Il prima e il dopo: appunti sulla quarantena
Per quanto ne sappiamo, potremmo anche essere caduti dentro un buco nero, senza accorgercene. In termini di fantascienza sarebbe persino auspicabile, consolante: il tempo fermo, la stasi, l’arresto, la clausura forzata, i rapporti sociali interrotti, sbiaditi, ridotti a uno stato larvale, elementarissimo. E questa assoluta incapacità di prefigurare il futuro, guardare “oltre” . Se fosse un buco nero, magari ci sarebbero altre dimensioni temporali, e scappatoie. Un buco nero, ce l’hanno ripetuto all’infinito nemmeno un anno fa, è l’alfa e l’omega di tutto, inizio e fine. L’orizzonte degli eventi: magari ci siamo dentro, chi può dirlo? Un orizzonte senza orizzonte, naturalmente. Di fatto, viviamo un tempo non tempo: l’immagine classica della “freccia” è inadeguata e più calzanti metafore si impongono: gorghi di palude, risciacqui di liquido amniotico, fanghiglia limacciosa, esitante, sabbie (im)mobili: il grado zero della vita politica e umana ai tempi del “distanziamento sociale”, e del lockwdown.
Immersi in questo orizzonte senza orizzonte conviene ragionare sull’attimo prima, sui “presentimenti di ieri” , sui sintomi anticipanti, sul non detto. Il “prequel” magari non spiega tutto ma è illuminante. Un buon “rapporto sui sentimenti politici della nazione” dovrebbe tenerne conto, lucidamente, e, come sempre, è il caso di misurare il presente col vecchio, classico, infallibile doppio metro dell’ipocrisia, e dell’autoinganno (ovvio: siamo tra Montaigne e Freud, dentro il … moderno). Per come la sento, per come la vedo o la posso intuire, l’elemento di maggior sorpresa è l’adeguamento, il velocissimo adeguamento del corpo sociale a un nuovo regime di confino di massa. I sintomi anticipanti, l’attimo prima: prima ancora della decisione del governo sul lockdown (decisione o decisioni, che sia tutto un work in progress è marginale) c’era già chi aveva l’ansia di auto-applicare la norma ‘cinese’: tombarsi in casa, chiudere tutti i ponti alle relazioni e forse non soltanto per paura (ancora non c’era ragionevole motivo d’avere paura, o così paura). Il diktat-quarantena è stato accolto, per quanto in forma inespressa, con sollievo. Passano le settimane, passano i giorni: non è chiaro se la ‘cura’ funzioni ma il punto, almeno su questo fronte, non è questo. La passività, l’inerzia, la facilità, addirittura la gioia perversa con cui si è accolta una decisione politica che impone la quarantena è sconcertante. Non sono paradossale, guardo le cose. Lo stato d’eccezione è…. normalissimo. D’altronde, è almeno dal cinquecento che ogni teorizzazione filosofico-politica è una variazione sul tema della ‘servitù volontaria’ di La Boetie (l’amico di Montaigne, come ti sbagli). Prima ancora di discettare del morbo dovremmo interrogarci sul nostro inconscio politico, e sui nostri alibi. Suggerisco un paio di punti.
1. “Non si dà vita vera se non nella falsa”. Un’ipotesi è che ancora una volta si stia mettendo alla prova l’haiku di Adorno, modificandolo (e senza ovviamente avere la minima idea di cosa sia vero e sia falso, in definitiva). Nell’era della tecnica, è una banalità di base, semplicissima: la vita intesa come trama di scambi, interazioni, rapporti personali, economici e sociali prosegue oltre la vita, tappati in casa. Da un certo punto di vista, niente di male. Le potenzialità della nostra second life virtuale sono evidenti e tutto ciò rende ogni misura di “quarantena” almeno gestibile in termini di lavoro, economia, finanza, istruzione, mercati. Ma come avrebbe detto Dwight Macdonald essere radicali significa andare alla radice, e “la radice è l’uomo”, the root is man. Che si possa continuare a produrre, lavorare, far lezione, far girare merci e denaro dal chiuso di una stanza è abbastanza evidente, persino utile. Che sia possibile continuare ad avere rapporti … umani è un po’ più dubbio. L’impatto, la lacerante cesura determinata dalla quarantena mondiale (ormai è mondiale) risultano smorzati e attutiti in modo davvero perturbante, rivelatorio. Forse da troppo tempo i social, il web, in una parola sola “il virtuale” si sono affermati come dimensione “sovra-dimensionata” del nostro stare nel mondo e dell’alterità, anzi dello stare con gli altri, e tra gli altri. Per definire questa forma di vita-non-vita si utilizzano spesso i criteri della swarm intelligence o teoria dello sciame. È pura fantascienza applicata, naturalmente. Criteri para-matematici concepiti per la robotica finiscono per descrivere il presente, e le nostre relazioni nel presente, in modo calzante. La volta che lo sciame diventa il global network della “rete” dentro lo sciame ci caschiamo davvero tutti, non se ne scampa. È in questo contesto che l’apparente rottura della continuità sociale determinata dalla quarantena coatta si svela piuttosto come il suo contrario: non è una cesura ma l’inveramento, la prosecuzione estrema di una tendenza in atto, per quanto latente. Nonché la costruzione di un alibi colossale, quasi inscalfibile. Torniamo allora all’attimo prima, al sintomo anticipante, al presentimento: anche chi, solo ieri, era molto preso nello ‘sciame’, felicemente assorbito dalle (dubbie) gioie del virtuale, provava, da qualche parte magari sepolta dentro di sé come un marchio ancestrale, una punta di vergogna e disagio, lieve senso di colpa, inadeguatezza. La quarantena ha il (dubbio) vantaggio di fornire una giustificazione coatta di un desiderio di irrealizzazione nel virtuale molto concreta e consistente, e molto sottile. È una sorta di retrospettivo ‘ve l’avevo detto io’, obtorto collo. Il discontinuo si annulla nel continuo. Il lockdown come giustificazione retrospettiva di una tendenza, e di un desiderio già in atto di isolamento compensato in termini di moneta e di scambi virtuali; la quarantena come ambiente naturale della nostra (tra)sognata second life. In termini metafisici, probabilmente ci stavamo già dentro, senza saperlo.
2. È una questione metafisica, ma anche metapolitica, ovviamente. Le letture più estremisticamente oltranziste della questione colgono un punto a partire da schemi ultracollaudati e troppo rigidi e qui si perde la novità radicale di quel che accade o semplicemente ha smesso di accadere. Per quanto costretti all’ozio faremmo meglio a non essere pigri. Due o tre interventi recenti di Giorgio Agamben hanno fatto un certo rumore ma tutto sommato vedere nei fatti di oggi la verifica di tesi dette e stradette da anni non convince. Lo stato di eccezione portato a sistema e a norma, il ricatto del potere sulla nuda vita di tutti, l’invenzione del contagio, dell’emergenza. “In un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo…”. Agamben lo scrive in un pezzo sul contagio ma ovviamente basterebbe leggere Hobbes, che c’è di nuovo? È la dinamica consueta del potere, è lo stato moderno. Protezione in cambio di sicurezza, sopravvivenza. La logica elementare del patto sociale prevede il fattore paura, nella sua essenza (se Hobbes complicava il quadro era perché evocava una terribile eguaglianza, ma è un altro discorso). Interpretare la dinamica del lockdwon in termini di complotto a tavolino è più che altro miope, e insufficiente. Tutte le letture in chiave paranoico-postmoderna della storia hanno del resto un che di troppo consolante, rassicurante, ma non in ogni cosa che accade c’è un piano o un disegno (e meno che mai, ovviamente, una provvidenza).
L’imbarazzante novità dei tempi è di altro segno. Probabilmente il fattore quarantena realizza davvero un ordine del discorso politico già in atto ma secondo una modalità diversa, più inquietante. Il movimento latente (antropologico, psichico, sociale) che si realizza nel gesto finale e tombale del ‘chiudersi’ al mondo ha una forza, un’assurda autenticità e – cosa più grave – una spontaneità che nessuna teoria del complotto o del ricatto riesce a esaurire. È almeno dalla grande crisi economico mondiale del 2008 che nel lessico politico sono tornati in auge termini che mettono la globalizzazione al confronto col suo contrario e – prima del morbo – il nodo della questione era lampante: populismo contro internazionalismo; apertura alla “grande migrazione” (Enzensberger ne aveva parlato ancora negli anni novanta del 900, profeticamente) o chiusure, barricate, frontiere blindate. Nel codice, nell’ordine del discorso politico del ventunesimo secolo, la geografia e la geopolitica sono paradossalmente tornate in auge in proprio mentre si eclissava quella ragione cartografica che per secoli ha fatto da pendant parametrico alle avventure (e disavventure) dello stato moderno. L’abbastanza irresistibile ascesa dei populismi xenofobi in europa, l’irresistibile e abbastanza desolante vittoria di Trump negli Usa, l’irresistibilmente tragico-comica vicenda della Brexit rispondono, incarnano una stessa dinamica, avvilente: è un movimento a rientrare, cercare il chiuso. E questo, un attimo prima del morbo, l’istante prima. Poi, come direbbe Marx, la storia si ripete sempre due volte, ma questa volta, rispetto al suo schema del 18 brumaio, alla rovescia. Quella che era una farsa ritorna mutata in tragedia, paralizzante. In termini di pulsioni è in atto, mille volte potenziato, lo stesso sentimento di claustrofilia: chiudere, chiudersi. Di nuovo, bisogna ragionare sui sintomi, sui pochi, ambgui, lampi di vita in queste eterno mortorio da quarantena. Il sospetto, la diffidenza, la paura per l’altro, il difforme, il freak, lo straniero anticipavano questa paura totale dell’altro, fredda e assoluta. L’arroganza, la saccenza, la violenza mentale con cui si brandisce, pronuncia, incarna (via social o dai balconi, cambia poco) l’hastgag #iorestoacasa è sconcertante. Chi addita in ogni passante l’untore potenziale, il portatore del virus, l’arma letale, ridicolizza lo stesso male che teme o dice di temere sopra ogni cosa. Combattiamo una pandemia illudendoci che l’erezione di meccanismo claustrale possa bastare (che poi stare in casa convenga e sia ragionevole è un altro paio di maniche, ovviamente). Ma soprattutto, l’impressione sconsolante è che la grande maggioranza non chiedesse altro: un’Ottima ragione, un’estrema ragione di forza maggiore per fare del suo bisogno di chiuso una bandiera.
3. Non usciamo più ma non è questione di diktat calati dall’alto o magari, semplicemente, di agorafobia. Il movimento generale, la spinta universale in atto risponde a un impulso diverso, a un’altra (tristissima) passione, o pulsione. Qualche tempo prima di morire, a inizio anni Ottanta, Elvio Fachinelli pubblicò un libretto che andrebbe letto e riletto oggi, anche perché era – temo – una profezia. Il saggio si chiamava Claustrofilia e Fachinelli partiva da alcuni temi del suo mestiere-non-mestiere di psicanalista per leggere i segni del tempo attorno a sé. Nella vita psichica e sociale dell’uomo, e dentro le stesso more più o meno interminabili della pratica analitica, Fachinelli si era reso conto dell’esistenza di un singolare, stranissimo meccanismo tombale. Ci sono forme di esperienza – ne scrive parlando di un caso che definisce come quello della “ragazza della casa- fortezza” – in cui la vita batte “secondo un’alternativa elementare, si-no, bianco-nero, buio-luce”. “Riflettendo su questi elementi mi venne fatto in seguito di comprenderli sotto il termine di claustrofilia o di area claustrofiliaca”. Qualche anno prima, Fachinelli aveva intuito la stessa cosa lavorando sul fronte della politica, del Movimento. Alla lunga la spinta liberatoria del ’68 aveva finito per implodere, esaurirsi, stagnare e ripiegarsi su sé stessa proprio in virtù di una dialettica inesorabile che portava ogni “gruppo aperto” a mutarsi, morendo, in “gruppo chiuso”. Nel clima di disillusione e riflusso degli anni Ottanta, questa dinamica gli sembra irrevocabilmente estesa a tutta la nostra vita psichica e sociale, in generale. E ancora un volta non era, non è questione di paura, o non soltanto. Fosse paura, potremmo appunto parlare di agorafobia, di estrema e incerta paura degli spazi aperti. È questione di desiderio, non di paura. Fachinelli lo spiegava limpidamente: “il termine già disponibile e in apparenza simile di agorafobia mi parve inadeguato perché implicava in primo piano una paura dell’aperto mentre a me premeva sottolineare la ‘ricerca del chiuso’. Voglio anche rilevare – aggiungeva . che questo chiuso, questo claustrum indica solo in un ultima istanza un luogo chiuso, riconducibile al modello o all’istanza dell’utero materno. Esso piuttosto si riferisce per me, primariamente all’atto del chiudersi, dello sbarrarsi, del serrarsi dentro… claustrum in latino significa chiave, serratura, catenaccio e simili: solo molto più tardi è passato a significare luogo chiuso”.
4. Aggiungo solo due o tre cose, davvero in forma di appunti sbrigativi. La quarantena paradossalmente non induce rabbia ma dà sollievo perché al tempo stesso è la soddisfazione di un desiderio segreto e la realizzazione di un incubo latente: la polis è finita (perché era già finita) e adesso siamo esentati dai doveri, dai rischi, dagli imprevisti della cittadinanza. È come se il sogno anarchico di una società senza stato si fosse ribaltato in una situazione in cui (forse) c’è lo stato ma sicuramente non c’è più né società né – e soprattutto – socialità. Ironicamente si potrebbe dire che siamo tutti qui, tappati in casa, a goderci l’ultima avventura di quello che è stato giustamente definito “individualismo proprietario” (e che per troppi versi ha fatto da inseparabile compagno alle vicende della democrazia). La casa, le mura, il nemico a distanza di sicurezza (chiunque sia il nemico, naturalmente) e – non potevano mancare – le prediche consolatorie degli imbecilli di turno, degli ispirati. Lasciamo stare il rito deficiente delle 18, con la gente bel bella ai balconi, e le canzoni, e lo stradannato Inno di Mameli e scemenze varie. Sui giornali, in tv, alla radio, c’è chi magnifica la clausura, ipocritamente. Il tempo ritrovato delle letture, della musica, dei giochi, e la vita di famiglia e tutto quanto. L’ineffabile Fabio Fazio, nei primi giorni di Lockdown ha pubblicato un ameno raccontino sulle “tante cose che sto imparando” (tappato in casa) e la cosa era così stucchevole, sdolcinata, consolatoria che l’ha citata, stranamente contento, persino il Papa. Non ho conclusioni al riguardo, ma sensazioni. Probabilmente è un problema, come dire, narrativo, di sceneggiatura. La quarantena è vissuta con sollievo perché questo esito claustrofobico – anzi di pura, voluttuosa, demente claustrofilia – è il finale che oscuramente sapevamo già essere scritto e, piaccia o meno, è sempre “consolante” sapere come va a finire
Resta un’ultima domanda, complicatissima. Ho parlato dell’attimo prima, dei sintomi anticipanti, dei (presentimenti). Ma la questione vera è: sapremo ritornare a essere ‘sociali’, o più sociali? Oltre la clausura e il morbo, e oltre allo sciame dei social e a “second life”? Marx nei Manoscritti parlava della maledizione dei rapporti sociali nel capitalismo dove ogni rapporto tra uomo e uomo “è mediato dalle cose” (o, in forma più universale, dal denaro). Al momento siamo in un limbo in cui ogni relazione è mediata – e sterilizzata e sospesa – dal morbo. Nei film di guerra o fantascienza – quando finiscono bene – c’è la fase del recupero gioioso e scanzonato della normalità, con la gente che torna nei bar o allo stadio, si incontra sotto una frasca a mangiare, giocare a carte. Ma la guerra, o l’invasione degli alieni, è un evento e non nel senso di Heidegger: ha inizio e fine. Il morbo, oggi, non è un evento quanto piuttosto l’occasione diffusa (non il pretesto) di una mutazione dei rapporti sociali normali. Si trattasse solo di una sospensione, potremmo farcela. Se è in atto una mutazione, bisogna vedere. Non è detto che sia un timore, non erano stupendi, questi rapporti. Ma quale sarà la socialità di domani, se ci sarà un domani, naturalmente?