Il dilemma della moschea e i dilemmi dell’accoglienza

“Abbiamo un governo di destra da due giorni e mi trovo già a chiudere una moschea.” A pronunciare questa frase, carica di amara autoironia, è un’assistente sociale che insieme a due educatori e una giovane tirocinante della facoltà di Scienze Umane compone il plotoncino diretto a un appartamento abitato da migranti nella periferia di una città del Nord (in questo articolo tutti i riferimenti a luoghi reali sono stati eliminati e tutti i nomi sono fittizi). Lo scopo della visita è un’assemblea di gestione che dovrà decidere la destinazione d’uso di una delle stanza che compongono l’appartamento. Si tratta, infatti, di una casa del programma Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) rivolto ai migranti che arrivati in Italia fanno richiesta di asilo politico oppure sono già titolari di protezione internazionale.
Cosa c’entra allora la moschea oggetto dell’ironia dell’assistente sociale? Bisogna fare un salto indietro di qualche anno per capirlo.
Tra il 2016 e il 2018, nel punto più alto della parabola degli ingressi in Italia di migranti richiedenti asilo, si è andato costituendo un nucleo di abitanti dell’appartamento in questione composto di uomini provenienti dal Togo, dal Ghana e del Gambia in prevalenza, per un totale di nove persone. Il numero degli accolti rimane costante in ogni appartamento o struttura secondo criteri definiti nel regolamento di gestione del Sai. È variabile invece l’identità delle persone in accoglienza perché la loro permanenza dipende dagli iter burocratici e legali relativi alla richiesta di asilo politico. Un percorso che in Italia non dura mai meno di due anni ma può arrivare anche a cinque. L’avvicendamento avviene ma lentamente.
Questa scansione temporale ha consentito al gruppo di consolidarsi e cristallizzare alcune consuetudini di convivenza. Nelle prime settimane di vita comune gli abitanti della casa erano stati informati circa una possibile inadeguatezza all’utilizzo come camera da letto di una delle stanze. Perizie successive dimostrarono la completa agibilità della stanza, ma intanto i nove beneficiari del programma Sai avevano già deciso di stringersi in tre stanze e lasciarne libera una. Libera, ma non inutilizzata, come hanno tenuto sempre a dire. Anzi quella stanza diventa lo spazio più importante dell’appartamento in seguito alla decisione di farne un luogo di preghiera, scelta favorita dall’orientamento religioso omogeneo ispirato ai principi dell’Islam.
Per l’equipe degli operatori sociali attivi nella casa quella stanza è nominata subito “la moschea”. L’equipe, composta da sei persone, si è trovata ad affrontare la questione a cose fatte, solo quando i due operatori impegnati sull’appartamento hanno portato “il caso” nella riunione collegiale settimanale. La discussione si è orientata senza grossi strappi verso il rispetto di una decisione presa autonomamente dagli abitanti dell’appartamento, tanto più perché andava incontro a un’esigenza sì spirituale, ma anche legata al vissuto personale, che i giovani africani avevano così motivato: “qui è tutto molto stressante, è difficile stare a casa e aspettare sempre, aspettare il lavoro, aspettare i documenti, aspettare di uscire dal progetto. Diventiamo pazzi. La preghiera è importante, ci sentiamo meglio dopo aver pregato.”
Il progetto Sai, nonostante sia passato attraverso le forche caudine del governo Conte edizione Salvini, rimane fortemente indirizzato all’autonomia dei beneficiari. Nato nel 2002 con il nome di Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) in seguito a un accordo tra Ministero degli Interni e Anci (Associazione nazionale comuni italiani) con la gestione affidata a quest’ultima associazione, i suoi cardini sono l’apprendimento della lingua italiana, l’integrazione nel tessuto sociale di approdo, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo. Inoltre, nella grande maggioranza dei casi il luogo di destinazione è un appartamento e non una macro-struttura, nell’ottica dell’accoglienza diffusa sul territorio. Gli accolti quindi devono farsi carico, dotati dal progetto dei mezzi per farlo, della gestione della casa.
Un altro scopo fondamentale del progetto è il sostegno nel corso dell’iter burocratico legato alla condizione di richiedente asilo o di titolare di protezione internazionale. E questa è l’altra faccia della medaglia. Si tratta infatti di un percorso a ostacoli reso accidentato dalla sfiancante lentezza del lavoro delle questure e del sistema giudiziario italiano tout court. Non analizziamo in questa sede il tema dell’ingolfamento dei tribunali del Paese data la sua complessità, ma possiamo testimoniare che anche in questo caso a farne le spese sono i più deboli. L’attesa, senza avere idea di quando terminerà, è il destino di ogni uomo o donna che chieda asilo politico in Italia.
Le parole dei ragazzi avevano un solido fondamento di verità, l’equipe non poteva fare altro che riconoscerlo e sostenere la scelta di autodeterminazione che li voleva più stretti tra i corpi, ma più leggeri nella mente e nello spirito.
Tutto bene allora. Fino a quando l’omogeneità del gruppo non si incrina.
Circa un anno prima della frase di esordio dell’assistente sociale, nell’appartamento nella periferia di una città del Nord è arrivato un nuovo beneficiario, Mohammed dal Senegal. Vicino al resto del gruppo per età e per il vissuto antecedente all’arrivo in Italia (l’attraversamento del deserto del Niger e soprattutto le vessazioni dei trafficanti e carcerieri libici sono un tratto comune alla maggioranza delle storie dei migranti subsahariani), ma diverso per progetto migratorio e inclinazioni caratteriali. Mohammed ha infatti un’unica grande ambizione da realizzare in Europa: studiare fino a laurearsi. Quando arriva nell’appartamento della piccola moschea ha già in tasca il diploma di terza media (cosa in realtà abbastanza comune tra gli accolti in Sai) e qualche anno di istituto tecnico commerciale statale indirizzo marketing. Mancano pochi mesi all’ultimo scoglio prima del diploma: l’esame di maturità. A Mohammed piace studiare e gradisce molto anche l’ambiente studentesco liceale e universitario. Frequenta ragazzi e ragazze italiane, fa vita notturna (per quanto gli è consentito dal progetto e dalla disponibilità economica), ha una routine più simile a quella di uno studente universitario fuori sede che di un giovane richiedente asilo africano. Mohammed, infine, è musulmano come i suoi coinquilini, ma decisamente meno osservante.
Dopo qualche settimana dal suo ingresso Mohammed chiede agli operatori di riferimento di poter avere un posto tranquillo dove studiare nella casa. Nella suddivisione dei posti letto condizionata dalla difesa dello spazio-moschea a lui è toccato un letto nella stanza da quattro posti. Difficile godere delle condizioni ideali per dedicarsi allo studio. Com’è facile prevedere la discussione va a sbattere contro l’anomalia dell’appartamento: la stanza in più. Il ragazzo senegalese sa che mettere in discussione l’esistenza della moschea vorrebbe dire creare un conflitto interno e mettersi in una situazione di auto-esclusione rispetto agli altri abitanti con i quali condivide comunque tratti biografici significativi. Propone quindi una soluzione diplomatica: che la stanza diventi multifunzionale, non solo un luogo di preghiera ma anche disponibile per esigenze diverse, come, per esempio, studiare.
Gli operatori recepiscono la proposta di Mohammed e l’equipe di operatori propone di convocare un’assemblea di gestione.
La sera dell’assemblea gli abitanti della casa sono quasi tutti presenti, tranne Karim e Abdel che hanno il turno di notte al deposito presso il quale lavorano come facchini. Mohammed ha annunciato la sua presenza, ma si fa aspettare.
La discussione comincia.
“Sono sicura che vi ricordate che abbiamo parlato della moschea già qualche anno fa – esordisce Monica una dei due operatori che seguono l’appartamento – quella volta vi abbiamo detto che rispettavamo la vostra scelta nonostante creasse una situazione di sovraffollamento nelle stanze. Come sapete noi dobbiamo garantire il rispetto delle regole e fare in modo che tutti i membri del gruppo possano vivere al meglio.”
“Noi stiamo tutti bene così – incalza Ali, uno dei togolesi – tutti, non c’è nessuno che non sia contento di avere una stanza per pregare.”
Il clima si fa subito teso. Il gruppo era pronto allo scontro. L’assenza di Mohammed, che intanto ha telefonato per dire che non verrà, non solo priva il dibattito dell’unica voce non allineata ma fornisce un altro argomento al gruppo dominante.
“Volete toglierci la preghiera per dare un posto a Mohammed, lo abbiamo capito – dice Ali sempre più accalorato – lui è lo studente, noi ci spacchiamo la schiena al deposito, ma voi pensate solo a lui.”
L’asticella dello scontro si è alzata, per gli operatori la sfida è mantenere la discussione aperta, ma più crescono i decibel più è difficile razionalizzare.
“Il fatto che la moschea esista dopo tutti questi anni è la prova del fatto che rispettiamo le vostre esigenze – interviene Lorenzo, l’altro operatore – ma abbiamo sempre detto che non potevamo permettere che un gruppo comandasse su tutta la casa. La richiesta di Mohammed ha senso, non vi sta chiedendo di privarvi della moschea ma solo di condividere quello spazio.”
“Ma allora perché lui non c’è? Perché ha mandato voi a parlare al posto suo? Voi lo state proteggendo perché?” a parlare adesso è Brehima, il leader del gruppo.
“Voi avete paura di lui!”urla Hassan balzato in piedi col dito puntato in faccia a Lorenzo.
Il tappo è saltato, l’assemblea è fuori controllo, tutti urlano, emergono prese di posizione dure e dietrologie pretestuose. La reazione dura e scomposta fa pensare a un conflitto più profondo di quello relativo alla convivenza tra quasi estranei. Mettere in discussione “la moschea” vuol dire minacciare la loro identità composta di legami con la cultura di origine e di relazione di alterità con la società ospitante. Mamadi, lo studente poco praticante, appare “straniero” al pari degli operatori bianchi che sono venuti in assemblea a portare l’infausta proposta.
Monica capisce che ormai è meglio chiudere il dibattito provando a introdurre un altro punto di discussione decisamente meno divisivo come l’organizzazione di una prossima gita nella Capitale.
Noi giorni seguenti i due operatori convocano Mohammed per commentare gli esiti infelici dell’assemblea. Il giovane ammette di aver voluto evitare il confronto con i coinquilini per non trovarsi in uno scontro che lo avrebbe visto in minoranza. Insieme convengono che la città in cui vivono vanta molte sale studio che hanno il valore aggiunto di essere frequentate da studenti e studentesse con i quali potrebbe essere interessante entrare in relazione. Un bel po’ di polvere finisce sotto il tappeto in nome del quieto vivere, la questione moschea è chiusa, ma solo temporaneamente.
Passano i mesi, la vita all’interno dell’appartamento Sai nella periferia di una città del Nord scorre nel solco di una routine fatta di lavoro a chiamata a scaricare e caricare pallet di merce o a lavare piatti nella cucina di un hotel, di discussioni sui turni di pulizie domestiche e di attese di una telefonata dell’avvocato che annunci sviluppi positivi sul fronte documenti.
Arriva l’estate e con lei la visita del supervisore del Servizio Centrale (ente di coordinamento del Sai) per monitorare il regolare svolgimento del programma.
Il supervisore si affaccia nella stanza moschea, Monica si affretta a spiegargli tutta la storia di dibattiti e assemblee che c’è dietro quella anomalia e sembra che il messaggio sia arrivato. Ma non abbastanza da evitare nel report riguardante quell’appartamento la raccomandazione di risolvere il problema di sovraffollamento utilizzando come stanza da letto lo spazio attualmente destinato a luogo di preghiera.
La pace sociale raggiunta con il “compromesso delle sale studio” è di nuovo a rischio. La raccomandazione del Servizio centrale ha il carattere della prescrizione in realtà, l’equipe di operatori deve capire quali strategie comunicative mettere in campo per evitare uno scontro troppo duro. Perché uno scontro comunque ci sarà e stavolta è possibile che il fronte pro-moschea sia ancora più compatto: la richiesta di smantellarla viene da fuori, da un’autorità invisibile. Operatori contro beneficiari, Comune contro abitanti, italiani contro stranieri, bianchi contro neri.
Il drappello capitanato dall’assistente sociale, coinvolta per portare una voce più vicina ai servizi sociali e quindi al Comune, si avvicina all’appartamento. La battuta sullo sgombero coatto non è servita a alleggerire la tensione. Lei stessa, e ancora di più gli operatori, hanno la piena consapevolezza di portare sulle spalle il peso di un grave dubbio di coscienza: è più giusto dare priorità al rispetto delle regole che garantiscano il funzionamento dell’accoglienza allo stesso modo per tutti oppure favorire la libertà per gli accolti di decidere cosa è meglio per loro?
Si apre la porta della casa, i ragazzi sono tutti presenti, già seduti intorno al tavolo del soggiorno. In silenzio. Si comincia.