti miopi possono godere per aver finalmente annichilito questo soggetto sociale. Alla fine, a ben vedere, l’economia, ma anche l’intera società si regge sulle spalle dei lavoratori. Può sembrare perfino banale ricordarlo. Eppure la generale amnesia a questo riguardo rivela come non si comprenda la portata di questa perdita, a maggior ragione nella fase attuale in cui sarebbe indispensabile metter mano a una profonda conversione dei sistemi produttivi e di consumo, guidata non tanto dalle ragioni del profitto e del mercato, ma dal bene comune di tutti gli umani e dell’ambiente. E un soggetto che per sua natura dovrebbe essere collettivo e quindi capace di interpretare il “bene comune” sarebbe una risorsa quanto mai preziosa ed essenziale. Invece si è fatto di tutto per disgregare e atomizzare il movimento dei lavoratori e nella conseguente desertificazione a molti, anche a sinistra, è sembrato che gli unici punti di riferimento rimanessero le imprese e le logiche competitive del mercato. Che ci hanno condotto all’attuale crisi sociale ed ecologica.
Eppure nella cultura del movimento sindacale italiano vi è un patrimonio ricchissimo che potrebbe aiutarci in questo passaggio cruciale. Con Osvaldo abbiamo evocato quella stagione da lui vissuta come delegato sindacale siderurgico: il cosiddetto “modello operaio” di intervento per il risanamento degli ambienti di lavoro e per la prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni, quello che in un recente saggio, che mi permetto di citare, ho ricondotto alle “radici operaie dell’ambientalismo” (M. Ruzzenenti, Le radici operaie dell’ambientalismo italiano, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 43, dicembre 2020).
Osvaldo non ha dubbi. Anche i recenti conflitti tra lavoratori impegnati a difendere l’occupazione e cittadini che protestano per l’inquinamento ambientale nascono da quella sconfitta, dal fatto che lo stesso movimento sindacale ha rimosso quell’esperienza così feconda, cosicché, dopo la disfatta subita, non ha più la forza di imporre un risanamento dei sistemi produttivi che significhi anche miglioramento dell’ambiente circostante in cui vivono i cittadini. Del resto è chiaro che le aziende che non hanno investito in sicurezza e in ambiente sono e saranno sempre più in difficoltà. Il caso dell’Ilva di Taranto è fin troppo eloquente.
La crisi ecologica è evidente da almeno cinquant’anni: non solo non è stata affrontata, ma a essa si è aggiunta, sempre più aggravata nell’ultimo trentennio, la crisi sociale. Non c’è verso: occorre rimettere in campo, accanto e a sostegno di una progettualità alta di cambiamento, il conflitto, le lotte ambientali e sociali, che costringano il sistema a fare ciò che, seguendo le proprie logiche, non sa fare, come ha ampiamente dimostrato. I nuovi movimenti ecologisti sembrano averlo capito, dalle battaglie ormai storiche dei No Tav alle mobilitazioni di Taranto e dei siti industriali inquinati, dalle mamme venete contro la contaminazione dell’acqua da Pfas alle manifestazioni di Basta Veleni a Brescia. Ma la forza d’urto che possono esprimere non è sufficiente. Aprire un canale di confronto tra movimenti ambientalisti e movimento sindacale è quanto mai indispensabile e urgente.
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