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Il mio ragazzo è in prigione: poesie dal Sudafrica

Illustrazione di Elisa Francioli
30 Novembre 2020
Paola Splendore

Nata a Cape Town nel 1969, Gabeba Baderoon insegna Women’s Studies alla Pennsylvania State University ed è Fellow all’università di Stellenbosch in Sudafrica.

Ha pubblicato il volume Regarding Muslims: from Slavery to Post-apartheid sulla rappresentazione dell’ Islam nei media, nella letteratura e nell’arte, e le raccolte di poesia, The Dream in the Next Body (2005 Daimler Chrysler Award), The Museum of Ordinary Life (2005), A Hundred Silences (2006). Una scelta di sue poesie è apparsa in traduzione italiana nell’antologia Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana 1948-2008 (a cura di Paola Splendore e Jane Wilkinson, Le Lettere 2011). Le poesie che seguono sono tratte dalla raccolta più recente The History of Intimacy (Kwela Books 2018). Ringraziamo l’autrice per aver permesso la pubblicazione di queste poesie.

Poesia per principianti

Al corso serale di poesia per principianti

una che non si leva mai la pesante

[giacca scura

fa un profondo respiro

e azzarda frettolosamente

Il mio ragazzo è in prigione

io sono qui per capire

come scrivergli oltre le sbarre

e qualcuno ride

e lei si stringe nella giacca

e da lì ci guarda senza vederci

e la settimana dopo

non ritorna

e io per anni penso a lei

e a quello che fa la poesia

penso che da qui vengo

dove la poesia è azzardo, è tradimento

e il ricordo della prima domanda

come non essere soli

Distanza focale

Tiro fuori le foto in bianco e nero

che ho portato con me in questo paese

e che non guardo da anni

le sistemo una accanto all’altra

sul tavolo della sala da pranzo.

In una, mia madre giovane, in piedi

accanto alla finestra, all’orecchio il telefono

con il suo filo nero a spirale,

la tenda tirata da un lato,

si volta a guardare l’obiettivo.

Le ho tirate fuori dalla velina

con le pieghe ancora intatte da quando

le aveva incartate per il lungo viaggio.

Nella sfocatura di carta sbiadita le sto

in braccio, poggiata a lei come per gravità.

Lei mi guarda, come mio padre

che scatta la foto.

Il mio viso è nitido e il suo è un po’ mosso

come se lui spostasse lo sguardo tra noi due,

come se l’obiettivo non riuscisse a cogliere

l’oscillazione dell’occhio tra due persone

ugualmente amate.

C’è un’altra fotografia tre volte ripiegata,

prima una volta e poi un’altra per entrare

[in tasca,

la pelle così vicina da scaldare la carta,

poi di nuovo spianata per la cornice di legno.

In questa mi giro da un lato verso l’obiettivo

– qualcuno deve avermi chiamato –

e ho una piega proprio sotto gli occhi.

Piegato, nascosto, dimenticato,

il ricordo non mi arriva disteso.

La piega della tenda a cui lei poggia,

la carta con la sua prima piega,

io che mi volto verso chi mi ha chiamato.

The Flats

Nel quartiere le gru gialle si fermano a mezzo giro

e la gabbia dell’impalcatura risuona cupa

[nel vento.

Sotto il Civic Centre una colonna di silenzio

e di ombra taglia in due la strada.

Trent’anni fa mio padre, l’elmetto bianco in testa,

sulla piattaforma di un edificio che aveva

[aiutato a far salire

fino al cielo, le spalle contro la lastra di vetro

[impenetrabile,

fissava un punto che io non potevo vedere.

Il quartiere fu dichiarato bianco

nell’anno in cui lui e mia madre si sposarono

e furono costretti a trasferirsi

in un posto che da qui non si vede.

Io sono nata ai Flats

con le strade sabbiose e i muri umidi

figlia dell’inverno, figlia della perdita.

Ogni giorno la strada per andare al lavoro

li portava davanti alla vecchia casa e a tutto

ciò che avevano perduto, e non guardarono

più in quella direzione.

Nata nel nuovo posto, ero la figlia fantasma

un dolore che cresceva

sempre più.

In giornate come queste, gli perdono

quello che riuscivano e quello che

non riuscivano a guardare.

Perdono il loro lento amore

per il nuovo quartiere,

per me.

Fecero della distanza il loro dramma quotidiano

ma alla fine fu casa.

Il quartiere, senza più loro,

ammutolisce ogni giorno.

Storia dell’intimità

I

Te ne ricordi perché è una ferita.

Un colpo, venti colpi, si chiamano così

le sferzate sul palmo delle mani,

sulle nocche, sulle natiche,

gradazioni diverse di dolore

inflitte per i nostri errori,

a noi che non dovevamo esistere.

II

Fai la bianca, nuh?

Urla Mike nel 1987 sopra la testa

degli studenti a Jameson Steps

e il silenzio improvviso mostra

che non siamo più in uniforme nel cortile

di Livingstone High, a prenderci in giro, hey

perché mi hai guardato come se

non ci fossi? Questo nasconderci a noi stessi

lo chiamavamo fare il bianco,

ma dirlo ad alta voce mostra

che abbiamo imparato

a prendere atto della nostra esistenza.

III

Nel negozio dei video dopo che ho ordinato

[un film,

mia cugina mi dà una gomitata, perché ti copri?

Coprire. Verbo transitivo. Coprire cosa?

Coprire la pelle, indossare qualcosa

non il niente.

IV

Dopo l’abolizione della discriminazione urbana

mia madre muore dalla voglia di tornare

alla strada da cui era stata cacciata

e siamo noi, ormai affezionati

alla ferita che chiamiamo casa, a dire No,

non vogliamo vivere in un quartiere di bianchi,

siamo noi questa volta a rinunciare.

V

Madre, come faccio a scrivere di te?

Da studentessa di medicina al turno di notte

imparò ad avere un sonno così leggero

[che riusciva a svegliarsi

in un attimo se c’era un’emergenza,

[e per tutta la vita

il suo corpo non fu più capace

di dormire per una notte intera.

Raccontava che una sera, per qualche motivo

un po’ arrabbiata con mio padre,

aveva lasciato la tavola, se n’era andata

in camera da sola e aveva trovato

mia sorella livida che non riusciva a respirare.

Ricorda ancora quello che la rabbia

[le aveva regalato,

aveva salvato la vita a mia sorella. Rabbia.

[Respiro.

Fin dall’inizio tu sei stata respiro,

e poesia.

Mi raccontavi degli studenti neri mandati

via durante l’autopsia dei corpi bianchi,

e quando ho scritto su questo, hai detto,

È la mia storia, non la tua.

E adesso, Madre, con la malattia di cui

[hai taciuto

per anni, di nuovo trasformo le tue parole

e il tuo silenzio in poesia?

VI

Nel 1988 alla stazione di Crawford, io

[e mio fratello troviamo

una tavola azzurra dipinta a mano

[a lettere gialle:

Solo non-bianchi su un lato

Solo bianchi dall’altro,

gettata via oltre il recinto accanto alle rotaie.

Nel raccoglierla, vediamo i due lati

del cartello schiena contro schiena,

ogni lato poggia sul suo contrario,

intimi e opposti

tra loro sconosciuti.

Era un pezzo di storia, lo sapevamo

qualcuno l’aveva fatto a mano, poi nascosto

e cercato di dimenticare. Lo portiamo a casa

e ogni tanto lo troviamo in un angolo

mentre cerchiamo qualcos’altro.

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