Il padre materno. Un romanzo e un saggio
L’avevamo lasciato infreddolito vicino al padre, di fronte a un tramonto cittadino che era anche il tramonto di una famiglia. Lo ritroviamo adesso con il pannolino, diverso eppure identico, nel nuovo romanzo di Marco Franzoso, Gli invincibili (Einaudi). La sua mano colorata d’azzurro, nel giorno di ingresso alla scuola elementare, ne conferma la filogenesi e conferma anche la passione di questo autore per un tema sempre più al centro del dibattito socio-culturale: la questione paterna o, per dirla con Simona Argentieri, la questione de Il padre materno (ancora Einaudi). Da lettrice, ovvero sia da donna (nonché madre) che legge, voglio dirlo subito: c’è sempre qualcosa che mi irrita in questo dibattito. Qualcosa a cui non riesco a dare ancora nome definito, ma che rimanda, per lo meno nell’immaginario comune, a una colpa: i padri che si infilano nello spazio della cura, lo farebbero per lo più perché le donne ne sono uscite. Questo è senza dubbio anche il filo rosso che percorre il secondo romanzo di Franzoso: la madre, appena tratteggiata, se ne è andata lasciando scoperto l’accudimento del figlio. La cura ricade così completamente sulle spalle di un padre che non solo si carica dell’incombente quotidianità, avendone alla fine la vita professionale distrutta (tema affrontato negli anni settanta da un film consolatorio e di notevole successo, Kramer contro Kramer), ma anche della difesa, nella costellazione familiare, del ritratto di una madre “la cui immagine possa adattarsi alle esigenze” dello sviluppo del figlio. Una madre assassinata dalla suocera ne Il bambino Indaco, svanita per ragioni sconosciute ne Gli invincibili. Sta in questo compito titanico anche il senso del titolo, rimarcato dall’illustrazione di copertina: un bimbo vestito da guerriero, con un improbabile rametto-lancia nella mano destra. Un compito tutto maschile (in entrambi i romanzi, i bambini sono maschi, ad evitare il rischio di impasti incestuosi) al quale, al massimo, possono partecipare le nonne paterne, vere e proprie traghettatrici nella vita e nella morte, capaci di riassumere in pochi gesti la potenza generatrice, ma anche distruttrice, del ventre femminile.
Chiunque abbia sperimentato la genitorialità negli ultimi venti, trent’anni, all’interno delle coordinate culturali del nostro mondo, ha vissuto la fatica di relazioni sempre più analizzate, scrutate, verificate, sconvolte. Non ci si soffermerà mai abbastanza sull’impatto che la divulgazione spicciola della psicoanalisi ha avuto sulla vita di ognuno di noi: una sorta di grande fratello incorporato, che ha reso e rende sempre più difficile ogni gesto – sia esso di tenerezza, di intimità, sia di rabbia, di dolore, di distacco. Dai capannelli delle mamme (e adesso anche di qualche papà, appunto) fuori dalle scuole fino alle stanze di colloquio con assistenti sociali e psicologi, è tutto un cercare cause, un dare nome, un elaborare strategie, risolvere conflitti dando vita a nuovi, intimi rituali simbolici, di cui i romanzi di Franzoso danno conto con disarmante sincerità. Altrettanto disarmante la raffigurazione del mondo educativo nel quale il piccolo Sebastiano – questo il nome del bambino – fa il suo ingresso, con una sicurezza che il padre non può ostentare: bastino le mani tuffate nel colore per dare tocco personale ad adunate pre-scuola che non possono che odorare di balilla. Come dire: se l’ambito pubblico non è di grande aiuto, non resta che provare a trasformare le cose nel privato, accettando che la propria famiglia sia frantumata come un foglio fatto a pezzi con la forbice – questo il rito, non solo simbolico, proposto dalla giovane psicologa per dar senso e voce alle sofferenze del bambino. E tuttavia, come ben racconta con altre parole Franzoso, i cocci si possono anche riattaccare, ma le suture saranno sempre visibili, il contenuto del vaso originario, quando non disperso, raccattato. E se nel tentato restauro del finale vibra un po’ di quell’idea winnicottiana della madre sufficientemente buona, che Argentieri riprende anche a proposito del padre materno, sul fondo rimane la sensazione di un rimpasto che lascia fuori qualcosa di prezioso, non fosse altro che la trasmissione della legge, del verbo, del limite.
E’ questo un aspetto che già contraddistingueva Il bambino indaco – Carlo, il protagonista, si rivelava di fatto incapace di stabilire il confine fra ciò che è possibile e ciò che non lo è – e che qui, seppur più sfumato, ritroviamo. Ancora una volta un uomo che non riesce a definirsi, stavolta soprattutto al lettore, complice forse anche una scrittura che è meno plastica, meno ricca, più attenta al filo della trama che non alla potenza intrinseca delle parole e delle immagini. E ancora una volta una coppia che non sopravvive all’arrivo di un terzo, e quindi alla triangolazione che è alla base della famiglia così come la pensiamo da migliaia di anni qui, in Occidente. Qualcosa si rompe, e nei romanzi di Franzoso a non reggere l’urto sono le donne, vuoi perché cercano di imporre il loro ordine folle, vuoi perché se ne vanno alla ricerca di qualcosa che non è dato sapere. Rimangono i padri: prima spaventati, poi più abili, ma comunque incerti, fragili nella loro presunta invincibilità. Non a caso, mentre il piccolo Sebastiano cresce, il nonno, medico, muore senza che la sua ultima diagnosi sia stata presa sul serio.
Simona Argentieri scrive che, nel rapporto con i figli, “i padri non trovano solo l’esecuzione di un dovere, ma anche l’appagamento profondo di un bisogno di intimità, contatto fisico, tenerezza senza conflitto”. Qualcosa, evidentemente, che non riescono a trovare nel rapporto amoroso, come se l’atto sessuale non riuscisse a sopravvivere se non impastato di sopraffazione (così, per altro, nel regno animale). Il padre di Sebastiano scopre presto la valenza seduttiva del suo ruolo “materno” – del resto, non sono pochi ormai gli attori del cinema che si fanno fotografare nella loro veste di padri. Ma da questi rapporti non sembra poter nascere qualcosa di definitivo: la sessualità rimane separata dalla vita genitoriale, che ognuno porta avanti a modo proprio, in solitudine. Se la sacra famiglia, così come l’abbiamo sempre pensata, è ormai al suo tramonto, ancora fatichiamo a dare forma e iconografia e quelle nuove, plurale tanto più necessario quanto ormai varie sono le forme che essa può assumere. Ancora Argentieri vede nella pubblicità uno dei motori dei nuovi archetipi, dei nuovi modelli, e con acume mette a fuoco quanto la cura del cucciolo abbia a che fare, nella nostra epoca triste e narcisista, più con l’autoerotismo che non con l’accudimento: “Dopo tante revisioni della psicoanalisi circa il processo di costruzione dell’identità di genere di uomo e donna, la pubblicità ha svelato l’appeal segreto che può avere, per i maschi moderni, il bambino come oggetto narcisistico”. Il bambino, insomma, non sarebbe solo oggetto di attenzione pubblicitaria perché importantissimo segmento di mercato (dalla complessa dote nascita-primi anni al set necessario all’ingresso a scuola passando per i prodotti multimediali), ma perché oggetto erotico, capace di veicolare sentimenti e attitudini di cui, a quanto pare, abbiamo molto bisogno. Non sarà per tutti così, come non è di tutte le madri uscire di scena alla maniera delineata da Franzoso. Ma sul piatto di una società violenta, che non riesce a costruire futuro, rimangono ancora da raccogliere i sentimenti, le emozioni, il difficile nuovo che la nascita porta con sé, dei quali sempre più necessario è farsi carico. In letteratura come nella vita. Così come sarebbe ora di restituire il bambino al bambino, come lo raccontava con parole splendide Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino: “Quando il bambino era bambino, aveva un vortice fra i capelli e non faceva facce da fotografo”.