Film stranieri a Venezia
di Paolo Mereghetti

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 44 de “Gli asini”: acquista il numero e abbonati per sostenere la rivista.
Abbiamo imparato qualcosa da questa edizione di Venezia, una delle migliori degli ultimi anni? Vere scoperte non ce ne sono state (sarebbe stato ingenuo aspettarsele: i “grandi” festival consacrano l’esistente, non lo anticipano) e gli applausi sono andati soprattutto a film piuttosto lineari e tradizionali nel loro raccontare una realtà continuamente alla ricerca di qualcosa. Persino il film più bello di tutti e naturalmente non premiato, Ex libris – New York public library di Frederick Wiseman, ha confermato la predilezione dell’anziano documentarista – 87 anni compiuti – per una narrazione non particolarmente complicata, attenta soprattutto ad accostare con un certo gusto della sorpresa attività diverse tra loro – conferenze, lezioni, attività per utenti con vari tipi di problemi, direttivi – per restituire in maniera il più viva possibile lo straordinario impegno di un’istituzione pubblica a favore dell’alfabetizzazione e della cultura in generale.
Il Leone d’oro The shape of water di Guillermo del Toro è un aggiornamento cinefilo-politico della favola della bella e la bestia, dove il piacere della citazione che il regista utilizza in maniera massiccia (soprattutto di film di serie B, quasi a rivendicare con orgoglio il proprio passato di regista per trasformarlo in rivendicazione “culturale” di fronte alla Hollywood dei blockbuster) rischia di mettere in secondo piano l’appello contro ogni tipo di discriminazione e di razzismo. Perché la “mostruosità” che spesso contraddistingueva i personaggi dei film di del Toro, qui diventa positiva qualità morale, a vantaggio di chi non accetta le regole di efficienza o di egoismo che sembrano imperare. E l’amore che si accende tra l’addetta alle pulizie di un laboratorio segreto del governo – siamo negli anni Sessanta, in piena Guerra fredda – e il misterioso uomo anfibio che è stato catturato e trasportato lì, finisce per riverberarsi anche sulle vite del frustrato illustratore che abita di fianco alla protagonista, sulla sarcastica collega di colore e persino sulla repressa spia sovietica che diventerà inaspettato complice della protagonista. Vince l’amore e trionfa il romanticismo, ma soprattutto vince un cinema che torna a offrire allo spettatore il sogno di un mondo migliore di quello in cui vive.
Se c’è una linea che ha accomunato molti film selezionati dal concorso Venezia, questa è proprio la scommessa di farsi carico dei “problemi” del mondo per cercare di offrire una soluzione o comunque una possibile via d’uscita. Così è per il film libanese L’insulto, che vuole soprattutto ricordare a due popoli eternamente in lotta – i cristiano-libanesi e i palestinesi – che le colpe e gli errori sono di entrambe le parti. E così è stato anche per l’israeliano Foxtrot che dietro la parvenza di un teatrino dell’assurdo cerca soprattutto di fare i conti con il senso di colpa che la militarizzazione della nazione ha lasciato dietro di sé.
Lontanissimi nello stile – tradizionale il primo, avanguardistico il secondo – i film sono uniti dalla voglia di fare i conti con la storia dei propri Paesi e di offrire agli spettatori gli spunti necessari per superare i tanti luoghi comuni che imperversano. Un cinema civile, dunque, che si offre di accompagnare lo spettatore nella sua scoperta del mondo, anche se a volte lo fa con qualche eccesso di schematismo (Jusqu’à la garde del francese Xavier Legrand), di ingenuità (Downsizing di Alexander Payne) o di compiacimento (Suburbicon di George Clooney, a partire da una sceneggiatura dei fratelli Coen). Ma a volte anche capace di tornare a immaginare un futuro migliore perché più gentile e più sincero, come è La villa di Robert Guédiguian, che non ha l’ambizione delle utopie di fronte ai mali del mondo ma piuttosto la funzione di un filtro, capace di lasciar passare solo cose belle e messaggi ottimistici.
Nel film, l’improvviso ictus del vecchio padre favorisce l’incontro dei tre figli che non si frequentano da tempo: il timido ristoratore, il sarcastico intellettuale e l’attrice rabbiosa. Si ritrovano nella villa che il genitore aveva fatto costruire in una piccola baia nei pressi di Marsiglia dove i rancori e le tensioni finiscono per sciogliersi nel ricordo dei vecchi insegnamenti paterni, ricchi di quella comprensiva solidarietà e di quel comunismo umanitario che Guédiguian ha spesso esaltato nelle sue opere precedenti. A volte il film prende strade improbabili (l’amore tra l’attrice e un giovane pescatore locale che l’avrebbe aspettata da vent’anni e che – per amore – ha imparato intere pièce a memoria), altre volte un po’ superficiali (l’incontro con tre bambini sopravvissuti a un naufragio di migranti) ma poi sa riscattare queste ingenuità con autentici tocchi di commozione (la scelta di una vecchia coppia di amici di abbandonare la vita insieme) o di poesia (il gioco dell’eco sotto i grandi pilastri della strada ferrata). E alla fine non si può che uscire commossi da questa inaspettata oasi di bontà, dove almeno per la durata di un film ti sembra di poter ritrovare quell’armonia e quella comunione di intenti che invano cercheresti in opere più ambiziose ma anche meno coinvolgenti.
Aspettando che Kechiche rimetta mano al suo Mektoub my love: capitolo uno presentato a Venezia in una versione di tre ore che dovrebbe essere scorciato di una ventina di minuti, bisogna ricordare almeno un altro film, forse il più “tradizionale” di quelli presentati (puro cinema di genere), ma forse proprio per questo uno dei più appassionanti e applauditi: Three billboards outside ebbing, Missouri di Martin McDonagh.
I tre manifesti fuori Ebbing, nel Missouri di cui parla il titolo sono quelli che una mamma ha affittato per ricordare alla polizia che dopo sette mesi non si sono ancora trovati i responsabili dello stupro e dell’uccisione della sua figlia. Un’iniziativa che innesca prevedibili reazioni soprattutto da parte della polizia locale. Lei è Frances McDormand, lo sceriffo è Woody Harrelson, il suo iroso sottoposto è Sam Rockwell ma bisognerebbe citare tutti gli interpreti – perfetti – di questo giallo a tinte nere che si fa applaudire per un ritmo che non lascia scampo e per i suoi scintillanti dialoghi (regista e sceneggiatore, McDonagh viene dal teatro e si sente). È l’esempio perfetto di quel cinema di genere che aveva fatto l’ossatura della Hollywood nei suoi anni migliori e che qui torna con una storia perfettamente calibrata e una ricchezza di letture (sulla rabbia e la voglia di vendetta degli umani, sulla violenza e l’egoismo della società) che lasciano davvero ammirati.
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