I mondi al centro dell’educazione
Una persona che rispetta le regole, che fa quello che gli altri si aspettano da lei, che partecipa all’impresa collettiva della società. E un’altra che invece si rifiuta di farlo. La prima, si direbbe, è una persona con la quale la scuola è stata efficace, ha raggiunto in pieno i suoi obiettivi, mentre la seconda è l’esito di un processo educativo non riuscito. Ma le cose, spiega Gert Biesta in Il mondo al centro dell’educazione. Una visione per il presente (a cura di Alessandra Anichini e Laura Parigi, tab, Roma 2023), non stanno proprio così. La prima persona potrebbe essere un Adolf Eichmann, il criminale nazista banale il cui processo è stato seguito da Hannah Arendt; la seconda potrebbe essere, invece, Rosa Parks, che con il suo rifiuto di sedersi sull’autobus nel posto assegnato ai neri ha dato impulso al movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti. È quello che Biesta chiama paradosso di Parks-Eichmann e che va al cuore della sua riflessione pedagogica. Il paradosso mostra che occorre distinguere la soggettivazione dalla trasmissione di conoscenza e dalla socializzazione. Se l’educazione è la prassi efficace attraverso la quale una società trasmette i suoi modelli e valori, dovremo dire che l’educazione del nazista Eichmann è riuscita, mentre non è riuscita quella di Rosa Parks. Ed è evidente che è un errore anche concentrarsi sull’apprendimento, occupandosi della sua misurazione più o meno oggettiva attraverso test e rilevazioni. Quello che conta è cosa fanno le persone delle conoscenze acquisite. Un tecnico che si dedichi alla progettazione di un campo di sterminio può aver acquisito in modo efficace le conoscenze, ma farne un uso irresponsabile.
Questo è il problema della soggettivazione. Scopo dell’istruzione e dell’educazione non può essere l’acquisizione di conoscenze, ma la formazione di soggetti. E su questo Biesta ha ragione da vendere. Il suo merito è quello di porre il problema di quella che una volta si chiamava formazione del carattere o, più semplicemente, di considerare lo scarto tra istruzione ed educazione. Uno studente può aver raggiunto tutti gli obiettivi fissati dai piani di studio, opportunamente rilevati e oggettivati con un voto, e tuttavia essere un non-soggetto, un granello d’umanità trascinato dalla massa, con il rischio costante di finire bloccato in qualche grumo.
Ma cosa vuol dire essere davvero un soggetto? E cosa vuol dire formare dei soggetti?
Partiamo da questa seconda domanda. Se una scuola centrata sull’apprendimento conduce alla miseria a-logica della conoscenza ridotta a un voto, bisognerà centrarla su altro. E questo altro è, come spiega fin dal titolo del suo libro, il mondo. E l’insegnante sarà colui che apre al mondo.
Nella visione di Biesta c’è una negatività di partenza sulla quale l’educatore interviene, ed è quella del desiderio. Sulla scorta di Paul Roberts, ritiene che quella in cui viviamo si possa caratterizzare come una società dell’impulso. Il capitalismo consumistico ha bisogno di soggetti che non sono realmente tali: persone incapaci di riflessione, costantemente spinte all’acquisto perché non in grado di frapporre la riflessione tra sé e il desiderio. E l’unica via per resistere a questa che è una evidente degenerazione dell’umano è una educazione intesa come costituzione di una soggettività forte, adulta, in grado di resistere al desiderio. Se cerchiamo l’origine remota di questa concezione della soggettività ci imbattiamo – prima o poi è inevitabile, se si ragiona di educazione – in Socrate. Ma non nel Socrate platonico, che è nella linea orfico-pitagorica, bensì quello di Senofonte. Il Socrate che insegna soprattutto l’enkrateia, il dominio di sé, o per meglio dire la gestione razionale di sé stessi. Per questo Socrate il “conosci te stesso” ha un significato estremamente concreto: si tratta, spiega a Eutidemo, di ottenere il successo sfruttando le proprie capacità. Coloro che conoscono sé stessi “ottengono ciò che vogliono e prosperano; astenendosi dal tentare ciò che non conoscono, non commettono errori ed evitano il fallimento” (Memorabili, IV, 2, 26, trad. mia). Il soggetto che conosce e domina sé stesso è un soggetto che ha successo, utile a sé stesso e alla società.
Un tale soggetto che amministra saggiamente sé stesso è realmente una alternativa alla deriva del capitalismo? Vero è che per il Socrate di Senofonte occorre vivere con poco, essenzializzare i bisogni, e questo farebbe di lui un pessimo consumatore; è anche vero che la sua è una concezione utilitaristica della conoscenza e della gestione di sé, e non è arbitrario, credo, ritenere che sia la remota origine di una linea che giunge fino alla saggezza utilitaristica d’un Benjamin Franklin. Educare a questa soggettività – ammesso che un’impresa simile sia ancora possibile – significherebbe fare una sorta di downgrade a una versione precedente dell’homo oeconomicus, riandare alle sue origini: cosa che non salva, evidentemente, dalle sue possibili degenerazioni, e in ogni caso non rappresenta una alternativa forte.
Questo per quanto riguarda il soggetto. Vediamo poi cosa Biesta intende con mondo. È, pare di capire, nulla più che il mondo degli adulti. Bambini e adolescenti non fanno davvero parte del mondo. Sono alle porte del mondo, in attesa di entrarvi. E per entrarci occorre che imparino una cosa più di qualsiasi altra: la rinuncia al desiderio. Il mondo di Biesta è, freudianamente, la realtà in cui il principio di realtà soppianta il principio di piacere. Scrive:
“Se la vita vissuta in modo infantile è caratterizzata dall’indifferenza nei confronti della realtà – ed è semplicemente la ricerca della soddisfazione dei desideri, la realizzazione di ciò che ci gratifica – il tentativo di vivere in modo adulto è caratterizzato dall’atto di sottoporre le proprie intenzioni e i propri desideri al vaglio della realtà, per così dire, dall’essere in relazione con le cose e con le persone che sono altro da noi, senza ignorarle o negarle”.
Ed è singolare, davvero, considerare indifferente alla realtà un bambino, che nella realtà è immerso con tutti i sensi e che dalla realtà impara ogni giorno infinitamente più dell’adulto. Ma qui realtà indica, evidentemente, non il mondo come campo di esperienza – di una esperienza virtualmente infinita – ma il confine ben tangibile delle nostre azioni sensate. È la realtà cui è invitato ad attenersi chi ha la testa piena di troppe fantasie. A saltare non è solo l’impulso all’acquisto e alla gratificazione, ma anche lo slancio verso la più profonda trasformazione del reale. Esiste un “modo adulto di stare al mondo” (cioè: “non essere guidati dai propri desideri, ma interrogarsi su quanto sia lecito desiderare ciò che si desidera”), ed educare è educare a stare nel mondo in questo modo. E non è chiaro in che modo questa adultizzazione si distingua poi dalla socializzazione; né cosa si debba fare poi con la ferita, con lo strazio della solida realtà del mondo-confine. Certo chi si sia formato sulla filosofia e pedagogia progressista e libertaria o anche nonviolenta dagli anni Cinquanta in poi (un esempio tra tutti: Il fanciullo nella liberazione dell’uomo di Aldo Capitini, 1953), non può che restare un po’ sorpreso dal trattamento che Biesta riserva al desiderio. Che, lungi dall’evocare qualsiasi liberazione diventa null’altro che lo strumento di questo capitalismo dell’impulso. Questo soggetto desiderante non è, per Biesta, che un bambino rimasto tale. E l’educazione è liberarlo dal principio di piacere e condurlo per mano verso il mondo sensato degli adulti.
Pensare l’educazione in questo modo vuol dire riaffermare la centralità dell’insegnante. Come rappresentante del mondo adulto, egli ha la responsabilità di indicare allo studente quello che vale, idea che Biesta riprende da Klaus Prange. Il docente reindirizza lo sguardo dello studente, portandolo verso ciò che mai, da solo, guarderebbe. Gli mostra un mondo culturale. Glielo indica metaforicamente, ma Biesta non teme il ridicolo e si spinge fino a dire che, dal momento che si indica col dito e il dito fa parte della mano, il lavoro del docente è un lavoro manuale. In ogni caso il processo di educazione e insegnamento è guidato dall’insegnante. Qui il bersaglio non è più solo una concezione tecnocratica dell’apprendimento, che riduca la scuola a una serie di skills attentamente misurate, ma anche pratiche come l’autogestione pedagogica, nei confronti della quale Biesta opera il più classico straw man, scorgendo in una pratica che fa di un alunno un reale studente, cioè qualcuno che si muove da sé verso il sapere, la metodologia che spinge gli studenti “a osservarsi e regolare i propri comportamenti, facendo così di sé stessi l’oggetto di azioni di controllo di gestione”.
E dunque cosa resta, se abbiamo liquidato con una caricatura anche la classe come comunità di ricerca? Resta il docente che fa lezione alla classe ( “…la forma in cui si sta seduti in fila o in cerchio ad ascoltare qualcuno che parla resta una forma notevolmente popolare e utile, nell’educazione e non solo”). Che non sarà più però un semplice docente. Sarà un rappresentante del mondo adulto cui è stato affidato il compito nobilissimo di indicare alle nuove generazioni quello che vale davvero e di mostrare loro la via di un esistere in modo adulto, in un mondo in cui gli adulti danno, in effetti, prove così valide di un esistere sensato.
Vediamo cosa non va. Biesta afferma che nel suo scenario “gli studenti non sono semplicemente l’oggetto di ‘interventi’ educativi, più o meno efficaci, ma sono ‘soggetti’ a pieno titolo”. Si sbaglia. Nel suo scenario gli studenti non sono soggetti: sono oggetti di un presunto processo di soggettivazione. Presunto, perché nessuno è né mai sarà soggetto senza un reciproco riconoscimento. E la visione di Biesta è fondata sulla sistematica, teorica disconferma dello studente quale rappresentante del modo non adulto di stare al mondo, portatore di bisogni e di desideri cui dovrà rinunciare. Biesta segna un confine: di qua il mondo adulto, di là il mondo infantile o adolescenziale. Un mondo che a Biesta non ha nulla da dire. C’è un adulto che si assume la responsabilità di indicare e c’è un non adulto che si lascia indirizzare. C’è un soggetto educatore che ha di fronte degli oggetti del suo lavoro educativo. Ma l’educazione non funziona così.
Biesta non ama l’ermeneutica e lo dice apertamente. Peccato. Perché l’educazione è un processo di interpretazione reciproca, oppure non è. In una situazione educativa diverse persone, appartenenti a mondi umani e culturali, si incontrano, dialogano, mettono in relazione i loro orizzonti. E così crescono insieme.
Quest’anno ho una studentessa cingalese. Ha una conoscenza ancora imperfetta della lingua italiana e questo fa di lei una studentessa in difficoltà. Gli studenti stranieri rientrano facilmente nella categoria degli studenti con bisogni educativi speciali, portatori di fragilità di cui la scuola deve farsi carico: e lo fa per lo più con corsi di italiano. Parlando un po’ con lei è emersa la sua singolare passione per l’Abhidhamma. Si tratta della parte più complessa e difficile della filosofia buddhista: una analisi di tutti i fenomeni (dhamma) che costituiscono la realtà, siano essi fisici o mentali; al tempo stesso ontologia, psicologia e fenomenologia. Con buona probabilità un docente italiano di filosofia o di scienze umane non ne ha mai sentito parlare. Perché nelle nostre università, al di fuori di corsi specialistici, non solo non si insegna la filosofia orientale, ma per lo più si nega perfino che una filosofia esista fuori dall’Europa.
Ed ecco dunque: un docente di filosofia che entri in classe convinto di dover indicare agli studenti questo e quest’altro, e ugualmente persuaso che loro, invece, non abbiano nulla da indicare, presi nella maglia dell’impulso, vittime di un infantilismo da cui tocca redimerli, non avrà mai la possibilità di venire a conoscenza dell’Abhidhamma. Non avrà mai dato alla studentessa cingalese la possibilità di indicarglielo. Perché non le avrà mai dato davvero la parola.
Il punto è che non esiste il mondo che Biesta vorrebbe mettere al centro dell’educazione. Esistono i mondi. Esiste il mondo del bambino, che è diverso da quello dell’adulto, ma che non è possibile ridurre alla negatività dell’impulso e che forse ha molto da dare agli adulti, come suggeriva Aldo Capitini nel libro citato poco sopra. Anzi: esistono i mondi dei bambini, perché un bambino borghese è diverso da un bambino proletario (sì, esiste ancora il proletariato), così come un bambino cattolico è diverso da un bambino musulmano. Biesta riduce la complessità del reale a tre mondi: il mondo del tardo capitalismo, che riduce all’impulso; il mondo dei bambini e degli adolescenti, che del mondo capitalistico sembra essere un portato; e il mondo vero, adulto che il docente mostra a scuola, agendo come una realtà che oppone resistenza al mondo esterno. Si tratta di una semplificazione, e non c’è nulla di più pericoloso per la scuola delle semplificazioni. Esistono i mondi culturali, simbolici e sociali di cui sono portatori tutti gli studenti, ed ogni mondo è diverso dall’altro. Il lavoro del docente non è indicare a tutti loro la giusta direzione, orientare lo sguardo verso ciò che l’istituzione ha già deciso essere vero, e bello, e buono, ma indirizzare lo sguardo di ognuno verso l’altro, facilitare il reciproco guardarsi, interrogarsi, interpretarsi degli studenti, e lasciarsi coinvolgere in questo gioco (ah, il desiderio!) di sguardi e di interpretazioni, attraverso il quale il mondo si complica giorno dopo giorno, ma proprio in questo modo si fa limpido e leggibile.