I feticci della legalità e della memoria

a cura di Luigi Monti
È indubbio che la lucidità con cui Luca Rastello, morto prematuramente nel 2015, ha saputo raccontare alcune delle questioni più complesse di questi anni – la guerra jugoslava e le ambiguità degli interventi umanitari; le migrazioni forzate e la condizione dei profughi; il mercato della droga; i conflitti intorno all’alta velocità ferroviaria – nasca dal suo anomalo “posizionamento”. In proporzione a quanto la malattia via via gli concedeva, non si è limitato a osservare da vicino le vicende di cui scriveva. Ha tentato anche di intervenire per modificarle. Un brano dell’articolo che ha aperto un vecchio numero de “Gli asini”: si tratta del montaggio di un intervento raccolto durante la presentazione de I buoni, che si è tenuta nel giugno 2014 al Circolo degli artisti di Roma. Si ringrazia Giulia Civiletti per la trascrizione. (Gli asini)
Sugli alti luoghi della mia città sono stati eletti alcuni idoli con culti molto feticistici. Questi idoli si chiamano: memoria e legalità. Comincio dalla memoria.
La memoria è oggi un ricatto permanente. Chi si ponesse con sguardo critico nei suoi confronti, automaticamente sarebbe in odore di sospetto. La narrazione dominante recita più o meno così: la memoria è sacra, perché se non lo si ricorda, il passato, è destinato a ripetersi. E siccome il passato è sempre orrore, sangue e abisso, noi che siamo gente civile teniamo lontano il mostro del passato col culto della memoria.
Primo Levi, riferendosi ai meccanismi della memoria, nella prefazione dei Sommersi allerta i lettori sul fatto che il libro che si trovano tra le mani è impastato di una sostanza ambigua e complessa, da prendere sul serio, ma al tempo stesso da guardare con sospetto. Perché come ha scritto recentemente Daniele Giglioli nella sua Critica della vittima, la memoria istituisce con il passato un rapporto proprietario. La memoria si appropria del passato. Non è mai neutra; è sempre la mia memoria, la nostra memoria, la memoria delle vittime, la memoria di qualcuno nel cui nome si parla. E serve per lo più a legittimare l’azione nel presente di qualcuno che diventa portavoce, detentore, mediatore dei possessori di memoria. Osservazioni banali, se non fosse per questo culto di massa che ci ha accecati. Tutti i nazionalismi sterminatori dell’ultimo secolo hanno avuto la memoria come propria bandiera.
Vogliamo parlare del passato barbarico e glorioso della Germania? O di quello sconfitto e nobile dei serbi? Del passato universale del califfato musulmano? O di quello imperiale e panslavista russo? Nel nome di queste “memorie”, nell’ultimo secolo si è sparso sangue a fiumi.
Anni fa mi capitò di andare nel Nagorno Karabakh, una regione del Caucaso meridionale, e di trovare una città che era stata fatta letteralmente sparire. Si chiamava Agdam, era una città di 150mila abitanti che nel corso del ‘900 gli armeni avevano letteralmente cancellato. Non c’erano più nemmeno le fondamenta. Avevano bruciato e sotterrato anche le stoppie in modo che non ne rimanesse traccia. Un’intera città azera eliminata dagli armeni. Gli armeni, popolo della memoria, quelli che giustamente sbattono in faccia all’Europa lo specchio impietoso del passato: tu non puoi costituirti come terra dei diritti e della civiltà finché neghi la tua genealogia. E la tua genealogia comprende anche lo sterminio immane degli armeni a opera dei turchi. E allora discutiamone, organizziamo convegni, facciamo memoria, ma intanto lasciamo sparire la memoria degli azeri di Nagorno Karabakh. Cerchi concentrici della memoria.
La memoria è preziosissima, fondamentale, a condizione che sia sussunta nella fatica della storia, la fatica cioè di mettere molte interpretazioni, molte “memorie”, su un tavolo – come ha fatto, ad esempio, Nelson Mandela – e di negoziare tra interpretazioni diverse, accettando anche di arrivare a un accordo artificiale, perché l’obiettivo, per certi versi impossibile, è di capire il passato. Il culto feticistico della memoria rivela i suoi piedi di argilla non appena se ne rovesci l’assunto di base. Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. È vero purtroppo che il passato si ripete se non lo si capisce.
Il culto della memoria è stato messo lì, sulle alture delle mia città, insieme a un altro feticcio che si chiama Legalità. La legalità viene presentata come un valore assoluto, da insegnare nelle scuole, da trasmettere ereditariamente. Ogni bambino deve crescere con l’idea di Legalità.
Dopodiché la storia, quel convitato di pietra che descrivevo prima, arriva sempre un po’ petulante a ricordarci che ogni evoluzione umana è avvenuta attraverso una rottura della legalità vigente, e che la legalità in realtà non è un valore ma un metodo. La società è un accordo raggiunto tra soggetti che portano interessi diversi, addirittura in conflitto. I rapporti di forza intercorrenti tra di essi determinano un accordo artificiale che è una specie di patto: la società, appunto. Questo accordo artificiale viene fatto rispettare grazie a un metodo che si chiama legalità. Metodo che quindi risente degli stessi condizionamenti, delle stesse ideologie, degli stessi rapporti di forza che intercorrono in una società, in un preciso momento storico.
Può elevare a valore assoluto il metodo della legalità solo chi presuma di essere nella società ideale, nell’anarchia realizzata, nel socialismo utopistico, nella democrazia perfetta. Solo se penso di essere al culmine della storia umana, se credo in un progresso costante e perfetto rispetto al quale mi trovo nell’ultimo stadio posso attribuire alla legalità un valore assoluto. Se le cose non stanno così e la legalità rimane un valore al di là dei condizionamenti di potere, allora ha ragione Adolf Eichmann quando difendendosi a Gerusalemme afferma di essere il rappresentante di una legalità voluta e costruita dal popolo tedesco attraverso un processo di consenso democratico e di non poter essere giudicato ex post da i vincitori della guerra. Se la legalità è un valore assoluto, indipendente dal contesto in cui viene invocata, Eichmann ha ragione e Sandro Pertini e Giovanni Pesce sono terroristi. Non c’è via di mezzo.
E che la legalità sia un metodo condizionato dai rapporti di forza e dalle ideologie lo dimostra quello che succede oggi. Giancarlo Caselli, ex capo della Procura di Torino, ha istituito due processi che stanno infiammando la mia città. Uno riguarda l’incendio di un compressore in un cantiere della Tav, a Chiomonte. Quattro ragazzi che sono stati incastrati con un’intercettazione vengono incriminati per aver tentato di bruciare un compressore, con l’aggravante di finalità terroristica che prevede una pena minima di 20 anni e una massima di 30. L’aggravante di finalità terroristica è una novità assoluta nel panorama giudiziario italiano, perché il terrorismo fino a ora era considerato un reato di tipo associativo. Ora questi quattro ragazzi, che non si conoscevano nè avevano niente in comune, diventano improvvisamente terroristi perché dopo il 2001 è stato aggiunto un comma alle leggi sul terrorismo secondo il quale ha finalità terroristica ogni azione volta a impedire allo stato di compiere un’attività che lo vincola sul piano internazionale.
Quindi fate attenzione: se qualcuno ha manifestato contro gli F35 potrebbe avere problemi simili in futuro. Il procuratore Caselli ha sempre dichiarato di perseguire i No Tav sulla base della singola responsabilità, del singolo reato e non in nome di una valutazione sull’opportunità o meno della “grande opera”. Ma se ci pensate bene l’aggravante di terrorismo è esattamente la conseguenza di una valutazione sul valore strategico dell’opera.
Proviamo a incrociare un altro rogo e un altro processo. Torino, inverno del 2011: una ragazzina dice di essere stata violentata dagli zingari del campo della Continassa. Dopo pochissimo ritratta: aveva semplicemente fatto sega a scuola e si era inventata la scusa della violenza per mettersi al riparo dalle conseguenza della sua marachella. Il giorno dopo la vicenda è già risolta, ma nel frattempo da una manifestazione spontanea a Torino si stacca uno spezzone che va a bruciare le baracche dei rom della Continassa.
La procura che propaganda e vende alle scuole i corsi sulla legalità ha incriminato questa gente per incendio doloso: pena massima 6 anni. Una delle società che realizza l’Alta velocità è ammessa come parte civile nel processo contro i quattro che hanno bruciato il compressore: avrebbero potuto esserci degli operai di conseguenza il reato non è solo contro oggetti, ma anche contro la persona. Le famiglie rom del campo della Continassa, al contrario, non sono ammesse come parte civile perché sono state bruciate solo delle roulotte e quindi si tratta di un danno contro beni materiali.
Questa è la legalità per come viene intesa alla luce dei rapporti di forza delle ideologie che controllano oggi il nostro immaginario, oltre che il nostro territorio. In nome di questi due feticci si arruolano giovani coscienze a migliaia e si creano masse di manovra che danno visibilità, potere, contiguità col potere.