Fine scuola, inizio scuola
Il 24 giugno il ministero dell’Istruzione ha pubblicato le linee guida per la riapertura a settembre delle scuole considerando il permanere dell’emergenza sanitaria da Covid. Contemporaneamente ha diffuso le linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica: costituzione, sviluppo sostenibile e cittadinanza digitale gli assi della “nuova disciplina”, che dovrà occupare 33 ore annue e avere voto in pagella ma non cattedra specifica, chi può la farà.
La coincidenza è divertente: durante la chiusura delle scuole, nei mesi di lock-down e cosiddetta didattica a distanza si è parlato, scritto, discusso di scuola ovunque. Stampa e televisione, seminari e tavole rotonde on line, assemblee e comitati cittadini e nazionali hanno rivendicato la scuola pubblica come istituzione vitale, come baluardo contro l’esclusione e la discriminazione, come comunità educante indispensabile alla crescita di giovani, bambini e bambine. Le università, gli enti di formazione, le case editrici si sono scatenati, decine di webinair e corsi di formazioni gratuiti sulle didattiche più varie. Eravamo in paradiso e non lo sapevamo. Avevamo comunità educanti unite e fertili dove le diseguaglianze erano colmate e dove si cresceva in cultura e responsabile attivismo e non gli abbiamo dato soldi, spazi, voce per anni.
Adesso toglieremo il voto alle elementari e lo metteremo per l’educazione civica, e la scuola – incubatore di vita democratica e di partecipazione civile – tornerà a noi galvanizzata dallo sforzo di far quadrare metri di distanza, classi dimezzate, spazi e orari inventati di sana pianta da presidi e tecnici del comune. Settembre è ora e ogni istituto si deve organizzare come può: i casi sono troppo vari e i budget dei Comuni anche perché il Ministero dicesse chiaramente cosa sì, cosa no. Come è accaduto per la didattica a distanza un documento pedagogicamente e culturalmente forte non è stato prodotto. Anzi per la Dad le linee guida non sono proprio pervenute, si sono susseguite comunicazioni e indicazioni contraddittorie che hanno lasciato spazio a varie forme di tortura. Ah sì questo è l’altro campo di discussione: il digitale può migliorare la scuola, trasformare la didattica, rinnovare le relazioni? Si potrebbe dire che se le relazioni non erano buone prima difficilmente funzioneranno bene a distanza e nel medium digitale. Altrimenti non avremmo sentito milioni di volte le litanie: “accendi la webcam, mi butta fuori, non la vedo, non posso entrare, mi butta fuori, accendi la webcam”, le interrogazioni on line, gli esercizi di matematica e inglese e grammatica corretti per ore a distanza nella noia e vanità più totali. Hai voglia a dire che abbiamo scoperto che non sanno usare word, registrarsi a servizi, compilare un foglio excel: quando mai hanno dovuto scrivere una vera email, tenere conto dei loro soldi, stampare una vera opera? È il digitale il punto? Solo se poniamo la questione della pedagogia hacker, del farsi le macchine e i programmi e non del subirli, allora sì che sarebbe bello. Il resto si farà comunque perché così è il mondo e se non era la Covid ci portava lì google prima o poi.
Comunque torniamo alla questione: a settembre si farà come si potrà, con febbre presa all’ingresso, distanze, gruppi piccoli, orari e spazi e distribuzione delle materie come vuoi. Che occasione meravigliosa per l’autonomia e per innovare davvero. Si potranno concentrare in settimane dedicate le educazioni artistiche, musicali, motorie: ad esempio una classe per una intera settimana farà storia della musica e del teatro, con ascolti, visite in città, lezioni dedicate, fruizioni in streaming, incontri con artisti e lavoratori delle arti e spettacolo. Poi durante l’anno ci saranno collegamenti con le altre materie ma il monte ore specifico sarà esaurito in quel percorso concentrato. Un’altra classe lavorerà per due settimane con le associazioni sportive e mediche a un progetto sulla salute e la scienza del corpo umano. Partendo dall’osservazione, dall’esercizio, facendo ricerca. Si potranno fare inchieste di quartiere, entrare in contatto con le realtà artigianali o industriali del territorio facendo studi dal vero e ricerche legate alla realtà concreta della città.
Il lavoro di insegnanti e educatori sarà quello di costruire esperienze di apprendimento valide curando la correlazione dei vari aspetti materiali e simbolici di questi percorsi diffusi nella città, che si imprimano nella memoria e siano motore di altre conoscenze e curiosità. È meraviglioso. Certo per riuscire a combinare tutto ciò ci vorrà uno sforzo immane: ore e ore di discussioni tra docenti e tra tutti gli altri adulti e professionisti che vorranno assumersi un ruolo educativo e di scambio. Almeno per tutto settembre ci saranno incontri con le ragazze e i ragazzi, i bambini, le bambine e le famiglie. Clima mite, assemblee all’aperto, intanto attività di gioco e di esplorazione per le più piccole. Sarà difficile ma non impossibile nelle cittadine e nei paesi. Per le grandi città pazienza, sono troppi con troppo cemento, dovevano fare altre scelte. Questi progetti vedranno le studentesse e gli studenti di ogni età al centro: sarà ascoltando le loro domande, i loro bisogni e desideri che si attiveranno la loro inventiva e la loro disponibilità a vivere e immaginare questo anno straordinario, capace di cambiare non solo la scuola ma anche le città. L’accoglienza dei corpi, sguardi, parole della giovinezza e dell’infanzia nella vita quotidiana delle città e dei paesi ci porterà a ridiscutere davvero in profondità gli assetti economici ed ecologici dell’organizzazione sociale.
In realtà non andrà così, per quanto le fantasie melense di prof o maestre illuminate si possano scatenare, non accadrà niente di simile. Le condizioni delle scuole sono quantomai disparate, tra nord e sud, tra città e paesi, tra provincie e centri ci sono differenze enormi come anche tra istituti della stessa area, dello stesso o differente grado. Ci sono abissi tra dirigenti scolastici e tra collegi docenti, dall’infimo al sublime. Sarà un “si salvi chi può”. La rinuncia istituzionale a scrivere leggi, a produrre documenti ricchi e dettagliati che siano in grado di indicare con sufficiente concretezza alcuni principi organizzativi per tutte le scuole, prelude al fallimento di un sacco di scuole, a un grande carico di difficoltà, frustrazione e malessere. Già adesso vari Consigli d’istituto inviano alle famiglie i piani del rientro: aule con 18 “punti studente”, tolte le cattedre, layout murali digitali , ore da 45 minuti con 5 minuti di pausa seduti, una settimana in presenza e una a casa. Oppure scuole elementari con quattro ore al giorno, un mese al mattino, uno al pomeriggio, mensa e palestra niente, basta, avanti le cooperative con ventenni pagati male nei sottoscala per i poveri e i club d’arte e sport per i ricchi. Oppure altre varietà che sfoglieremo affascinati e terrorizzati a settembre. Perché la scuola non si trasformerà nella comunità educante garante della vita democratica egualitaria e civile grazie alla pandemia. Già sarebbe tanto se restasse la solita cara vecchia merda di sempre, dove comunque lottando da qualche parte – in tante parti, dai – qualcosa di buono si faceva. Ma così disfattisti non si può essere! e allora? E allora l’unica chiave è porre radicalmente la questione del rapporto tra scuola e città, dell’organizzazione istituzionale e civica sia delle scuole che delle città. Non si possono condividere le conoscenze se non si condividono le risorse. Non serve, anzi non bisogna, dare milioni alle scuole se non si costruiscono nei quartieri delle biblioteche e delle case della gioventù dove fab lab, mediateche, sale prove, orti e campetti sono messi a disposizione di tutte le ragazzine e i ragazzini, con supporto di educatori formati ed esperienze di autogestione. I livelli di istruzione e benessere giovanile schizzerebbero alle stelle, altro che Friday for future, sarebbe Everyday future. Lo abbiamo detto mille volte su queste pagine: costituzione, responsabilità e attivismo civile si imparano solo con la partecipazione attiva a esperienze comunitarie. Trovale se riesci. La pandemia c’è stata e ci sarà di peggio, a cosa vogliamo crescere senza creare occasioni politiche e civili, anche a scuola!, in cui si discute e decide davvero su ciò che mangiamo, respiriamo, ci muoviamo?
Se utopia deve essere che sia radicale, non chiediamo di assumere 80mila nuovi docenti e di mettere i mini banchi a rotelle col tavolino porta tablet per ricavare spazio, essù. Se invece proprio si deve volare basso che almeno si spendano i soldi per server italiani, per programmi e piattaforme d’istituto open source: se no metteremo il voto di educazione civica usando programmi di Microsoft e Google e alla capacità di interpretare e creare hardware e software diciamo ciao.
Le attività di apprendimento hanno una dimensione sociale e non possono in nessun caso essere completamente individualizzate: questo è un postulato, a modo suo indimostrabile, che regge un certo tipo di universo ideologico e scientifico. Le sedioline con lo strapuntino per appoggiarci il tablet e la didattica blended, metà qui e metà a casa, non esaudisce lo scopo di crescere in conoscenza assieme, con progresso culturale e civile. Ne scriveremo per bene altrove, perché dopo il postulato si possono fare le dimostrazioni. Intanto denunciamo e basta. Al ministero non lavorano pedagogisti e scienziate dell’educazione in grado di dire chiaramente che non si potrà progettare astrattamente l’ambiente scolastico. Che i corpi con i loro bisogni, tempi, rituali, scambi e spazi di movimento ci saranno eccome e se non si vorranno solo contenere ma far vivere esperienze di apprendimento ci vorrà un impegno di umiltà, di invenzione, di studio e di ascolto eccezionale. Se salta la cornice che ha tenuto finora, “26 seduti, campanella, cambio dell’ora, intervallo in corridoio, posso andare in bagno, materie e voti… eccetera”, mettercene un’altra che non sia puro pascolare non sarà facile.
In un ambiente educativo si fanno esperienze di apprendimento – in cui agiscono assieme oggetti, simboli, corpi – predisposte con intenzionalità e senso da chi educa. Un lavorone insomma. In un’istituzione la cornice dei tempi, spazi, movimenti definisce le posizioni e la possibilità di ciascuno. Come si farà a non trattare tutto questo e a tenere ugualmente in piedi la baracca non si sa, pare di essere seduti al cinema in attesa che inizi lo spettacolo. Sarà interessante. Intanto il vero dialogo tra docenti e discenti non c’è. La presa di parola, la scrittura collettiva di leggi e di documenti di ricerca non è praticata e finchè non lo sarà non esisterà educazione alla responsabilità, all’autonomia, all’impegno per il progresso democratico e civile. I tempi precipitano e le nostre mancanze sono vaste. La maggior parte delle insegnanti non sa che un gruppo di lavoro è un organismo con un incosciente che determina la sua vita, a scuola non dobbiamo trattarlo ma nemmeno ignorarlo e ci sono tecniche per prendersene cura quanto basta a vivere e lavorare assieme senza nuocersi. Il nocciolo di quel testo base che è Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini parla di questo e di come non si può far stare bene nell’apprendimento un gruppo di studenti se non c’è un gruppo di docenti in grado di lavorare assieme curando le proprie dinamiche relazionali e cooperative. Questa sarebbe la prima riforma ecologica della scuola e delle città, ma in questi mesi non se ne è parlato. Eppure di che altro avremmo dovuto ragionare se non di salute pubblica?
La scuola statale non pratica la cooperazione e non incoraggia l’autorganizzazione. Abbiamo ancora paura della confusione, del rumore, della lunga fatica senza contabilità e gerarchia attraverso cui si apprende a fare un’opera collettiva riconoscendocisi dentro. Sarebbe stato bello se la nuova scuola di settembre fosse nata da assemblee, discussioni, lunghi incontri. Ma un po’ c’è la fatica, la stanchezza, la preoccupazione da cui usciamo e se anche in alcune città, nonostante le norme di distanziamento, ci si è provato, restano i tempi stretti e la necrosi della vita sociale.
Il sogno di una città e il sogno di una scuola sono due cose intimamente collegate, unite. Non dobbiamo chiedere più soldi e più tempo per la scuola, non serve più scuola e basta. Dobbiamo chiedere più risorse per la cultura popolare e dei giovani in particolare. Questo sogno purissimo presuppone la fattibilità dei numeri; l’ingegneria degli orari; la ricerca culturale. Alla scuola chiediamo un buon livello culturale per tutte e tutti, la padronanza delle competenze sociali indispensabili all’esercizio della cittadinanza attiva e critica in regime democratico. Come se l’uguaglianza educativa e sociale dipendesse da questo solo presidio istituzionale. Se un bambino non mangia bene, non parla bene, non ha scambi sani, non ha occasioni culturali può ovviare solo la scuola? Ha controllo su tutto? Avremmo dovuto chiedere di più e più in fretta, un anno in cui ogni curricolo e ogni schema noto saltasse. Una radicalità da Sansoni ci voleva e invece ci troveremo solo con le macerie e nessun grande nemico sconfitto.