Il giovane normale
Il giovane normale è il titolo di un romanzo del milanese Umberto Simonetta uscito nel 1966, da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Dino Risi, in cui si raccontavano le avventure, il viaggio, la scoperta del sesso e l’infrangersi delle illusioni del figlio della piccola borghesia urbana del boom economico. Se esista la normalità come mitica condizione, se sia oggi possibile dire chi è il giovane normale, non è il nostro intento, ma semmai è recuperare il tragico delle promesse non mantenute per una generazione di giovani normali. Muoversi su questo crinale è difficile e ambiguo, ma siamo convinti che sia necessario tentare di restituire una narrazione sociale a un soggetto che conosce solo mistificazioni e racconti di sé completamente falsi: infatti – diversamente da altri soggetti sociali a cui è negata proprio la narrazione, come gli immigrati – i giovani sono l’oggetto di una retorica tutta volta a una commercializzazione dei comportamenti, allo sfruttamento delle energie col miraggio della valorizzazione del talento, alla castrazione delle alternative autonome e politiche. Stabilire come il giovane normale risponda alle insoddisfazioni dell’esistere, definire i contorni del suo disagio, analizzare il suo rapporto con la socialità, la politica, l’arte e la religione sono le problematiche che abbiamo tentato di dirimere. Il giovane normale è il prodotto della società di massa, il figlio di un deserto culturale costruito da decenni, il quale al di là delle differenti provenienze di classe sociale, di biografia personale, di estrazione culturale, di origine geografica, (nord, sud, centro, provincia, città, metropoli) reagisce nei consumi e nei comportamenti in modo conformista. L’ossimoro della normalità è quello di un conformato solipsismo, un comune e coltivatissimo individualismo, mentre la grande illusione è quella di essere tutti diversi, tutti speciali dove invece vige la più opprimente uniformità.
Il giovane normale è il prodotto della società di massa, il figlio di un deserto culturale costruito da decenni, il quale al di là delle differenti provenienze di classe sociale, di biografia personale, di estrazione culturale, di origine geografica, (nord, sud, centro, provincia, città, metropoli) reagisce nei consumi e nei comportamenti in modo conformista.
La maggiore responsabilità del conformismo giovanile risiede nell’educazione, una formazione che offre corsi standardizzati, percorsi universitari che sono come delle trappole, perché se imboccati è quasi impossibile uscirne vivi, cioè ancora giovani, vitali e creativi. Il giovane normale va, infatti, all’università in seguito alla massificazione universitaria, per la quale è difficile dire se sotto le spinte per la democratizzazione del sapere lo scialbo risultato attuale crei più liberazione o oppressione. L’impoverimento dell’accademia si è manifestato col moltiplicarsi delle cattedre, la riduzione dei programmi, col conseguente mercato di manuali e manualetti, il metodo dei crediti formativi, il cui unico fine è quello di ampliare un’offerta consumistica del sapere. Parafrasando L’urlo di Ginsberg si potrebbe dire: “ho visto le menti migliori della mia generazione passare la loro vita tra banchi, lectio magistralis e rincorrere dottorati, crediti, e borse di studio”. Il sistema della formazione inoltre, oltre ad essere costruito su falsità e vuotezza formale, è anche intrinsecamente ingiusto e classista. Se l’assimilazione tra istruzione pubblica e privata non è più una minaccia ma è divenuta pura realtà, d’altra parte solo chi ha più soldi può permettersi una formazione alta, perché le borse di studio sono poche e modeste, e solo una minoranza ricca e privilegiata riesce ad andare all’estero e ad usufruire di fondi stranieri. Una cosa la scuola insegna bene: ad essere svegli e più furbi degli altri, a fottere il prossimo, a praticare la lotta individualistica di tutti contro tutti. Per quanto riguarda l’università Simon Weil si chiedeva che futuro avesse una istituzione fatta di professori che formano altri professorini. L’università italiana non è diventata solo questo, un organo perverso che in alcuni casi si auto-rigenera sterilmente, ma ha anche barattato i suoi, seppur rari, livelli di serietà di studio con l’iperspecialismo. Il giovane normale che va all’università aspira a diventare un professore – per la maggior parte sono solo sogni di gloria – e l’aspirazione è di diventare un professore che forma altri professori. Tale discorso vale trasversalmente per quasi tutte le facoltà universitarie, ma si pensi anche alle schiere di ingegneri ed economisti che scelgono quegli studi per puro revanscismo sociale. Una logica a-culturale informa la scelta della facoltà da parte dei diplomati. Più generiche, e anche più comuni, sono quelle ambizioni a lavori che portino a viaggiare molto, magari a lavorare per qualche organismo internazionale falsamente etico, col miraggio di diventare apolidi, cittadini del mondo che assomigliano terribilmente ai viaggiatori colonialisti dell’Ottocento. Promesse infrante, sogni irrealizzabili per i seppur molti aspiranti perché, così come nell’avvocatura come nelle scintillanti e allettanti relazioni internazionali, vigono leggi clientelari, di protezione delle spalle e di santi in paradiso. Non è un caso che l’organizzazione religiosa che recluti più giovani e incarni un po’ lo spirito del tempo sia “Comunione e Liberazione”, organizzazione lobbistica incentrata sull’ambizione, reclutamento di nuovi adepti, controllo dei gruppi nei luoghi di lavoro e nella scuola, costruzione di una base politica amica. C’è una promessa non mantenuta alla base, oltre alle fallate illusioni sul cosa-fare-da-grande, alla quale non si riesce a reagire in termini di autogestione del sapere e di autodeterminazione di se stessi. Quello che colpisce è che i giovani, anche quando ci provano, non riescono a creare percorsi autoformativi, cioè non riescono a farsi fautori di una controcultura. C’è una frase di Debord che è calzante, “gli uomini non trovano quello che desiderano, ma desiderano quello che trovano”: l’incapacità di creare ciò che si desidera e un acquietamento ad accontentarsi di quello che è offerto. Nelle occupazioni autogestite di protesta delle università e dei licei, talvolta, ci sono delle intuizioni che la cultura sia fondamentalmente un altro strumento di oppressione e di controllo delle menti, ma purtroppo il tentativo di creare l’alternativa rientra sempre in canali stabiliti: i seminari, i corsi di autoformazione fatti da studenti sono quasi sempre deludenti o autoreferenziali. Si assiste ogni tanto al passaggio di meteore culturali, poco più che mode passeggere, ma queste danno sempre e comunque l’impressione di intraprendere una parodia di controcultura giovanile. Esistono, infatti, delle ribellioni che non riescono mai a superare l’empasse culturale perché nonostante gli studenti abbiano a volte una forte consapevolezza del livello sempre più basso della loro istruzione – durante i corsi e gli esami si sentono più lamentele e insoddisfazioni che soddisfazioni – non riescono a percorrere strade più coraggiose e curiose. L’ipocrisia degli educatori è quella di non appoggiare e ascoltare queste pulsioni perché non farebbe comodo loro. Un wertherianesimo pervertito percorso da istanze di espressione che non riescono a trovare sfogo, ma solo un abbrutimento intellettuale. Ormai, l’obbiettivo del giovane normale è allungare il curriculum vitae. Il mondo del lavoro è chiuso e l’unica soluzione sembra essere addizionare all’infinito le esperienze formative con dottorati, assegni di ricerca, master, corsi di formazione sempre più minuziosi e così via. Tutte trappole che imprigionano e bloccano invece di liberare. Del resto non si può generalizzare perché capita che alcuni, rarissimi casi, imbrocchino un percorso formativo assolutamente originale e autentico che li libera e porta ad affrontare argomenti e campi del sapere in modo serio. Capita che qualcuno riesca a diventare una testa nel suo campo, a intercettare borse di studio all’estero, a specializzarsi in modo virtuoso, a distinguersi dalla massa. Può capitare ma sono sempre rarità, come può capitare di incrociare un professore bravo su venti nella propria vita, dall’asilo all’università.
Il sistema della formazione inoltre, oltre ad essere costruito su falsità e vuotezza formale, è anche intrinsecamente ingiusto e classista.
Non si può parlare solo più di precariato quanto di mondo del lavoro chiuso e di sfruttamento delle forze giovanili in modo gratuito. La forza lavoro giovanile si può sfruttare gratuitamente sempre con la promessa di guadagni e assunzioni future, sfruttando il mito della gavetta, il lavoro come formazione quasi offerto al giovane. Anche le esperienze lavorative servono a aumentare la lunghezza del brodo del curriculum anche se poi, nella pratica, non hanno una reale funzione di accrescimento delle conoscenze e delle capacità di ognuno. Il lavoro è difficilissimo da definire, è molto più mutato di quanto riusciamo a immaginarci e comprendere. Lo sfruttamento e l’oppressione sono diventate la regola, al punto che è sempre più difficile riconoscerle come tali. A inquinare le acque, esiste tutta una ideologia e una retorica sul lavoro contro i giovani che porta l’élite al potere a disprezzare e a bollare negativamente tutti quelli che stanno sotto, autoassolvendo una classe dirigente che non ha saputo modernizzare il sistema del lavoro in Italia. Alcuni esempi dei più comuni di questa retorica: i giovani sono bamboccioni e quindi parassiti, i disoccupati non vogliono fare i lavori duri, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Tutte categorie sociali, queste, a ben vedere, che sono la base da sfruttare, da tenere buona e disprezzare. Il luogo su cui proiettare le paure e l’odio collettive. Si creano immagini culturali sul lavoro che sono completamente artefatte, costruite ad hoc per spostare l’attenzione dal centro del problema. Il giovane normale è costretto a un lavoro frammentato e sfruttato che aumenta la sfiducia e la disillusione sul futuro, che costringe a un presente egemonico forgiato a colpi di precariato e attualità. Se si lavora per diventare autonomi e per emanciparsi economicamente, il sistema spinge perché questo diventi un incastro perfetto tra produzione e consumo. Infine i giovani finiscono per lavorare per i loro vuoti consumi e bisogni, per indebitarsi, per prodotti banali e futili, per realizzare dei piccoli/grandi acquisti che splendono sotto la costellazione del feticismo delle merci. E lavorano per divertirsi. I soldi servono a quello.
Il divertimento però non è la rottura dell’ordine precostituito, ma si candida a diventare la norma
Il divertimento è la cartina di tornasole delle insoddisfazioni, del fatto che si è completamente fuori asse. Il più grande volano dell’economia giovanile, o perlomeno ciò che sposta la maggiore quantità di denaro è proprio l’organizzazione di eventi. Molti giovani lavorano nell’industria del divertimento: ne fanno parte baristi, camerieri, chi lavora nelle pubbliche relazioni, in discoteca, chi fa il volantinaggio, chi suona, chi mette la musica, chi anima, canta e balla, gestisce, pulisce e manda avanti un luogo di aggregazione. Il divertimento però non è la rottura dell’ordine precostituito, ma si candida a diventare la norma, e inoltre nasconde l’abominio se prestiamo fede alla lezione pascaliana del divertissement, nient’altro che una copertura di un disagio, delle insoddisfazioni. Il turismo non è altro che la conseguenza di questa trasformazione: la parodia della libertà, dell’uscita dall’ordinario, legata alla scomparsa dell’avventura giovanile con la mercificazione delle esperienze. Il fatto che la sera piazze, locali, pub e bar siano stracolmi di giovani non rivela un bisogno di socialità autentico, ma smaschera il fatto che la vita ordinaria non soddisfi: ciò che si è fatto di giorno non è soddisfacente, diventano fondamentali i momenti notturni o le vacanze estive, per esempio. La vita ordinaria, lavorativa, studentesca, la bruttezza dei luoghi, l’urbanistica invivibile per i giovani sono più accettabili quando la notte copre col suo manto l’orrore dei luoghi in cui vivono, smette di far brillare le loro gabbie dorate, e le catene che portano assomigliano a gioielli. La città è una prigione e la sua legge interna è consumo e consenso. Questi tentativi edonistici di riappropriazione di tempo e spazio si rivelano dunque effimeri e vuoti, perché momenti di comunione, di condivisione e di socialità sono stati trasformati in rituali di perdita di senso. Il rituale è quello di prendersi una birra, ritrovarsi in una piazza o un locale, senza poi comunicare perché sembra quasi un tabù parlare di quello che si è fatto nella giornata o di progetti futuri, è d’altronde noto che agli schiavi è fatto divieto di comunicarsi lamentele verso i padroni. Bettin ci racconta di come nei bar nel nordest siano scomparsi i banconi, in pratica sia cambiato il modo di stare seduti al bar che non favorisce più il dialogo mentre al bancone era possibile incontrare sconosciuti e stranieri. Questo è un esempio di scomparsa di un rituale, ma ce ne sono molti. Si va al bar per stare da soli insieme al proprio piccolo gruppo, seduti al tavolino. Ci si incontra la sera per aggiornarsi in modo piatto sul presente, una cronachistica molto superficiale. Non è accidentale che i consumi di alcol e droghe, l’ottundimento dilagante, si anticipi di generazione in generazione e si estenda, diventando pratica abitudinaria. Un altro sintomo del disagio è la medicalizzazione sempre più onnipervasiva, l’aumento del consumo di farmaci e psicofarmaci, delle terapie psicoanalitiche, delle diagnosi di psicopatologie. Il disagio si va allargando, riguarda giovani in età sempre più precoci. Tutti felici, ma anche tutti depressi, insomma. In questo clima da festa permanente e decadente non sorprende che il suicidio sia oggi la prima causa di morte tra i giovani tra i 16 e i 30 anni, come rivela in questo stesso numero Grazia Honegger Fresco citando dati ufficiali. Insieme all’abuso di sostanze ottundenti o eccitanti, c’è pure la voglia di vuoto e di perdersi, divertirsi per divertirsi, trovare momenti di decompressione, perché cada la pressione insensata del quotidiano. Un altro fattore comune della vita notturna giovanile è un certo provincialismo che conduce, in città come nel paese, a frequentare gli stessi luoghi dove si incontrano le stesse persone, questa sì una ritualità, ma anche una incapacità di scoprire luoghi nuovi, alternative. I giovani che credono di essere aggiornati su ciò che va muovendosi di buono e di nuovo, si ritrovano davanti a false prospettive di apertura, la realtà è una proposta poverissima. Diviene difficile distinguere cosa è utile e necessario, l’educazione al gusto è alla mercè di un arbitrio vuoto, di identità posticce, artificiali. L’arte e l’opera d’arte in tale clima perdono la loro eteronomia – il riferimento alla società, la critica o il consenso al reale – e vivono della nuda autonomia, dell’autoreferenzialità.
I rapporti si sono mercificati e spettacolarizzati soprattutto nel campo della sessualità, perché la mercificazione del sesso non conosce ostacoli e la pornografia digitale non è che l’ultimo passo
La mutazione è ormai compiuta nelle relazioni sociali tanto che sembra di trovarsi a vivere in un peggior incubo da Black hole di Charles Burns, la metafora più attuale della marginalizzazione dei giovani attraverso vere e proprie mutazioni fisiche e mostruose. I giovani mutanti di Burns vivono la loro sessualità in un modo traumatico, perché il corpo è mutato, ma anche i rapporti tra loro. Sotto la minaccia di un imperativo edonistico e godereccio, un immaginario sessuale massmedializzato e parossistiche cure del corpo, l’anormalità di Burns rischia di diventare la nostra normalità. I luoghi dove si incontrano i giovani servono anche per trovare partner ideali e questo è ovvio, ma il problema è che ormai c’è una perversione del corteggiamento, un abbrutimento dei comportamenti di abbordaggio tra giovani nei quali gli uomini sono sempre più aggressivi e le donne si fanno sempre più prede. La profezia di Kojève sembra adatta al nostro tempo: “gli uomini del genere sapiens sapiens sono destinati a ridiventare animali, gli uomini costruiranno i loro edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni tessono le proprie tele, eseguiranno concerti musicali alla maniera delle rane e delle cicale, giocheranno come giocano i giovani animali e si daranno all’amore come fanno le bestie adulte”. Il rischio è quello dell’automatismo, la perdita di senso della ritualità. I rapporti si sono mercificati e spettacolarizzati soprattutto nel campo della sessualità, perché la mercificazione del sesso non conosce ostacoli e la pornografia digitale non è che l’ultimo passo. L’aumento della pornografia è endemico, dai siti alle pagine delle riviste per giovani, nelle quali è difficile distinguere un articolo dalle pubblicità. Un aspetto collegato è il ricorso alle modificazione esterne e artificiali per cambiare il proprio corpo: i giovani investono in modo allucinante nella palestra per forgiare i propri corpi sui modelli standard di bellezza, oppure sulle protesi per modificare la propria apparenza, aumentare il seno, ridurre il naso e così via. Che fine abbia fatto la sessualità in questa progressiva perdita di umanità lo si vede nei comportamenti opposti e estremi: da una parte quella che potremmo definire l’anoressia sessuale e dall’altra gli eccessi. I giovani costruiscono e scelgono relazioni gabbie oppure relazioni leggere e futili. La liberazione sessuale è diventato uno strumento che non affranca ma anzi costringe. Di nuovo il cavallo di Troia delle promesse infrante, al cui interno si nascondono tabù più pericolosi, forse, di quelli del passato. Al di là di facili moralismi, il rischio è che l’immaginario erotico muti completamente. Il capitalismo, fortemente in crisi sul terreno dei bisogni, punta sul desiderio, il parente nobile del bisogno, perché questo costituisce una risorsa infinita, un giacimento senza fondo. Se il desiderio diventasse monetizzabile assisteremmo forse all’ultimo abominio del tardo capitalismo: oltre non si può andare, oltre, probabilmente, non c’è più l’Uomo. Partendo dalla mercificazione della sessualità si capisce che la corruzione attraverso i consumi sta coinvolgendo in modo endemico sempre più i giovani. Emiliano Morreale, in un recente articolo sul domenicale del “Sole24ore”, Il lato infantile del capitalismo bamboccione, ha parlato proprio dell’ethos del consumatore bambino prendendo le mosse dagli studi di Benjamin Barber, Consumati, e di Jon Savage, L’invenzione dei giovani: “Il concetto stesso di ‘gap generazionale’, di conflitto tra generazioni, molla di modernizzazione delle società, perde di significato se il modello del consumatore diventa il pre-adolescente. (…) I bambini vengono spinti più rapidamente possibile a diventare piccoli consumatori, e una volta raggiunta questa pubertà precoce, possono rimanerci idealmente sine die”. A cavallo tra divertimento e sessualità c’è la tecnologia, il social network, ad esempio, che è un luogo dove ci si ciba di disillusione. Le promesse non mantenute diventano, qui, la norma. La cosa interessante, e spaventosa, è che la faccia oscura della vita notturna è diventata il social network, un luogo ancora più omologante e sterile che non costituisce una valida alternativa comunicativa. La tecnologia rappresenta inoltre l’avanguardia dei rapporti sociali nella modernità e, se da una parte può essere affascinante calarsi in una rete di rapporti liquidi e immediati, dall’altra ci si trova di fronte alle peggiori distopie immaginate in passato dalla letteratura e dal cinema di fantascienza.
I giovani sono più vicini che mai ai loro padri. L’attrito e il conflitto, che sono sempre esistiti e che sono stati tra i motori per la crescita e la salute di una collettività tra padri e figli sembrano essersi arrestati. I giovani pensano come i loro padri e quando si distaccano dagli atteggiamenti e dal pensiero di questi lo fanno seguendo moti di ribellione che sono vuote formalità, la ripetizione di un rituale che ha perso senso. Esistono, ovvio, delle minoranze politiche attive e ostinate. Il giovane normale si ritrova a formare la propria opinione politica leggendo gli stessi giornali dei padri come “Il Fatto quotidiano” (vero opinion maker giustizialista transgenerazionale) e “La Repubblica”, gli stessi programmi televisivi di approfondimento o “superficializzazione” politica (“Anno zero” e simili), condivide idee riformiste, conservatrici, radicali, estremiste. Si dissipa così una fonte di energia fondamentale per la società che, in tempi e luoghi diversi, ha investito i nonni dell’autorità di trasmettere la conoscenza ai giovani, e segnando con la cifra del conflitto il rapporto padri-figli. Come si diceva poco sopra l’attivismo giovanile rappresenta un ambito minoritario che costituisce barlumi di consapevolezza politica e ribellione. Al contrario deve allarmare come siano cambiati i numeri, di giovani che protestano, come erano piene le piazze prima (fino al 2001) e come sono piene oggi. Si potrebbe distinguere tra reazionari o moderati passivi che pensano come i padri, e gli attivi a loro volta divisi in post-militanti e ribelli, i primi che vivono la politica come una perversione, i secondi come una disillusione continua. Ciò si può spiegare con la difficoltà di trovare radicalismo, modi per cambiare e smarcarsi dal presente. Come se ci fosse un incantamento tra due opposti: “tutto è vanità” (nella sua accezione nichilistico-accidiosa e non mistica) e l’imperativo “godi” (a cui fa da pendant la constatazione rollingstoniana: I can’t get no satisfaction). Il radicalismo si è confinato nelle scelte etiche, nel consumo etico, nella constatazione che si è monadi e se si vuol cambiare si inizia da sé (la crescente sensibilizzazione circa il vegetarianesimo è paradigmatica). Chi torna a coltivare l’orto, chi si dedica al risparmio energetico, tensioni che paiono positive ma alle quali manca qualcosa. Il problema, ancora una volta, è quella della difficoltà di trovare obbiettivi riconoscibili e condivisi contro cui ribellarsi, contro i quali recuperare il “siamo” camusiano, perché ormai la rivolta “contro il niente” ha perso i cardini di parole-chiavi sulle quali fondare l’impegno. Anche nei casi di partecipazione giovanile a movimenti religiosi, si assiste a fenomeni di autoconsolazione, una apparenza di essere sopravvissuti al “dopo bomba”. Da un altro punto di vista l’aumento del settarismo rappresenta una risposta alla solitudine, l’ennesima promessa non mantenuta, illusoria: la religione e le sette si propongono come collettori di senso, dispensatori di orientamento, formatori di un “noi” che oltrepassi l’individualismo, il solipsismo.
Quello che manca è la rottura, la capacità di ribellarsi, di sostituire l’immagine del presente con la capacità creativa di reinventarlo. Un tempo bastava trovare il rimosso, come nell’analisi freudiana, per risolverlo, ma oggi anche dove c’è consapevolezza il problema tarda a risolversi. I giovani normali si trovano a vivere in un’epoca nella quale il tardo capitalismo neoliberista globalizzato ha azzerato gli attriti tra le classi, pur conservando e accentuando la polarizzazione tra ricchi e poveri. Ne risulta uno stato di profonda confusione nella quale gli oppressi non capiscono più chi sono gli oppressori. Un mercato libero, unico e nebulizzato i cui detrattori sono destinati a essere dei Don Chisciotte contro i mulini a vento. Per i giovani il sistema ha elaborato un efficace e ulteriore antidoto: la dittatura di un presente che costringe all’attualità. Non esistono più collettori di utopia, di creazione di gruppo, che lavorino alla fondazione di un “noi”, giacché le tensioni che dovrebbero contribuire all’espressione di sé sono destinate a implodere o a sfogare in atti di violenza estemporanea contro obbiettivi pretestuosi (o peggio contro facili capri espiatori) invece di concentrarsi in una critica seria agli errori e orrori dell’esistente. Inoltre i percorsi educativi, le strade lavorative che sono proposte ai giovani non fanno altro che assopire le energie di chi, tra i quindici e i trent’anni, sarebbe naturalmente inclinato all’apertura, alla creatività e al ripensamento politico del contingente. In poche parole le energie di ribellione si disperdono. L’identità autentica del giovane normale non può esprimersi perché ingabbiata e costretta da un immaginario uguale per tutti che apre le porte al male morale. Il paradosso è che tutti crediamo di avere un’identità originale e autonoma che ci distingua dagli altri, ma nella prassi siamo gretti, paurosi, comuni.