Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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I sadici

15 Giugno 2014
Stefano Laffi

Un bambino di 2 o 3 anni può correre con la testa girata indietro, può appoggiare la mano sul forno a 200 gradi, può mettersi in bocca sassi e biglie, può portarsi la seggiolina in balcone per guardare da vicino i fiori nel vaso… Insomma è ovvio che da genitori e da adulti si è sempre sull’orlo del burrone, ma non è dall’elenco delle minacce quotidiane che si traggono le indicazioni più preziose.

Immagine. È difficile farsi un’idea dell’infanzia, senza averci a che fare. Se uno si affida allo sguardo, di bambini ne vede pochi perché sono prevalentemente chiusi in macchina o a casa, se prova a entrarci in una relazione che non sia solo sorridere per la loro bellezza è probabile che si senta addosso sguardi sospettosi sulle sue reali intenzioni, se allora prova a informarsi, troverà i bambini associati prevalentemente ai temi della violenza e della salute, quindi come vittime di crimini o di malattie1. In sostanza, l’idea della minaccia circonda l’infanzia: dall’influenza all’incidente d’auto, dall’ira del padre separato disposto al sacrificio massimo alle perversioni pedofile, dall’inquinamento ai bulli, il mondo per come è rappresentato è ostile. Difficile capire invece la natura dei problemi della maggior parte dei bambini: la fatica a trovar il tempo e l’attenzione dei genitori indaffarati, la roulette russa di nidi e materne in continuo subbuglio, l’assedio del mercato e della televisione, la perdita della natura, la difficoltà a trovare un po’ d’acqua e un posto dove cambiarsi quando si cammina in città, la totale assenza dell’infanzia nel discorso politico, la costruzione attorno a loro di uno spazio fisico – pubblico e privato – a misura di adulti motorizzati e incapaci di sosta…

E’ evidente che le due rappresentazioni vanno in direzioni opposte: chiudersi e proteggersi nel primo caso, guadagnare lo spazio e l’aperto nel secondo caso.

Nascere, oggi. Mettiamo che diventi genitore, e finalmente non devi delegare ad altri la tua idea di infanzia. Se ti capita in Lombardia, almeno in alcuni ospedali, sarai di fronte a cose inquietanti, che ti sorprenderanno. Tutti hanno diritto ad un nome, lo dice la convenzione dei diritti dell’infanzia, solo che la vicenda del nome prende una strana piega: a poche ore dalla nascita il padre viene chiamato dalla direzione dell’ospedale per dare al neo-nato il codice fiscale, per poterlo registrare come nuovo accesso fra gli utenti dell’ospedale, diciamo non proprio la prima cosa che pensi della creatura che hai appena preso in braccio. Ma contemporaneamente il “sistema” entra in testa coda, e devi firmare una liberatoria per poter appendere il nome alla sua culla nella nursery dove tutti possono guardare, per la privacy, altra questione che non metti istintivamente al primo posto alla nascita di tuo figlio. Sempre lui, il “sistema”, di lì a poche ore ti raggiunge con una sorta di circolare per neogenitori per dirti quali sono le probabilità di contrarre una serie di malattie – probabilità calcolate su bambini lombardi, caso mai volessi prenderla alla leggera e infilarci il “terzo mondo” per declassare quel caso a possibilità remota – e raccomandarti tutte le vaccinazioni del caso, obbligatorie e opzionali. Insomma quando nasci il sistema si preoccupa di tutelarti dal rischio di non essere riconosciuto e dal suo contrario (codice fiscale versus privacy), ti contabilizza il rischio di ammalarti e ti protegge.

Il prezzo del sistema. Ci stiamo abituando all’idea che alla richiesta del consiglio medico ci venga restituito un numero. E ci stiamo abituando al fatto che il medico non visiti, ma chieda accertamenti, esami, ovvero parametri, e senza nemmeno guardarti in faccia comunichi diagnosi, prognosi e terapie. Chissà se la fortuna dei guaritori, o delle medicine alternative in cui il contatto è essenziale tanto alla diagnosi quanto alla cura, non dipenda anche dal congedo di certa medicina ufficiali dai nostri corpi, dall’aver adottato una logica da perito assicurativo, in cui tutto è schiacciato al calcolo della probabilità, che lascia il paziente nella solitudine di un numero percentuale, o di una frazione che non ti sai rappresentare. “Succede di rado” o il “5%” può essere la stessa cosa, ma chissà, forse inseguiti dalle cause legali di risarcimento danni lo stratagemma del sistema è diventato darti la calcolatrice in mano, secondo una perversa idea di informazione. Nella circolare della Regione Lombardia ci sono frazioni con denominatori pari a 2.500 o 3.000, per cui ti dici che sarebbe una bella sfortuna se tuo figlio fosse quell’uno del numeratore. Ma è tuo figlio, sei disposto a rischiare? Insomma, a qualcuno è successo, e qualcuno magari si starà pentendo della sua disattenzione… E poi se te lo dicono un motivo ci sarà… Ma se ti prendi coraggio e provi a limitarti alle sole vaccinazioni obbligatorie, il sistema ti punisce: 10 vaccinazioni comportano un’iniezione, per le sole 5 obbligatorie ne servono 5. E siccome si tratta della pelle di tuo figlio appena nato cedi, lo spacchettamento non previsto dal sistema ha un prezzo troppo alto…

L’assedio del rischio. Perché siamo cosi sotto pressione, perché la normalità è diventata ansiogena? Luhmann2 ci aveva avvisato, proponendoci la distinzione fra pericolo e rischio: finché ci pensiamo minuscoli esseri dell’universo il mondo sarà fatto di “pericoli” ovvero minacce ma fuori dalla nostra portata, ma da quando abbiamo scatenato Prometeo e il controllo del mondo ci pare possibile tocca fare i conti col “rischio”, con l’idea di poter patire conseguenze dolorose delle nostre decisioni. Insomma, o ti ammali e lo consideri un accidente, oppure entri nell’angoscia di decidere se fare o no vaccinazioni, prevenzioni, autolimitazioni dei tuoi comportamenti, ecc. E poi, stavolta è Beck3 a guidarci, il mondo ha preso una piega sgradevole, la ricchezza e il privilegio producono rischi per tutti, l’ipersfruttamento delle risorse naturali ha conseguenze globali, se esplode una fabbrica o una centrale nucleare ci va di mezzo chi davvero non c’entra nulla. Oggi “non pagheremo la vostra crisi” è in fondo lo slogan di chi non ci sta a dividersi i rischi, anche perché a differenza della situazione luhmanniana non ha preso alcuna decisione per meritare la miseria attuale e davvero non si capisce perché socializzare a tutti noi i rischi (ora i danni) degli operatori finanziari in delirio di onnipotenza.

Piccola grammatica del rischio. Scendiamo di scala e proviamo a usare un ragionamento elementare, intuitivo, ad altezza uomo, che ci dica quando si rischia qualcosa. Quando simultaneamente: 1) si è esposti al cambiamento, 2) si è costretti a scegliere, 3) le opzioni hanno effetti diversi, 4) si agisce senza un’idea di destino e di natura. Partiamo dal fondo, l’alienazione delle parole destino e natura dal nostro orizzonte. Se pensiamo alla nascita è evidente il cambiamento avvenuto, dall’amniocentesi al parto cesareo molte cose prima fuori dalla nostra portata sono ora cadute nella sfera luhmanniana della scelta e l’evoluzione della genetica promette di estendere questa sfera. Sembra il regalo del progresso- poter anticipare l’esito e quindi annullare il rischio di un esito indesiderato – solo che chi ci è passato sa bene che di nuovo è un gioco probabilistico, onestà vuole che le tecniche diagnostiche abbiano certe probabilità di errore e per di più anche una quota di rischio di fare danni loro stesse… Da orfani di dio e della natura, si vive male e farsi l’assicurazione sappiamo che non basta. La fantasia di controllo si accompagna alla sua impossibilità, mette sotto calcolo il futuro ma ci lascia in ansia nel presente. Se destino e natura ti schiacciavano il calcolo del rischio ti toglie leggerezza, costringe ad una vigilanza che si tramuta in sistemi d’allarme o in farmaci, diventa presto parente stretto della paura e della sicurezza, logora la comunità, trasforma l’ambiente in minaccia.

Equilibri. Non si tratta di negare gli incidenti domestici o stradali, ma di trovare un equilibrio che non leda la possibilità di esperienza di un bambino, sapendo che conviene comunque un “assaggio del dolore” che forma l’istinto di sopravvivenza piuttosto che un impatto successivo nella sperimentazione vergine delle “sfide del pericolo”. Perché è altrettanto vero che non si tratta nemmeno di ripristinare il destino artificialmente laddove non c’è, ma di contenere l’idea di onnipotenza sì, di ripristinare la possibilità di sofferenza, dolore, limite, inefficacia. In questo senso la parola “rischio” diventa una buona sentinella, serve a ricordarci che non possiamo tutto, che patiamo delle conseguenze dalle nostre azioni. È una parola chiave dell’educazione – ovvero della responsabilizzazione individuale – e dell’economia – il cui rischio imprenditoriale è fondamentale per muovere l’innovazione e la crescita. Non è un caso che sia un concetto cardine anche della prevenzione dall’uso di sostanze, ovvero di quei momenti in cui puoi davvero perdere il senso della conseguenza delle tue azioni e sentirti dio di te stesso, cioè artefice di ogni tua possibilità.

Effetti. Ripercorriamo a ritroso la sequenza e veniamo alla terza questione, cioè il fatto che le opzioni abbiano effetti diversi. Può sembrare una strana osservazione ma merita una sosta. Si tratta di quella che con distacco ironico potremmo chiamare la rappresentazione teatrale più frequente nelle situazioni di consumo, ovvero quando da clienti ci troviamo di fronte a opzioni diverse, quasi fossimo al bivio di un dramma shakespeariano: è come se avessimo perso la capacità di chiederci se cambia davvero qualcosa? Una marca o un’altra, di omogeneizzati o salviettine, fanno davvero la differenza? Ma perché mai dovremmo sentirci così in ansia quando andando in farmacia subiamo l’interrogatorio se lo vogliamo in caucciù o silicone, a goccia o a ciliegia, 3-6 mesi o 6 mesi e oltre, visibile di notte o no, di questa marca o di quest’altra….? Ovvero rischio davvero qualcosa scegliendo l’una e rinunciando all’altra? La sensazione è che, in genere, quando abbiamo a che fare con infanzia ci sia un surplus di investimento emotivo, si drammatizzano le scelte, si amplifica la sensibilità alle conseguenze, ma poiché si tratta in realtà di opzioni di consumo le cose cambino poco, nel bene o nel male la sensazione di rischio sia un sentimento a vuoto, mal speso.

Opzioni. L’economia di mercato ha una sua drammaturgia, mette in scena un rischio fittizio, ci deve dar l’idea che il bancone del supermercato sia un bivio esistenziale per regalarci poi la soddisfazione di veder andar a buon fine la scelta – il pannolino tiene, l’omogeneizzato è gradito, il ciuccio non viene sputato, ecco la catarsi della pseudo tragedia del consumo infantile – e riaverci fedeli fra i suoi. Ma deve essere un rischio controllato, non deve creare panico, immobilismo, altrimenti non compriamo, deve essere un gioco a riconoscersi come target, questa è la sostanza, farci credere di poterci specchiare in un prodotto, sempre con questa metafora un po’ divina, di piccoli creatori di un mondo adeguato a nostro figlio. Soprattutto deve farci credere e sperimentare che il rischio vero sia non scegliere, ovvero uscire dal sistema. Prova a rinunciare ai pannolini e vedrai che fatica trovare un’alternativa, prova a rifiutare il pacchetto di vaccinazioni e vedrai quanto piange tuo figlio ad ogni singola iniezione. Quindi il vero rischio è sul confine, nel panico da congedo dal sistema, dentro è un gioco, avremo sempre più la sensazione che il sistema ci offra nuove tutele, ovvero nuove certificazioni di sicurezza o idoneità, nuove classificazioni per riconoscere il giocattolo giusto, nuove proprietà e nuove piante naturali, ecc.

Esposizione. Veniamo ai primi due punti, l’esposizione e la costrizione a scegliere. È questa la leva fondamentale del genitore, è quasi la sua tentazione, rinunciare all’esperienza per preservare dal rischio. In fondo la paura è il migliore spot alla clausura domestica. Ancora una volta, non si tratta di negare il pericolo, ma di cercare la libertà possibile, di guadagnare per i bambini un metro alla volta nella conquista del mondo. Per una questione di rispetto: che diritto abbiamo di tenere i bambini detenuti in casa, di lasciarli girare solo legati a seggiolini di costrizione, di negar loro la possibilità di raccogliere quello che trovano, correre se ne hanno voglia, fissare insetti e animali se li vedono… Per gli adulti il compito non è sigillare il bambino nella bolla di protezione ma rendere l’habitat più abitabile. Ma vale anche la banale ragione che senza rischio non c’è apprendimento, senza l’esposizione non c’è conoscenza. La riproduzione artificiale e domestica, gioco e conoscenza sempre mediate dalla tecnologia, per dare l’onnipotenza di un rapporto con tutto “in vitro”, a distanza di sicurezza, è in realtà una forma di detenzione dell’infanzia.

Bambini. Nel suo bellissimo “Un gioco da bambini”, il compianto Ballard racconta di un criminologo chiamato a risolvere un caso misterioso, la sparizione di tutti i bambini di un quartiere residenziale di Londra e la morte dei relativi genitori. Quel che colpisce è un evento così tragico in una zona al sicuro dalla cronaca nera, abitata da professionisti, da famiglie unite e sensibili all’infanzia, sotto una vigilanza costante di polizia privata, senza contaminazione con le periferie. A poco a poco il criminologo capisce cosa è successo, e trova la più sorprendente delle spiegazioni. “Per un atroce paradosso, la vera causa della morte di quei padri e di quelle madri fu il regime d’affetto e di premure che essi avevano instaurato nel Village. Quei ragazzi avevano realmente subìto un lavaggio del cervello, perché l’illimitata tolleranza e comprensione dei genitori aveva finito per privarli di ogni autonomia e per cancellare in loro ogni traccia di emotività […] Quei tredici adolescenti, cui veniva negata ogni espressione del sé e nei quali anche gli impulsi più ribelli venivano disinnescati dall’infinita pazienza dei genitori, si erano trovati intrappolati da un carosello di lodevoli attività. […] Lungi dall’odiarli, mentre uccidevano i genitori essi vedevano in loro semplicemente gli ultimi ostacoli da rimuovere per conquistare la propria identità. […] In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia.”4

1 È questo l’esito di un’analisi svolta su migliaia di articoli su quotidiani e settimanali, in diversi anni, pubblicata nel volume “Bambini e stampa”, curato dall’Istituto degli Innocenti (Roma, Carocci 2007)

2 N.Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1998

3 U. Beck, Società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2001

4 J.C. Ballard, Un gioco da bambini, Feltrinelli, Milano 2007

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