I beni comuni, tra il sociale e il politico
di Carlo Donolo, incontro con Giuliano Battiston e Nicola Villa
Per il numero di febbraio de “Lo Straniero” hai scritto un articolo, Qualche chiarimento in tema di beni comuni,in cui critichi le tesi esposte da Ugo Mattei nel suo libro I beni comuni. Un manifesto (Laterza). Prima di affrontare le ragioni che vi dividono, forse è utile partire dagli elementi condivisi. Nell’intervento che hai tenuto alla tavola rotonda sui beni comuni al Salone dell’editoria sociale dello scorso ottobre, hai parlato della necessità di definire meglio la categoria di beni comuni, e lo stesso Mattei, nel suo libro, riconosce l’esigenza di fornirne un’elaborazione teorica più articolata. Allo stesso tempo, Mattei insiste molto sul fatto che bisogna interrogarsi sulle ragioni per cui così tanti gruppi e movimenti si appellano ai beni comuni, per le loro rivendicazioni, mentre nell’articolo per “Lo Straniero” tu scrivi che il tema dei beni comuni mette radici in un “effettivo e crescente fabbisogno di coesione sociale”, e aggiungi che è diventato una forma di resistenza agli effetti più distruttivi dei processi globali. Insomma, entrambi riconoscete la centralità della questione e la necessità di precisarne i confini, anche se poi le strade divergono…
Gli elementi “condivisi” dagli studiosi, dunque anche da me e Mattei, rimandano al fatto che la globalizzazione è il più massiccio attacco che sia mai stato sferrato all’universo dei beni comuni, anche sotto il profilo per così dire fisico, cioè di distruzione, corrosione, erosione e consumo rapido di beni non riproducibili o comunque difficilmente riproducibili (o per i quali non abbiamo ancora le tecnologie e i saperi per riprodurli o anche semplicemente per ripararli). Allo stesso tempo, proprio la globalizzazione produce un fenomeno curioso, che potremmo ricondurre a un teorema elementare: più una società è complessa e più il suo patrimonio di beni comuni diventa un fattore critico, espandendosi. Seguendo le indicazioni di Elinor Ostrom, emerge una considerazione abbastanza ovvia: il catalogo dei beni comuni si allunga sempre più, non è un elenco chiuso. Si scopre continuamente che quella cosa lì potrebbe forse avere lo statuto di bene comune, per esempio la conoscenza, in tutte le sue forme, oppure la fiducia, come parte del capitale sociale, o diverse forme di sapere tacito. Elementi a cui finora non eravamo tentati di assegnare questo statuto, e che ora, con la globalizzazione, riconosciamo come comuni, e della cui presenza o assenza cominciamo a preoccuparci. Questo vuol dire che l’impatto della globalizzazione è insieme negativo e paradossalmente ricostruttivo, perché acuisce sia la domanda che la consapevolezza del fatto che, senza questi beni, non andremmo molto lontano. Da qui nasce il bisogno di tematizzarli con più precisione. Rispetto alle prime opere della Ostrom e di coloro che ne hanno seguito le piste di ricerca, il campo si è ampliato enormemente. Lei infatti studiava i suoi casi non nell’ottica della globalizzazione, ma per sostenere che tra il pubblico e il privato esiste una terza modalità di gestione: voleva dimostrare ai suoi colleghi economisti che c’è un’alternativa, e che questa alternativa era vitale e funzionale in tutta una serie di casi. Per farsene un’idea, basterebbe accedere all’archivio sui beni comuni della Indiana University, dove Elinor Ostrom insegna. Si tratta di alcune decine di migliaia di studi empirici su casi, riusciti e non riusciti, di governance di beni comuni locali (sottolineo locali perché è un punto fondamentale del discorso), relativamente isolati dal contesto, nei quali una comunità ha un rapporto simbiotico con l’ecosistema da cui trae le sue risorse principali, che siano l’acqua, il legname, un banco di pesca. Quegli studi dimostrano che nel lungo periodo una comunità riesce a stare in equilibrio con questo ecosistema grazie a una gestione comunale (da commons, diciamo), che non è né pubblica né privata. In questo modo, si dimostra che è possibile evitare i due corni del dilemma: si può da una parte evitare la privatizzazione, che comporterebbe l’usura rapida del bene e comunque un impoverimento della collettività, mantenendo invece un equilibrio sia pure incerto nel tempo ma abbastanza vitale da poter sopravvivere, e dall’altra evitare la statalizzazione. Elinor Ostrom infatti ha spesso documentato che, con la formazione degli Stati nazionali, quando nei paesi del “Terzo Mondo” sono stati nazionalizzati questi ecosistemi, gestiti in modo più o meno equilibrato dalle comunità locali, le burocrazie centrali hanno soffocato le forme di governo locale, distruggendo direttamente l’ecosistema per favorire il turismo o altre forme più o meno perverse di sviluppo, o semplicemente marginalizzando la saggezza locale che sapeva meglio come gestirli da vicino. Si tratta di sistemi che sono in generale molto resilienti, ma allo stesso tempo molto delicati: hanno dei punti di equilibrio oltre i quali c’è un degrado irreversibile o difficilmente reversibile. A questo proposito, i dati della Fao sono impressionanti, per quanto riguarda i banchi di pesca nel mondo. Gli argomenti della Ostrom dunque sono validi per sistemi di beni locali e relativamente isolati da un contesto globalizzato, sistemi il cui equilibrio, una volta arrivata la globalizzazione, si rompe molto facilmente (anche se non bisogna dimenticare l’impatto avuto in passato dall’imperialismo e dal colonialismo, come dimostrato tra gli altri da Amartya Sen).
Per riassumere, direi che la globalizzazione presenta questa duplice faccia, negativa-positiva, e che sul piano teorico rimane essenziale cercare di definire meglio di cosa parliamo quando parliamo di beni comuni, come ha fatto Elinor Ostrom, che da economista ha cercato di capire di cosa si tratta concretamente. La categoria complementare ai beni comuni è quella dei beni pubblici, di cui i manuali forniscono alcune indicazioni: la non escludibilità, la fruizione congiunta, la non rivalità nel consumo (come dicono gli economisti). Rispetto a ciò, il bene comune come si differenzia? Seguendo le piste dell’economia pubblica, la diversità sta nel fatto che il bene comune locale è escludibile, in altri termini è di pertinenza di una specifica comunità locale, che è in grado di escluderne comunità vicine – per ragioni di statuto, per tradizione, o per rapporti di forza. La fruizione congiunta è possibile, ma in presenza di regolazioni delicate, come nei casi dei sistemi acquiferi. L’analitica di cui oggi ci serviamo per parlare di beni comuni deriva dunque, per differenza, dall’economia pubblica: se i beni pubblici sono quelle cose lì, i beni comuni sono queste cose qui. Questi ultimi sono simili a ciò che gli economisti chiamano club goods, cioè beni che sono tali per un gruppo limitato di persone iscritte al club, in questo caso i membri della comunità contro i non-membri della comunità. Quanto al loro uso, un uso sostenibile è possibile se ci sono regole appropriate, istituzioni o tradizioni. Altrimenti, si verifica la “tragedia dei beni comuni”. Al di là delle sovrapposizioni tra beni pubblici e beni comuni, sulle cui differenze c’è tutto un lavorio teorico e che sono propriamente distinguibili solo caso per caso, c’è da sottolineare che l’obiettivo della Ostrom era dimostrare, grazie alle comunità ben funzionanti nel governo di beni comuni locali, che è possibile evitare la tragedia dei beni comuni descritta da Garrett Hardin.
In effetti uno degli obiettivi espliciti della Ostrom, penso per esempio all’ormai classico Governare i beni collettivi, è dimostrare come i cambiamenti istituzionali nella gestione dei beni comuni non siano necessariamente l’effetto di una spinta esterna, che sia quella di una privato o dello Stato, ma possano essere frutto di una spinta endogena, che parta dalle comunità locali. Che ci sia, come dicevi prima, una terza via. Mattei recupera ampiamente questo elemento, tanto da scrivere: “Il principale obiettivo critico di questo saggio è la falsa contrapposizione tra Stato e mercato che domina lo scenario politico dell’Occidente”. Nel suo libro, a più riprese contesta quella che definisce come la “tenaglia tra proprietà privata e sovranità statuale”, suggerendo uno slogan: “Meno Stato, meno società privata, più comune”. Da quanto hai scritto su “Lo Straniero”, sembrerebbe che per te “il riduzionismo pericoloso e ingannevole” di Mattei stia proprio qui, nella mancata elaborazione della terza parte dello slogan: più comune. È così?
Qui c’è un problema di fondo: come dobbiamo parlare “al popolo” dei beni comuni. In altri termini, supponendo che ci siano degli intellettuali che sappiano qualcosa dei beni comuni, come devono comunicare questo loro sapere a quelli che poi sono i veri utenti, i cittadini? Qual è lo stile, il modo giusto? Come abbiamo visto, è vero che il discorso sui beni comuni è molto complicato, di non facile esposizione, io stesso mi sono accorto con le mie lezioni universitarie che non è facile farlo comprendere agli studenti. D’altronde già la distinzione tra bene comune e bene pubblico genera delle confusioni. Dobbiamo aderire al linguaggio dell’economia pubblica, oppure dobbiamo prenderne le distanze, adottando un vocabolario parzialmente diverso? Sono tutti problemi aperti. Al di là del fatto che, quando ci si rivolge a un pubblico di non specialisti, si usano termini più accessibili, la mia critica a Mattei verte principalmente su questo punto: il suo stile di comunicazione con il pubblico per me è demagogico e populista. Dunque inaccettabile in base all’etica che deriva dal mio ruolo di intellettuale. Su questo punto, c’è una differenza incommensurabile. Lui è molto più giovane di me, ma io, avendo fatto – come si dice – il ’68, sono consapevole di quanto sia rischioso un linguaggio simile, di cosa voglia dire mischiare in modo così disinvolto questioni molto complicate. E’ un linguaggio pericoloso perché induce illusioni, sensazioni strane, generando l’idea che tutto sia a portata di mano, mentre tutto è lontanissimo dalle nostre mani. Qui c’è un ordine di verità: non si deve mascherare a nessuno il fatto che si tratta di una questione molto complicata già da comprendere, e che ancora più complicato è capire come possiamo governare i beni comuni. Ci sono in ballo questioni essenziali, che riguardano la sostenibilità, gli stili di vita, i modelli di consumo. Inoltre, non ci si rivolge a un popolo indifferenziato, vergine e puro, come sembrerebbe dai suoi scritti, ma a un popolo di consumatori esasperati, già “viziati”. Abbiamo sempre criticato il consumismo, e ora ce ne dimentichiamo. La gente sente che ci sono alcuni problemi che stanno emergendo, come l’impatto della globalizzazione, ma ancora non li ha vissuti duramente. Siamo in un processo di esaurimento di un modello, ma si tratta di un processo lungo, nel quale anche la crisi attuale non incide più di tanto, basta pensare che ha provocato una riduzione minima dei consumi, la rinuncia a qualche “sfizio”. Non parliamo a un popolo di miserabili, ma a un popolo di consumisti, che si rende molto lentamente conto che c’è qualcosa che comincia a non funzionare. Naturalmente chi non ha il lavoro, chi non lo trova o lo perde se ne rende più facilmente conto, ma in questo caso si tratta di una lotta per la sopravvivenza.
La consapevolezza del processo che stiamo vivendo non è così diffusa; a essere diffusa, piuttosto, è la sensazione, vaga, di rischio e di incertezza sul futuro. Proprio per questo occorre essere precisi nelle cose che si dicono. Per esempio, è molto diffuso lo slogan, fatto proprio anche dagli indignati, che questo debito non è nostro, che non va pagato, che è preferibile un default. E’ un discorso assolutamente assurdo, anche perché non è vero nelle premesse: questo debito è nostro, non l’avrò provocato io individualmente, ma noi collettivamente l’abbiamo prodotto eccome. Lo abbiamo prodotto e ci abbiamo sguazzato dentro, chi più, chi meno. E’ un fenomeno talmente vistoso e diffuso che verrebbe da dire “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Il debito è sì una questione di sistema Italia, più che della società italiana, però la società italiana ha accettato per decenni che tutto ciò avvenisse. Basta analizzare i comportamenti elettorali: tutte le volte che qualche governante, compreso Prodi, ha provato a limare qualcosa, apriti cielo. Sia a sinistra che a destra. Esiste una nostra precisa corresponsabilità. Non possiamo far finta che il debito sia stato generato dalle multinazionali. Non è vero. Il debito non è di qualcun altro: è nostro. Inoltre, se l’Italia dichiarasse il default, si trascinerebbe dietro pezzi di Europa, forse tutta l’Europa, uno scenario inimmaginabile. Non si può dire “facciamo un esperimento. Proviamo a vedere cosa succede”. E’ un esperimento che puoi fare una volta sola. Dopo, non c’è più niente da fare. Sei morto.
Restiamo sul terzo aspetto dello slogan di Mattei, “più comune”, e soprattutto sul come governare il “comune”. Conosciamo bene l’attenzione che tu poni ai diversi passaggi tra il sociale e il politico (a cui dedichi un capitolo de L’Italia sperduta), e anche al ruolo dei movimenti: “Anche i movimenti con atteggiamenti anti-istituzionali possono aiutare, se hanno chiaro in mente che non si tratta di lottare contro l’istituzione ma di aiutare a cambiarla, altrimenti è tutto inutile”, scrivi per esempio ne L’Italia sperduta. A partire da queste basi, c’è un aspetto che critichi fortemente nell’impostazione di Mattei, e che riconduci a una mentalità manichea: il fatto di contrapporre in modo schematico e radicale società e Stato, movimenti e politica, in altri termini l’idea che sia possibile affidare direttamente nelle mani di un popolo vagamente definito, di movimenti vagamente determinati, la gestione dei beni comuni, senza precisarne metodi e modalità. Perché consideri antipolitica la contrapposizione di Mattei?
Probabilmente qui c’è anche un elemento realistico: la presa d’atto che la politica – la politica nel senso del sistema dei partiti, in parte anche il sindacato – vive una crisi abissale, perché non ha più al suo interno le risorse per risanarsi. Prendiamo il Pd, che per dimensioni è l’unico partito a cui agganciare un discorso razionale. Di fronte alla crisi, alle sue dimensioni incommensurabili con il passato, di fronte a ciò che si vede nella società, di fronte ai movimenti e ai potenziali conflitti, oltre che alle derive che ne conseguono, da parte del Pd c’è una totale atonia. Continua a galleggiare giorno per giorno in quelle sterili polemiche di cui leggiamo sui giornali o che guardiamo in tv, dove la semplificazione è estrema, per cui o cadi nell’insulto o fai come Bersani, che punta a una ragionevolezza del tutto astratta e inutile perché, non riconoscendo il problema, non può offrire soluzioni. Si potrebbe dire che siamo di fronte a una tragedia dei beni comuni politici, senza contare che il 2013 è vicinissimo; l’ipotesi più diffusa è che, di fronte alla rottura dei contenitori tradizionali come i partiti, ci sarà un’enorme frammentazione del voto, anche di protesta, molta antipolitica, diverse liste civiche, facilmente manipolatorie, etc. Di fronte a questo scenario, capisco che uno vada a cercare altre risorse fuori dalla politica….
Ma allora l’appello generico ai beni comuni e alle “virtù” dei movimenti può essere anche una reazione a ciò che ne L’Italia sperduta definisci come “l’intromissione politica nell’autonomia del sociale”…
In effetti nei movimenti, nei conflitti, succede proprio questo: ci si scuote di dosso, almeno per qualche giorno o per qualche settimana, tutti questi paternalismi dei mediatori politici o degli amministratori locali, tutti i vincoli di coloro che ti hanno legato le mani. Il ritiro della delega, per dirla con Pizzorno. Un ritiro della delega che poi prende forme diverse. Se il problema che si ha di fronte è trattabile, gestibile, può condurre a un margine di trattativa, come nel trasferimento di un inceneritore a qualche chilometro di distanza. Se il problema è di più ampia portata, in genere c’è un forte momento reattivo, a cui segue la sospensione e il rinvio della decisione. In questo caso, il problema non viene risolto, soltanto nascosto sotto il tappeto, come nel caso della spazzatura in Campania. La soluzione viene soltanto rimandata, per tacitare la popolazione. Nelle città, ci sono tantissimi movimenti e forme di attivismo, che nella maggior parte dei casi nascono come forme antipolitiche, e che poi nella loro evoluzione spontanea, soprattutto se sono piccole o di livello medio, cercano la mediazione politica, con i rappresentanti dei municipi o con gli assessori. Soprattutto quando si è interessati ad avere una risposta. Quando in ballo c’è invece una grossa questione, come nel caso dei No Tav, allora il conflitto diventa radicale. Mi sembra che Mattei assuma questo modello come l’unica fenomenologia possibile: un forte scontro tra un grande movimento e tutte le istituzioni e le forme della politica, con l’auspicio che vinca il movimento, anche se non si capisce bene cosa significhi la vittoria e come si debba svolgere questa battaglia. Che tra l’altro è una battaglia compiuta da soggetti molto eterogenei. Non è certo uno scontro di classe, non si tratta delle battaglie del ’69-’70. Piuttosto, è uno scontro in cui si mescolano molti motivi, motivi antipolitici, ecologisti, l’affermazione del diritto della persona a poter contribuire ai processi decisionali. E’ come se Mattei non vedesse la complessità di questi movimenti rispetto a quelli precedenti, che erano molto più omogenei, direi quasi banali, perché o erano di classe o erano comunque molto motivati, ideologicamente unificati. Pensate alla forza di slogan tipo “Studenti e operai uniti nella lotta” oppure “Nord e Sud uniti nella lotta”. Oggi c’è semplicemente il fatto di affermare il nostro potere contro i poteri forti. Una questione molto interessante per la democrazia, il cui esito però dipende molto dalle forme che questa affermazione assume, dalle pratiche che si usano, etc. Senza contare che ci sono fenomeni, come quello di Beppe Grillo, che sono ancora molto più ambivalenti di questo, forse anche potenzialmente pericolosi.
Mi viene da chiedere: ma davvero come unica alternativa alla politica marcescente abbiamo un populismo di sinistra, perché di questo si tratta? Il populismo per la democrazia è esiziale, dovremmo saperlo già dai libri di scuola. Si è già visto nel Novecento che quando c’è un movimento forte con un leader molto capace sbaraglia tutti. Ma poi, che si fa? In fondo il caso Berlusconi, in una forma ovviamente molto più pacifica (perché in quel caso c’era il denaro invece che il movimento), ha praticato qualcosa di simile: sbaragliare le istituzioni e la politica tradizionale affermando una leadership che si voleva completamente nuovista. Questo populismo di destra è stato combattuto con una certa efficacia, anche se a volte serviva da capro espiatorio per molte responsabilità proprie: ci faceva pure comodo che ci fosse Berlusconi con le sue grossolanità! Negli esiti, un populismo di sinistra invece è perfino più rischioso. I toni fascistoidi non li ritengo probabili, ma un sinistrismo massimalista che sbatte la testa contro i muri è possibile, e non può che finire male. E’ già successo, bisogna starci molto attenti. E bisogna essere consapevoli che, oggi, non è ipotizzabile un movimento così forte da sfondare veramente le mura e le porte. Questo lo escluderei proprio, anche se i No Tav cercano di crescere, di tessere alleanze.
A proposito di movimenti: siamo usciti da un anno, il 2011, di fortissimi movimenti a livello globale. Con una semplificazione che per qualcuno è simile a quella del ’68, questi movimenti si sono espressi con slogan anche molto efficaci. Penso a Occupy Wall Strett, il cui slogan “siamo il 99% contro l’1%” è diventato ampiamente diffuso. Si è discusso molto della capacità di questi movimenti di condizionare il quadro politico e sociale, direttamente o indirettamente. Per qualcuno, sono in grado di farlo. Per altri invece, sono troppo effimeri per riuscirci. Mattei chiude il suo libro scrivendo che i beni comuni dovrebbero essere restituiti “definitivamente alle moltitudini che ne hanno necessità”. Ma le moltitudini, i movimenti, come potrebbero governare i beni comuni?
I movimenti per definizione non possono governare nulla. Se un movimento governa allora è un’altra cosa, ci stiamo sbagliando nel vocabolario. I movimenti trasformano qualcosa di esistente, sono come un fiume che trascina via molte cose vecchie, le anticaglie, magari aprendo dei nuovi percorsi, ma non si è mai visto da nessuna parte che un movimento abbia governato alcunché. Quanto ai beni comuni, la cosa importante è che sono in rapporto con il tempo, con la sostenibilità. In francese si parla di durabilité proprio per indicare la relazione tra un bene e il tempo. Un bene comune deve sostenersi nel tempo. Per i beni comuni i tempi sono lunghi, non c’è bene comune che possa valere per soli tre anni. Devono durare per più generazioni. Questo vuol dire che il loro governo deve essere relativamente stabile, affidabile nel tempo. A governarlo, non può essere certo un movimento. La vera sfida che dovrà affrontare Mattei quando entrerà più nel dettaglio nella questione dell’acqua sarà trovare delle forme innovative di cogestione di questo bene, che vadano al di là delle S.p.a., delle municipalità, delle forme cooperativistiche. Forse potrà essere qualche forma mutualistica, come quelle descritte da Pino Ferraris. È una sfida per l’immaginazione giuridica, una sfida che ha a che fare anche con il declino della democrazia rappresentativa, che è agli sgoccioli se si mantiene così com’è. La democrazia rappresentativa va certamente aiutata con altre forme: democrazia diretta di tipo referendario, democrazia deliberativa, consultazioni, sondaggi, si potrebbero immaginare mille forme diverse, magari anche dei referendum che non siano soltanto abrogativi ma propositivi. In altri termini, si tratta di affrontare il grande problema dell’economico che è ormai fuori dall’ambito democratico. Sotto questo punto di vista, Marchionne è soltanto la ciliegina sulla torta. In Germania ci sono alcune forme di cogestione, che però assumono modalità aziendalistiche. Altrove c’è il movimento cooperativo, che però, paradossalmente, ha avuto un’evoluzione capitalistica. Anche le cooperative rosse sono diventate delle grandi società consortili, legate alle banche. Il vero tema non è quello dei movimenti, che servono nella misura in cui mantengono una portata innovativa e che, quando non ce l’hanno o la perdono, diventano a loro volta autoreferenziali. Il vero problema è trovare delle forme di gestione che siano adeguate ai beni comuni. E questo non sarà facile. Viviamo in un sistema molto complesso, multi-scalare, multi-livello. Forse la sussidiarietà potrebbe dare una mano in questo senso. E poi bisogna rispondere ai programmi europei di stampo liberista, che puntano alla privatizzazione della gestione dei beni pubblici. Qui nasce un altro problema: che succede quando il locale si apre al globale? Quali tipi di gestione proporre? Come dimostrano molti casi, come quello delle aree marine protette, in cui ci sono interessi e sovranità diverse (gli operatori turistici, gli abitanti, i turisti, gli amministratori), non è vero che la popolazione locale sia sempre interessata alla corretta gestione di un bene comune locale. Spesso ci deve essere una forma di co-governance, tutt’altro che facile da istituire. All’interno di un sistema monetario mercantile globale le cose si fanno complesse. Sui beni cruciali il conflitto tra il locale e il globale diventa più acuto. Questi beni hanno bisogno di forme di gestione molto più complesse di prima. In molti casi la comunità locale un po’ ci rimette, perché dovrà cedere delle quote di sovranità.
I “benecomunisti” propongono una terza via rispetto alla proprietà privata e alla sovranità statuale. Se entrambe queste forme di gestione escludono perché centralizzano – questa la tesi –, il modello “benecomunista” include i cittadini e le comunità locali perché decentralizza. Eppure la stessa Elinor Ostrom è chiara nei suoi saggi: è vero che la centralizzazione va evitata, ma la soluzione non sta nella decentralizzazione radicale, quanto in un sistema policentrico di governance. Insomma, la faccenda del governo dei beni comuni non è affatto semplice e richiede – come scrivi nel tuo articolo per “Lo Straniero” – “l’interazione più forte ed efficace tra saperi tecnico-scientifici e saperi comuni”…
Il futuro sarà della mixité, per usare un termine caro agli urbanisti. Mixitè sociale e culturale e anche tra le diverse forme di sapere. Anche le forme della democrazia saranno mescolate e quindi anche le forme di gestione dei beni comuni dovranno essere miste. Ci potrebbe essere un ruolo anche per la proprietà privata, perché no? Del resto già avviene nei parchi. Il problema è, innanzitutto, quello di commisurare ed equilibrare i diversi elementi. La democrazia, nella sua mixitè, è un sistema di pesi e contrappesi, che precisa quanto va incluso di questo e quanto di quello. Il comune dovrà fornire per così dire il criterio dirimente, diventare l’elemento che evita che si precipiti su un lato o sull’altro, che sia tutto pubblico o tutto privato. Per governare i beni comuni, ci si dovrà fornire di forme miste, che sono le più difficili da progettare e poi da gestire, perché tendono sempre a deviare. Non c’è modo di pensare altrimenti la questione. E’ un lavoro enorme, per i giuristi, per i politologi, per gli economisti, perché si tratta di individuare quelle componenti di un sistema di governance che sono necessarie affinché sia possibile la sostenibilità nel tempo dell’uso del bene. Quanto ai saperi, il loro ruolo è chiaramente decisivo: non possiamo gestire nessun bene comune, nessuno, senza sapere di che cosa stiamo parlando. L’acqua sembra semplicemente l’acqua, ma non è così: è legata al mutamento climatico, alla desertificazione e via dicendo. Inoltre, alcuni beni sono già ampiamente studiati. Di altri non sappiamo granché. Le frontiere sono aperte.
Anche la cultura a un primo sguardo sembra semplicemente “cultura”: a Roma, in particolare da parte di quanti si sono ritrovati nell’occupazione del Teatro Valle, negli ultimi tempi si è fatto spesso riferimento allo slogan “Cultura bene comune”. C’è chi però è sospettoso: lo slogan è troppo vago, generico, definire cosa sia cultura e cosa non è semplice, senza contare che il diritto alla cultura per qualcuno è legato anche ai doveri, doveri dei cittadini e delle istituzioni, oltre che al sistema universitario, alle cose che si insegnano e si imparano. Insomma, una serie di questioni molto complesse e diverse. Come giudichi uno slogan del genere?
Qui c’è un uso generico del termine, come avviene in altre situazioni. Basta pensare ai manifesti che si vedono in giro per le città: “Il lavoro è un bene comune”, “Roma è un bene comune”. Sì, in un senso molto vago del termine potrei anche essere d’accordo, ma il lavoro non è un bene comune; la Costituzione recita che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Questo è il punto, non il fatto che sia un bene comune. Il bene comune non è il lavoro, ma è il fatto che ci siano opportunità di lavoro per tutti. Questo è un bene comune, ed è anche un diritto costituzionalmente problematico: si discute molto se diritto al lavoro significhi che tutti hanno il diritto di essere occupati oppure, come sostiene l’Europa con un escamotage retorico che poi si traduce in precise politiche pubbliche, che tutti devono essere messi nelle condizioni potenziali di avere un lavoro, di “rimanere in pista”. In ogni caso eviterei l’uso generico.
Anche “cultura bene comune” è generico. Quando la Ostrom parla di “conoscenza come bene comune” si riferisce a qualcosa di molto più specifico, in particolare alla conoscenza scientifica e tecnica e alle infrastrutture della conoscenza, alle reti connettive, ai database, cioè alle infrastrutture cognitive. In un senso un po’ vago anche i beni culturali sono dei beni comuni, nel senso che sono beni condivisi, normalmente accessibili a tutti, da cui è difficile escludere qualcuno (anche perché c’è un diritto d’accesso generico garantito anche costituzionalmente). Ci sono poi le tradizioni culturali, che vanno mantenute “facendole” giorno per giorno, come la lirica. E non bisogna dimenticare che non tutto nella cultura è bene comune. Molti sono mali comuni, pensiamo a certe regie, a certi film, o alla cultura che vive di parassitismo. Ci vuole una certa selettività, che però dovrebbe nascere spontaneamente, perché se nasce a monte, con i finanziamenti, già è fasulla. Ci sono buoni e cattivi pittori, buoni e cattivi musicisti, a deciderlo sarà il pubblico, la critica, la reputazione che si consolida nel tempo, attraverso meccanismi di aggregazione molecolari. Per questo è così difficile definire un’attiva politica culturale: si rischia di tagliare con la spada cose molto delicate, fragili. Eppure, in qualche modo si deve continuare a investire e a fare politica culturale, anche sapendo che molti investimenti sono fasulli. Il rischio, infatti, è che si verifichi la tragedia degli anti-commons: il fatto che i beni meritori siano sotto-valorizzati, sotto-utilizzati. Affinché questi beni diventino più comuni, occorre un surplus di finanziamento. Anche il fattore conoscenza è esposto a questo sottoutilizzo. Noi sappiamo moltissime cose ma di quel che sappiano non usiamo quasi niente. In una società capitalistica è normale, perché viene sovra-utilizzata soltanto la conoscenza che produce reddito e profitto immediati, mentre tutto il resto vive in un limbo sospeso che dipende dalla benevolenza dell’autorità. Società della conoscenza significa invece che ci reggiamo su tutte queste gambe, anche quelle meno utilizzate nelle politiche pubbliche. Non essendoci una consolidata cultura di governance dei beni comuni, è ovvio che sia più facile ricorrere a modi sloganistici, meno impegnativi e più fruttuosi, almeno nell’immediato.
In L’Italia sperduta, anche tu però sottolinei la necessità che le minoranze attive condividano un linguaggio e un vocabolario comune. Scrivi che “bisogna superare la frattura nei vocabolari e nelle tradizioni”, sottolinei l’esigenza di trovare parole chiave, come “coesione sociale e territoriale, sostenibilità e centralità delle capacità”. Da questo punto di vista, il ricorso anche sloganistico ai beni comuni non potrebbe essere una risposta a quella che definisci come una doppia crisi, la crisi cognitiva (analfabetismo sociale) e la crisi normativa (analfabetismo delle regole)? Quanto all’analfabetismo sociale, quanti si appellano, anche in maniera vaga, al tema dei beni comuni in qualche modo è come se decidessero di riscrivere una grammatica sociale, di essere partecipi, di non essere semplici consumatori passivi della vita politica; quanto all’analfabetismo delle regole, anche chi si limita a recitare gli slogan sui beni comuni riconosce in qualche modo che per governarli ci vogliono nuove regole, regole diverse dal passato…
Indubbiamente, chiunque metta al centro del discorso pubblico i beni comuni fa un’opera meritoria, anche se poi bisogna tener conto delle possibili distorsioni, degli abusi, delle genericità. Da questo punto di vista, un libro senz’altro migliore dal punto di vista pedagogico, anche per il modo della comunicazione, è quello di Franco Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (Dedalo 2004). I beni comuni dovrebbero avere una valenza soprattutto in relazione ai legami sociali. E’ evidente che viviamo in una società estremamente sfatta, in cui ciascuno di noi costruisce faticosamente delle piccole connessioni, sempre molto fragili. Lo si nota soprattutto nei movimenti. Anche su internet, c’è un gran numero di presenze, di attivismi, di verbalizzazioni, ma c’è anche una specie di tendenza – innata, non si capisce – alla separatezza, alla rigidità dei propri confini. Non c’è la tendenza a cercare connessioni più ampie, sia nella direzione dei saperi, sia nella direzione di altri gruppi sociali che potrebbero essere coinvolti nel proprio lavoro. Si tratta di un ostacolo grandissimo, perché non si raggiunge mai una massa critica, e le alleanze attuali sono troppo deboli. Probabilmente è propria questa la questione all’ordine del giorno: come superare questa frammentazione. Forse i beni comuni potrebbero diventare una sorta di koinè, servire da vocabolario condiviso, a condizione però che si presentino con quelle precisazioni doverose, perché è un tema che diventa facilmente tragico, “abusivo”. Ecco perché il discorso delle regole diventa centrale. I movimenti credono che le regole esistenti siano sbagliate, cattive, perché finora sono state fatte dagli altri. Ed è verosimile che sia così. Ma se i movimenti non si danno una “regolata” a loro volta, allora che facciamo? Questo è il problema. Bisogna evitare i capri espiatori e tutte le situazioni amico-nemico che necessariamente precipitano nelle sindromi schmittiane, che non portano a nulla. Non è soltanto un problema di dialogo, di capacità di dialogo, ma della necessità di tenere aperte le sponde anche verso i “diversi”, verso quelli che non la pensano come te, non in un senso immediato. Ci vuole una grande abilità nel costruire coalizioni più ampie. Ma in effetti queste coalizioni non si costruiscono se non c’è un vocabolario condiviso.