Il liceo del Made in Italy, ovvero: scuola e società secondo il governo Meloni
Durante un consiglio di classe il professor Quadrato che insegna matematica in un liceo delle scienze umane fa notare che l’allieva Tondi è molto brillante nella sua materia e si chiede “come mai non abbia frequentato il liceo scientifico”. La professoressa di lingua straniera Catcher dice che l’allievo Rossi non è fatto per un liceo come il nostro viste le gravi lacune nelle lingue e si chiede “come mai non abbia fatto un professionale”. La conclusione che possiamo trarre da queste affermazioni è che se la prima allieva fosse stata molto brava in letteratura italiana e in latino avrebbe dovuto iscriversi al liceo classico e se il secondo fosse stato fortissimo in lingua straniera avrebbe dovuto iscriversi ad un centro di cultura tedesca o all’Eton college nel Berkshire.
Le domande che mi sorgono ogni volta che ascolto questi commenti sono: da chi sono circondato? Chi dovrebbe iscriversi al liceo delle scienze umane? Che capacità, passioni e interessi dovrebbe avere?
Si sa. Il liceo delle scienze umane è stato sempre considerato un liceo debole rispetto al classico o allo scientifico. Un riverbero della cultura idealistica di stampo crociano e gentiliano che ha sempre visto negativamente le scienze sociali.
A chi affidarsi se non alla parola degli studenti e delle studentesse?
In questi anni ho avuto modo di osservare che le allieve e, in larga minoranza, gli allievi che frequentano il liceo delle scienze umane sono affascinati dalla psicologia e in misura minore dalla pedagogia (non come disciplina, ma come chiave per lavorare con i bambini), più di rado dalla sociologia e dall’antropologia. Il rimprovero che si può muovere loro è che inizialmente hanno una visione della psicologia che non esiterei a definire “magica” e influenzata spesso dalle serie tv in cui profiler femminili interpretano le abitudini e i geroglifici mentali dei serial killer o, nel migliore dei casi, dalla speranza di riuscire a comprendere cosa passa per la testa delle persone. Voglio fare la psicologa per: “capire meglio me stessa”, “leggere la mente delle persone”… Non ricordo neppure più quante volte ho sentito dire in classe: “io voglio fare la criminologa”.
Mi torna spesso in mente quello che disse una volta Margaret Mead riguardo alle discipline che si studiano nel liceo dove insegno: chi ha problemi con sé stesso finisce per diventare psicologo, chi ha problemi con la società si fa sociologo, mentre chi ha problemi con se stesso e con la società rischia di diventare antropologo. Al di fuori di questo malessere (che bisogna approfondire), ci sono i pedagogisti e non bisogna dimenticare che spesso le persone più consapevoli e con i piedi per terra si iscrivono da noi perché vogliono lavorare nell’insegnamento, nell’educazione e nelle scuole dell’infanzia o primarie. Spesso l’iscrizione al liceo delle scienze umane avviene per cercare riparo dalle scienze esatte e in particolare dalla matematica. Se ci pensiamo, il termine scienze umane è già un equivoco. Non esiste scienza dell’uomo. L’uomo, per fortuna, non è fatto di numeri e matematica ed ecco dunque il paradosso: non voglio avere a che fare con le scienze e dunque mi iscrivo a scienze umane!
Non è facile educare alla complessità epistemologica delle scienze umane. Io preferisco, dopo una iniziale breve ricognizione storica in psicologia, pedagogia sociologia e antropologia (solitamente impiego circa 10 ore di lezione), fermarmi per un tempo più lungo su autori con particolare riferimento a una o due opere importanti analizzate e contestualizzate in maniera seminariale. Tanto per fare degli esempi: su libri come Il suicidio di Durkheim e Le strutture elementari della parentela di Lévi Strauss faccio un lavoro di almeno 4 ore; stessa cosa per l’Emilio di Rousseau in pedagogia e la psicoanalisi freudiana.
Una delle caratteristiche dell’insegnamento delle scienze umane che le rendono significativamente contemporanee è che, con una offerta teorica e metodologica così ricca e ampia, insegnare significa privilegiare un apprendimento in intensità più che in quantità con autori classici di un canone che vanno letti partendo da una o due opere importanti.
Il nemico che evoco nelle mie lezioni sui temi classici di psicologia come di antropologia o sociologia è “l’uomo della strada”, lo “psicologo ingenuo o Barbara d’Urso su pomeriggio 5”, propagatore di buon senso comune o di tesi trite e ritrite ripetute per sentito dire.
Le scienze umane secondo me servono a questo, a capire “come si fa” scienza: identificare un oggetto di studio e trasmettere la rigorosità di un metodo. Chi studia scienze umane dovrebbe essere portato a pensare dunque che le affermazioni degli scienziati sociali sul presente e su temi delicati e complessi come i disturbi mentali, criminalità, mobilità sociale, incontri e scontri di culture abbiano un valore e un rigore maggiori di quella che è l’opinione comune o del personaggio pubblico più in vista su tv e social network. L’idea forte che cerco di portare avanti sin dall’inizio sta nei metodi di ricerca (sia qualitativi che quantitativi che fanno uso di statistica e della temuta matematica) e nei lavori di ricerca che hanno impegnato autori di riferimento come Durkheim, Mauss, Weber o Piaget. Ad ogni scienza il suo metodo.
Ma non si tratta solo di questo.
Le scienze umane servono a costruire “pensiero critico e complesso” volto a confrontarsi continuamente con diverse teorie, la tradizione e l’autorità. La capacità di pensare e argomentare da sé appare a molti superflua, perché vogliamo che i risultati siano di natura quantificabile e standardizzati con i test scolastici. La capacità di pensiero critico implica invece una valutazione che può essere solo “qualitativa”: saper argomentare una posizione con la logica del ragionamento, avere autonomia di giudizio, usare l’immaginazione e i diversi punti di vista, come vuole una “testa ben fatta” alla Morin. Significa “saper prendere parola” in classe, confrontarsi e stare nella dialettica con l’interlocutore: che sia l’autore, un compagno/a di classe o un insegnante. Significa quindi “educare alla democrazia”.
QUALE FINALITA’ EDUCATIVA HA UN LICEO DELLE SCIENZE UMANE?
Le scienze umane danno questa opportunità. Una “pedagogia istituente”, ovvero dare agli studenti una pluralità di approcci che fanno della democrazia un principio di funzionamento dell’istituzione scolastica e di formazione, il cui fine è contribuire a sviluppare “soggettività”, cioè persone, capaci di pensare altrimenti, senza dogmi o idee preconcette.
Di fatto però non è così. Se allarghiamo lo sguardo, le trasformazioni che ha subito il liceo delle scienze umane in questi decenni sono andate sempre più verso una “tecnicizzazione pedagogica” e forme vergognose di “malthusianesimo scolastico”. L’ obiettivo economico è quello dell’occupabilità, dello sviluppo imprenditoriale e del produttivismo dominante.
Non è più una questione di “spirito critico” o di “formazione del cittadino” ma sempre più del “capitale umano” e della “cultura d’impresa” come declama la retorica manageriale. L’educazione al liceo delle scienze umane viene considerata come un bene largamente privato che rientra nell’ambito di un discorso economico standardizzato dove gli studenti sono solo consumatori. Consumatori di esperienza in alternanza scuola lavoro, consumatori di tirocini, stage, e chi più ne ha più ne metta. L’obiettivo dell’efficacia economica prevale su quello dell’emancipazione umana. In sostanza, la scuola come gli ospedali e la maggioranza dei servizi pubblici, è sottomessa alla logica pervasiva della produttività e della competitività, a cui sono votati i responsabili politici della destra come della sinistra di governo.
Come diceva Marta Nussbaum nel suo Non per profitto: “Sedotti dall’imperativo della crescita economica e dalle logiche contabili a breve termine, molti paesi infliggono pesanti tagli agli studi umanistici ed artistici a favore delle abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. E così, mentre il mondo si fa più grande e complesso, gli strumenti per capirlo si fanno più poveri e rudimentali”.
E infatti oggi la scuola è ridotta a questioni di metodi, organizzazione e gestione, percentili e livelli di competenze, ambienti di apprendimento da digitalizzare come abbiamo visto durante la pandemia con l’ingente investimento attuato con i fondi PNRR.
Questo “economicismo generalizzato” è diventato ormai il tratto comune con cui si concepisce e si parla di scuola sia a destra che a sinistra, tra intellettuali, sindacati, lavoratori, famiglie. Ciò è stato possibile grazie a due elementi, individuabili anche nella recente parabola italiana: una connessione tra struttura socioeconomica e ideologia neoliberale.
La trasformazione della scuola in funzione degli imperativi economici è andata così di pari passo con la depoliticizzazione della questione scolastica e la tecnicizzazione dei problemi e delle sue soluzioni.
È in questa cornice, che dopo decenni di tagli e ridimensionamenti (dalla riforma Gelmini in avanti) il Liceo delle scienze si trasforma in Liceo del Made in Italy. Non c’è da stupirsi.
Ma di cosa si tratta? Che cosa è questo Liceo del made in Italy?
IL LICEO MADE IN ITALY
Il 31 maggio 2023 viene approvato dal consiglio Consiglio dei Ministri il decreto legge “Liceo del Made in Italy”. Poche settimane prima, in occasione della sua visita a Vinitaly a Verona, la Premier Giorgia Meloni aveva rilanciato l’idea di un percorso di studi volto a creare professionalità che operassero per valorizzare i prodotti a marchio italiano promuovendo e difendendo le eccellenze italiane dalle falsificazioni.
L’enfasi con cui fu presentata la proposta e il nome che le è stato dato potrebbe far pensare a un nuovo tipo di istituto. In realtà non dovrebbe nascere un nuovo indirizzo liceale al pari di quelli già esistenti, come il classico e lo scientifico; basterà una modifica all’indirizzo già esistente delle Scienze umane con “opzione economico sociale”. Si tratta di capire come.
Nella prima bozza del disegno di legge si parla di “economia e gestione delle imprese del Made in Italy”, “modelli di business nelle industrie dei settori della moda, dell’arte e dell’alimentare”, “Made in Italy e mercati internazionali”. Nel disegno di legge il governo prevede di far partire il corso di studi così modificato dall’anno scolastico 2024/2025.
Nella prassi, questo percorso prevede:
1) Un più rapido accesso al lavoro, attraverso il potenziamento dei percorsi di apprendistato;
2) Il rafforzamento dei percorsi PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) attraverso la connessione con il tessuto socio-economico produttivo del contesto imprenditoriale di riferimento;
3) L’istituzione della Fondazione denominata Imprese e competenze per promuovere il raccordo tra le imprese e i Licei del made in Italy. Da come leggiamo nel decreto si tratta di “diffondere la cultura d’impresa del made in Italy tra gli studenti, favorire iniziative mirate ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro, favorire la progettazione, nel rispetto dell’autonomia scolastica, di attività didattiche e professionali dedicate al Made in Italy”. Per questi obiettivi la fondazione è autorizzata a spendere di 10 milioni di euro per il 2024 e 10 milioni per il 2025. La Fondazione dovrà creare e favorire sinergie con tutti i soggetti pubblici e privati che operano nel settore della formazione, enti di formazione professionale, istituti professionali, IeFP, ITS Academy, enti di ricerca e centri di trasferimento tecnologico (CTT).
4) L’introduzione del cosiddetto trasferimento generazionale delle competenze.
Secondo il decreto, i datori di lavoro privati con un numero di dipendenti non inferiore a cinquanta unità, possono stipulare con un lavoratore andato in pensione da non oltre due anni un contratto di durata massima di 24 mesi, per svolgere attività di tutoraggio, per un massimo di 60 ore mensili (alcune indiscrezioni ci dicono che potrebbero cambiare), per “favorire il passaggio di competenze e di abilità tra generazioni” in favore di giovani, di età inferiore a 30 anni (35 se laureati) e con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ad esclusione del contratto di apprendistato. Il contratto di tutoraggio non si configura come un rapporto di lavoro dipendente e la relativa remunerazione corrisposta per l’attività di tutoraggio non concorre alla formazione di reddito ai fini Irpef e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, sino ad una soglia massima percepita di 15.000 € l’anno.
5) L’abrogazione del comma 2 dell’articolo 9, del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89 (che prevedeva l’attivazione dell’opzione economico-sociale), con un complessivo spostamento dell’impianto culturale da un orientamento caratterizzato da una valorizzazione delle scienze sociali ad un orientamento indirizzato a una forte connessione con il tessuto socioeconomico locale.
Che cosa significa nel concreto?
ABOLIRE IL LICEO ECONOMICO SOCIALE
Il Liceo delle Scienze Umane opzione economico sociale si propone di formare gli studenti soprattutto sulle categorie delle scienze economiche, sociologiche, giuridiche, antropologiche, e di prepararli con nozioni su fenomeni economici, sociali e culturali a livello europeo ma anche globale. Si tratta di un indirizzo che ha già l’obiettivo di connettere le scienze umane con quelle socio-economiche. Perché dunque cambiarlo?
Secondo i dati elaborati da CGIL FLC risulta che sull’intero territorio nazionale sono ben 419 le scuole statali che hanno attivato i percorsi opzionali del liceo economico e sociale (LES) e che saranno coinvolte da questo provvedimento. Queste scuole sono equamente distribuite sull’intero territorio nazionale con punte di 57 scuole in Lombardia, 51 in Campania, 46 in Sicilia, 33 in Piemonte, 31 in Toscana e 30 in Puglia. È bene anche ricordare che il liceo economico sociale è frequentato da un totale di ben 75.700 alunne e alunni circa, distribuiti in non meno di 3.000 classi, senza contare anche i 116 istituti paritari coinvolti. Detto in altri termini, in cinque anni spariranno le cattedre di diritto ed economia dal triennio (meno 330 cattedre circa) e quelle di scienze umane (meno 600 cattedre circa).
Nei passaggi relativi alle caratteristiche del nuovo indirizzo, leggiamo solo l’ambizione (vuota) di istituire percorsi con discipline tecniche specifiche, ma senza prevedere un incremento dei laboratori, quindi di insegnanti tecnico pratici e assistenti tecnici. Perdipiù, i licei hanno un orario settimanale di 27 ore nel biennio e 30 nel triennio e non sono ordinamenti di tecnici o professionali, quindi l’intera operazione rischia di essere solo un cambio di denominazione perché gli spazi di flessibilità nel piano orario non consentono un incremento di materie ad invarianza di spesa. Perché inserire discipline tecniche in un liceo se già esistono scuole e istituti che perseguono questi obiettivi?
PERCHE’ PROPRIO IL LICEO ECONOMICO E SOCIALE?
Richiamando i documenti del Miur, dalla rete nazionale LES e dai sindacati, i dati ci dicono che il LES è oggi uno dei pochi Licei in costante progressione e la tendenza delle iscrizioni è in crescita. La scelta dell’opzione Economico-Sociale è passata nel 2021 dal 2,7% al 3,2%, al 3,4 % nel 2022 e al 3,9% nel 2023 e in alcune Regioni tocca il 5%.
Inoltre il provvedimento istituisce un liceo con una finalità poco comprensibile. Nelle intenzioni del compilatore della norma, “Made in Italy” appare un concetto indistinto e implicito se non a scopo propagandistico. Si tratta per il liceo di promuovere la manifattura/cultura italiana perché sia riconoscibile e attrattiva rispetto ai mercati internazionali. Probabilmente si immagina che un solo liceo possa formare i futuri “Valentino”, “Ferrari” o “Gucci” ignorando che la creatività e la maestria sono attitudini complesse, frutto per lo più di una formazione ampia, generale, oltre che tecnica, in cui l’estro e la competenza possono essere sviluppate coltivando spesso ciò che è inessenziale, poco funzionale, magari inutile, ma che è sostenuto dalla curiosità, dalla passione e dalla voglia di apprendere.
Inoltre, tutto ciò sarebbe ampiamente consentito dagli ordinamenti già esistenti (come gli istituti tecnici e professionali), a condizione che le nostre scuole siano sufficientemente sostenute da dotazioni organiche, tempo scuola, laboratori, compresenze e che non siano al contrario penalizzate da tagli di personale e da riduzioni nei quadri orario delle discipline (come già avvenuto per le lingue straniere).
UNA FONDAZIONE PER LE IMPRESE E LE COMPETENZE
La Fondazione “Imprese e competenze per il made in Italy” è co-fondata dal Ministero dell’Istruzione e dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy. La composizione strutturale della Fondazione è la rappresentazione plastica di quanto l’obiettivo del governo sia quello di subordinare la formazione culturale del futuro cittadino alle esigenze delle imprese e del mercato del lavoro per formare il futuro lavoratore “ambasciatore delle eccellenze” del made in Italy nel mondo. Inoltre, ritengo un fatto piuttosto grave l’istituzione di una fondazione che determini gli obiettivi strategici di un liceo, in ambito di obbligo scolastico e formativo. È allarmante la possibilità di ricevere finanziamenti da “soggetti pubblici e privati” perché si determini una immediata differenziazione di offerta formativa tra gli istituti, in un settore chiamato a garantire il diritto allo studio, come sancito dalla nostra Costituzione.
Da ultimo, una chicca che davvero rende insopportabile il provvedimento in questione: si tratta dell’istituzione di un Fondo istituito e gestito dal MEF per il “Programma di Risparmio e Investimento per l’Istruzione e la Formazione Avanzata”. In tale programma si spaccia quale misura per il sostegno allo studio, di contrasto alla dispersione scolastica e di promozione per la specializzazione professionale l’apertura presso istituti di credito accreditati di conti di risparmio ed investimento a condizioni agevolate a favore di soggetti richiedenti che non abbiano ancora compiuto i 30 anni di età. Come dire: la lotta alla dispersione viene di fatto delegata alla responsabilità del MEF e degli istituti di credito. Ancora una volta, misure così radicali vengono assunte senza alcun confronto con le parti sociali, rappresentanti del mondo del lavoro, delle famiglie e degli organismi di rappresentanza delle studentesse e degli studenti.
PER CONCLUDERE
Questo nuovo liceo cancella, nei fatti, il Liceo Economico Sociale eliminando, nell’ambito del sistema ordinamentale, la presenza delle scienze umane e sociali.
L’istituzione del percorso liceale Made in Italy nell’ambito dell’articolazione del sistema dei licei è un provvedimento di bandiera che ha il duplice scopo di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali che affliggono il sistema scolastico nazionale e, soprattutto, di far passare in sordina gli altri provvedimenti previsti nello stesso decreto che, invece, costituiscono un’autentica minaccia rispetto al modello di scuola inclusiva disegnato nella nostra Costituzione.
Infatti, rispetto all’ampio respiro formativo tratteggiato per la scuola della Repubblica, l’idea di un percorso formativo esclusivamente centrato su competenze imprenditoriali appare miope rispetto alle emergenze e agli eventi ipercomplessi che caratterizzano una società ormai travolta dalle transizioni ecologica e digitale e, soprattutto, appare limitante ed escludente rispetto ai bisogni formativi di studentesse e studenti, non solo immediati ingranaggi del sistema economico, ma principalmente cittadine e cittadini capaci di partecipare con l’apporto creativo del proprio lavoro allo sviluppo e al progresso economico e sociale del paese (e del pianeta).
È necessario denunciare l’ennesimo tentativo di declinare metodologie e contenuti didattici in funzione subordinata rispetto al mercato del lavoro e dei bisogni del sistema delle imprese.
È necessario ripoliticizzare la questione scolastica e, pertanto, andare contro corrente rispetto ai discorsi che vogliono astrarre la scuola dalla società e si limitano a vedere la crisi dell’istituzione come una questione di ridimensionamento e gestione burocratica.
Ma è necessario ugualmente opporsi alla ripoliticizzazione reazionaria di questo governo. Un certo discorso conservatore vorrebbe superare la crisi della scuola attraverso metodi autoritari, riferimenti patriottici, disciplina “all’antica”, combinata talvolta con uno scientismo neuronale come vediamo con l’intelligenza artificiale e la tecnocrazia nel campo dell’apprendimento.
L’educazione non soffre di troppa libertà e di troppa democrazia, come pretendono certi discorsi conservatori. Al contrario ne difetta.
Solo una scuola democratica, sociale ed ecologica, che faccia solidarietà nei confronti degli esseri umani, potrà ridare un senso autentico all’educazione.
È questo il solo fine di un liceo che si chiama “scienze umane”.