Il padrone è in redazione
Il padrone è tornato in redazione, ma per la verità c’è sempre stato. L’editoria, l’informazione, il giornalismo sono ormai da molto tempo in difficoltà economica, di vendite, di credibilità, per non parlare del progressivo smarrimento di un simulacro di etica, di una vocazione alla trasparenza e alla difesa di un pluralismo informativo che dovrebbe essere, comunque, un elemento fondativo della nostra malmessa democrazia. I giornali sono in crisi, il giornalismo ancora di più, ma non per questo il grande capitale ha rinunciato a possedere e a usare il potere dei media, tradizionali o moderni, stampati o digitali, per difendere i propri interessi, spesso indecenti.
È
la storia di questo Paese, non si scappa, nessuno si illuda invocando autonomia e indipendenza come se fossero in vendita al supermercato. I padroni passano, ricattano e comprano redazioni, tipografie e coscienze con il denaro, i privilegi, le marchette, le carriere. Cefis, Mattei, Sindona, Calvi, Pesenti, Crespi, Rizzoli, Mondadori, Agnelli, Pirelli, Cuccia, Gardini, Berlusconi, Caltagirone… tutti quanti, galantuomini o mascalzoni ma anche le Curie locali, eccome!, hanno combattuto battaglie furibonde per conquistare giornali, gruppi editoriali, tv, pubblicità perché così si esercitava, si esercita, il potere. In passato un gruppo industriale o finanziario di qualche peso e ambizione doveva essere presente come proprietario o azionista in qualche giornale e avere un posto nel consiglio di amministrazione di una banca.
Non cambia nulla. John Elkann, nipote di Gianni Agnelli che lo vedeva come il predestinato a guidare gli affari di casa, ha usato lo stile rude dei vecchi padroni per entrare alla Repubblica, che i figli di De Benedetti gli hanno ceduto per un pugno di milioni assieme alla Stampa, una dozzina di giornali locali, stazioni radio e una concessionaria di pubblicità. Ha licenziato in tronco il direttore Carlo Verdelli, minacciato dai fascisti, e lo ha sostituito con Maurizio Molinari, un giornalista che politicamente potrebbe staresull’asse Trump-Bolsonaro. Non c’è stata nessuna rivolta, non ci sono state masse di giornalisti capaci di ergersi a difesa del “giornalismo di Repubblica”. Il vecchio fondatore Eugenio Scalfari ha creduto alla promessa di Molinari che il suo giornale
resterà liberal-socialista. La redazione si è adeguata, un eredeAgnelli vale la dinastia De Benedetti. Qualcun ha lasciato. GadLerner, al quale vogliamo bene, si è concesso al Fatto, giornale espressione delle pulsioni del qualunquismo di destra oggi declinato dai grillini, che starebbe bene accanto al Borghese di un tempo. Se uno pubblica ogni tanto un’intervista a Landini non si trasforma automaticamente in un baluardo progressista.
Per Repubblica è finita una stagione. Il quotidiano alla moda, un po’ di sinistra, palestra di intellettuali e giornalisti progressisti, autoreferenziali, libertini, radicali, finti comunisti, lottacontinuisti, tutti diventati élite, capaci di sfidare l’impossibile e, come scrisse Ezio Mauro, l’altro direttore insieme al fondatore Scalfari ad avere la stoffa per resistere vent’anni, di scovare inedite “radici comuni” con la razza padrona torinese, sparisce. Per il mondo di Repubblica è una tragedia. Il nipote dell’Avvocato come editore, Molinari come direttore: non c’è niente di peggio. Il nuovo direttore, dopo aver assunto una candidata alle elezioni del Pdl come corrispondente da Israele, ha subito schierato il giornale a difesa del prestito “innovativo” di 6 miliardi alla Fca garantito dallo Stato.
Nella difesa scomposta del suo editore il direttore della Stampa Massimo Giannini è riuscito a scrivere che negli anni ’50 a Torino “il Pci e la Fiat costruivano la trama delle relazioni industriali del Paese”. Siamo a questo punto, senza vergogna. Giannini ha dimenticato libri come “Gli anni duri alla Fiat” di Emilio Pugno e Sergio Garavini (1974, Einaudi), le indagini parlamentari, il lavoro di ricercatori, avvocati, giornalisti. Gli anni ’50 alla Fiatsono quelli dei reparti confino, dell’Officina Sussidiaria Ricambi (soprannominata Officina Stella Rossa) dove erano rinchiusi gli operai comunisti, iscritti alla Fiom Cgil, con l’Unità in tasca. Sono gli anni dei licenziamenti di massa degli operai “distruttori”, così li definiva Valletta, dei “tribunali di fabbrica”, formati dai dirigenti e dai sorveglianti degli stabilimenti Mirafiori, Lingotto, Grandi Motori che giudicavano i lavoratori che avevano osato partecipare agli scioperi, oppure si erano presentati come “scrutatore o candidato” della Fiom-Cgil alle elezioni delle Commissioni interne. Così la Fiat costruiva le relazioni industriali negli anni della Guerra Fredda. Poi i tempi sono cambiati, un po’ di democrazia e qualche diritto hanno varcato la soglia della fabbrica, ma la Fiat ha sempre mantenuto una sua originalità. Ricordiamo le schedature degli operai, l’inchiesta di Torino, le denunce esemplari di Bianca Guidetti Serra. Del 2014, cioè l’altro ieri, è la sentenza della Cassazione che condanna la Fiat di Sergio Marchionne per aver discriminato gli operai iscritti alla Fiom nelle riassunzioni alla Fabbrica Italia Pomigliano. I giornali hanno sempre fatto comodo al capitale.
Però non bisogna disperare. Anche di fronte a uno scenario così desolante si può trovare nei giornali e nel giornalismo, che resta un mestiere bellissimo, la forza per costruire qualche cosa di diverso e positivo. Non si può più pensare a quei giornali malati di gigantismo, con redazioni devastate dal conformismo che sono la causa della loro crisi. Si può puntare su un lavoro di pochi fatto per quelli che ci stanno, minoranze che non si arrendono, con giornalisti capaci di ritrovare l’umiltà di studiare, di raccontare il Paese, di cercare compagni di strada leali. E che hanno la voglia e la forza di spaccare qualche cristalleria.