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Gli Ipocriti, gli avvoltoi e la cultura del lavoro

Storia vera: Luigi Scaffidi, trent’anni, ufficio stampa di Fazi, medio/grande casa editrice romana
1 Giugno 2017
Nicola Villa

Storia vera: Luigi Scaffidi, trent’anni, ufficio stampa di Fazi, medio/grande casa editrice romana, viene licenziato dopo mesi di angherie e mobbing da parte del suo editore che è comunemente, pubblicamente noto, nel migliore dei casi, come una persona dal carattere irascibile e irrazionale. Scaffidi, che nonostante tutti questi anni nella capitale ha conservato una certa signorilità palermitana, informa via mail aziendale tutta la sua rubrica scrivendo le motivazioni del licenziamento: “si ritiene infatti che l’attività di ufficio stampa non sia più di alcuna utilità per la promozione dei libri. Le sue funzioni saranno sostituite dall’ufficio marketing”. Di suo Scaffidi aggiunge: “E ho detto tutto”. Poche ore dopo lo scrittore quarantenne Christian Raimo pubblica la foto della mail sul suo Facebook commentando amaro: “Ciao, il lavoro dell’ufficio stampa non serve più. Abbiamo i social network e Amazon”. In pochi minuti sotto il post dello scrittore e influencer culturale, la cui pagina è diventata più vitale di quelle dei tanti blog letterari che pensano di guidare il dibattito, compaiono messaggi di solidarietà e indignazione per l’accaduto. Ce ne sarebbe per una riflessione sul rapido cambiamento del lavoro di promozione libraria, e sull’effettiva subordinazione dell’ufficio stampa al marketing, e infatti qualcuno condivide articoli sul tema, abbozza una riflessione. Ma col passare dei minuti il numero dei commenti di biasimo per la mail di Scaffidi aumentano: qualcuno scrive che vorrebbe sentire “l’altra campana dell’editore”; un altro rimprovera il fatto che sia stata usata una mail aziendale “sputando nel piatto in cui si è mangiato fino a oggi”; altri difendono il proprio mestiere di responsabili marketing, o social media editor, forti del fatto che il loro lavoro oggi valga più di un tradizionale ufficio stampa; infine più d’uno giustifica l’editore, il padrone, dicendo che l’impresa privata, la casa editrice, è sua e ha diritto di licenziare chi vuole, come vuole, quando vuole.

Ho evidenziato l’età in questa storia perché la schiera dei commentatori che hanno rimproverato il comportamento del licenziato, una schiera che lascio anonima, come una legione, me la immagino di giovani intorno ai trent’anni o meno. Magari andando a verificare tra questi lavoratori editoriali, i più agguerriti a sostenere queste tesi saranno stati, in prevalenza, coetanei di Scaffidi e di Raimo, ma intuisco che il loro retroterra culturale sia più acerbo, fatto di master e corsi di marketing aziendale, di retorica della meritocrazia, nutrito da una certa logica del lavoro come competizione. Insomma che queste voci provengano da un mondo più recente e moderno composto da responsabili di strategie di marketing e social media editor.

A quel punto interviene la sessantenne Loredana Lipperini, voce ufficiale (e di governo) del buon senso culturale di sinistra, che rappresenta nel suo lavoro di speaker a Fahrenheit-Radio 3, per biasimare giustamente a sua volta questi commenti e bollarli come una misera “lotta tra poveri”. Lipperini, da sempre molto presente e agguerrita sui social, trova pane per i suoi denti: infatti i commentatori non arretrano di un passo, anzi le ribattono che è facile essere e pensare di sinistra, e quindi solidali con chi perde il lavoro, dall’alto dei privilegi e delle garanzie di un dipendente Rai.

Facebook, come altri social, è basato su degli algoritmi esponenziali per i quali più persone leggono e commentano un post, più i commenti sono visibili sui feed di altri utenti. Questi algoritmi favoriscono facilmente i commenti negativi e i flame, le vere e proprie risse virtuali tra due o più utenti, ma l’immagine più efficace è quella, molto pop, di una merda che finisce in un ventilatore. È quello che succede dopo il primo commento di Lipperini a cui segue un botta e risposta in cui sempre più la posizione di privilegiata della speaker radiofonica è messa in cattiva luce, in una sorta di scontro generazionale. Quando la Lipperini si difende dicendo che anche lei ha vissuto il precariato, qualcuno le fa notare rabbioso che il precariato del nuovo millennio e i contratti post legge Biagi, quindi spesso l’assenza di contratti, sono molto diversi dall’instabilità lavorativa degli anni Ottanta e Novanta. Si va dalla presa in giro “scambiamoci di posto per un giorno”, al ritornello grillino sui privilegi e le pensioni pagate con il lavoro e i soldi degli altri, più giovani e meno garantiti. Neanche la dichiarazione di Lipperini di essere coinvolta nel tema perché ha figli ventenni, che sono dentro la crisi del lavoro, sembra raffreddare i toni: infatti, nel paese immobile i figli dei privilegiati saranno sempre un piccolo passo avanti a chi non ha nulla, neanche una piccola rendita da ereditare. Fine della storia.

Per chi come me ha soltanto letto questo confronto ed è stato solamente uno spettatore, è difficile schierarsi, farsi un’idea. Potremmo cavarcela con una battuta: non siamo tutti sulla stessa barca. Ma non è così semplice. Uno dei miei motti viene dal film Le regole del gioco di Renoir: “Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni”. È un motto utile per affrontare la complessità, per non liquidare posizioni che ci sembrano apparentemente distanti o solo ideologiche. Il problema è che queste ragioni, da entrambe le parti, sono tarate in partenza, quindi le regole del gioco è come se fossero falsate. Ipocriti vs “avvoltoi” mi sembra una sintesi efficace di questo esempio di dibattito sulla cultura del lavoro. Le ragioni della Lipperini sono, come detto, quelle del buon senso di sinistra ufficiale, ma sono espresse da una posizione ipocrita. Mettiamo tra parentesi questa ipocrisia che è quella dei molti privilegiati della generazione del dopoguerra che ha visto il ‘68 e ha fatto il ‘77, che era già la futura classe dirigente al liceo piccolo borghese che frequentava negli anni Settanta. Questa generazione non mollerà di un millimetro i privilegi e le posizioni di potere conquistate, sudate certo, difese con le unghie. E da queste posizioni pontificherà fino allo stremo su che cosa è giusto o sbagliato, su cosa è di sinistra e cosa non lo è. Di conseguenza, quindi, metterei tra parentesi anche questo comprensibilissimo “odio” generazionale. Lo capisco, capisco da dove viene, quali sono le sue motivazioni. È il fastidio istintivo e atavico che hanno i figli contro i padri, e demolisce tutte le argomentazioni che non dichiarano, o non sottendono, da che posizione privilegiata si sta parlando, quali sono le autocritiche e le critiche che si è disposti a sostenere, quali conoscenze si possono condividere (in un ipotetico dialogo generazionale) per aiutare una generazione a realizzarsi, a non commettere gli stessi errori, e quali cose si possono imparare dai nuovi arrivati in una società. Ho sempre sperato che questo “odio” esplodesse nel discorso pubblico affinché si fosse costretti a ridiscutere in modo pratico, in ottica volendo anche riformista, i temi della scuola, del lavoro e delle culture. Ma se questo non è ancora avvenuto bisogna indagare perché dal basso non si sia costretta la società a guardarsi indietro e al di dentro. Dall’alto, infatti, non c’è da aspettarsi nulla se non, appunto, quintalate di ipocrisia.

Quello che non capisco e non condivido, confesso, sono le ragioni della schiera gli “avvoltoi”. Questa schiera reazionaria composta da persone sotto i trent’anni è più difficile da incasellare. La prima interpretazione che si può dare è che questi commentatori abbiano completamente interiorizzato l’ideologia aziendale. La cosa che più ha colpito chi come me ha letto questi commenti spietati, è l’emergere di un rispetto quasi devozionale per un marchio editoriale, in questo caso Fazi, a mio parere sopravvalutato per il valore del catalogo, per i best seller scovati, per la qualità editoriale. Per chi lavora nell’editoria o ambisce a lavorarci c’è questa sorta di rispetto sacrale per le case editrici di anche minimo successo, il cui unico merito è stato quello di costruire una narrazione e quindi un’immagine di autorevolezza culturale che le fa brillare all’esterno, non a caso con le armi della comunicazione dell’ufficio stampa (per chi fa marketing, o crede che il marketing sia qualcosa di diverso dall’ufficio stampa, si dice appunto “posizionamento del brand”). Un marchio è sacro, non si può toccare o scalfire, non si può danneggiare. Anche se l’Italia è un Paese in cui si legge pochissimo, pensate quante sovrastrutture culturali (pubblicitarie) diverse tra loro si attivano nel cervello degli operatori della cultura quando incontrano su un vagone di treno un lettore di un libro Adelphi, Minimum fax, Sellerio o il Saggiatore. In alcuni casi è come “leggere un libro aperto”.

Scaffidi, per il gruppo di giovani adepti del marketing editoriale, avrebbe compiuto un atto scorretto nei confronti del brand, che va protetto in tutti i casi. Alcuni hanno sostenuto infatti che avrebbe fatto meglio a combattere la sua battaglia da una mail personale, senza coinvolgere l’account mail aziendale. Quando invochiamo l’etica professionale, come hanno fatto i tanti “avvoltoi” nel post di Christian Raimo, dobbiamo attaccare per primi i padroni, gli editori, i capi, non i licenziati, non chi ha subito o subisce mobbing. La solidarietà con gli altri lavoratori invece scatta solo quando i padroni non possono più darti un lavoro, quando non può funzionare il mors tua vita mea (vedi #occupyISBN, e non che non fosse giusto solidarizzare in quel caso). Queste ragioni, oltre a tradire un’ottica tutta individuale delle questioni legate a diritti e lavoro, ci dicono anche che è in atto un autoasservimento preventivo in previsione di possibili collaborazioni lavorative future. Non è ingiustificato ipotizzare che molti abbiano pensato a Fazi come futuro datore di lavoro e quindi abbiano ragionato come già “virtuali” dipendenti. Al contrario un amico sostiene che “sputare nel piatto in cui si mangia” è il primo antidoto all’alienazione lavorativa: bisognerebbe del resto sempre distanziarsi per non finire in un delirio di conferme, mantenere sempre il proprio spirito critico e autocritico allo stesso tempo. Quanti “editoriali” sono disposti ad ammettere a se stessi che hanno prodotto un libro sbagliato? O che non hanno lavorato al massimo delle loro possibilità? O che mentono promuovendo libri in cui non credono neanche loro?

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