Figli del ghetto

Elias Khury è uno dei più importanti scrittori libanesi, conosciuto in Italia per il suo romanzo più famoso, La porta del sole, pubblicato da Einaudi nel 2014, che racconta la Nakba palestinese dal 1948 agli anni Novanta attraverso un intreccio di microstorie raccolte nei campi profughi del Libano. Khuri ha scritto anche la prefazione al libro The Holocaust and the Nakba, che contiene ben tre saggi dedicati al suo ultimo libro, Children of the Ghetto: My Name is Adam, uscito in inglese nel 2018.
Si tratta di una lettura contrappuntistica della storia palestinese, secondo l’insegnamento di Said, che apre uno spazio narrativo a più strati e plurivocale, in cui sono racchiuse variazioni di tragedia e trauma, sofferenze che evocano anche quelle, inenarrabili, dell’Olocausto.
Adam Dannoun, il protagonista del romanzo e figlio del ghetto, racconta ciò che avvenne in quello di Lydda, dopo la conquista della città, quando l’esercito israeliano costrinse decine di migliaia di palestinesi in una marcia della morte che risultò in uno dei più sanguinosi massacri della Nakba. Le forze sioniste adunarono in seguito gli sfollati rimasti in un’area militarizzata, circondata da filo spinato, chiamata, appunto, ghetto. Essa era adiacente alla moschea dove era avvenuto un eccidio. Adam, bambino a quel tempo, apprenderà la storia del ghetto dalla madre.
Trasferitosi a New York, vi incontrerà una figura paterna della sua città natale che lo stimolerà a scrivere delle sue esperienze e delle memorie affidategli dalla madre e da altri testimoni. Il narratore cercherà di descrivere “la verità disadorna spogliata di tutti i simboli”, avvertendo tuttavia che “una semplice verità è impossibile perché tutto il linguaggio è simbolico e metaforico e le parole sono appesantite dalle loro storie”.
Il linguaggio del trauma ne è specialmente carico. Il romanzo è un corpo a corpo con il disorientamento, le dissonanze e i frammenti della storia palestinese. Descrive anche lo strano sentimento di perdita che ha trasformato la gente di Lydda in stranieri nella propria terra. Una strana fusione di paese d’origine e di esilio. Per Raef Zreik il romanzo è un esercizio nell’arte dell’impossibile: un tentativo di far parlare il silenzio, mentre per Yehouda Shenhav lo scrittore va a fondo nella tensione storico-ideologica tra le due catastrofi, l’Olocausto e la Nakba, navigando tra due impossibili poli: l’uno che supporta e l’altro che rigetta analogie tra i due.
La Scena 2, che qui proponiamo per gentile concesione di Archipelago Books, si svolge nel Ghetto davanti alla Moschea.
Scena II
Come posso raccontare una storia che oggi mi appare come un inestricabile groviglio? E da dove dovrei iniziare? Dall’acqua o dalla rimozione dei cadaveri della città? Dal matrimonio di Iliyya Batshoun, o dalla visita di suo figlio Iskandar al ghetto per annunciare, prima di tutto, che aveva disconosciuto suo padre?
Come è possibile anche raccontare la storia di Karim il pazzo, o della mucca in cui si imbattè Hatim al-Laqqis? E della gioia incredibile di quando ne scoprimmo quattro nel cimitero?
Sono perplesso perché non riesco a capire come le persone abbiano saputo tirar fuori la capacità di inventare una vita dalla morte, dalla disperazione, dalla putredine in mezzo alla quale vivevano.
Cos’è questo straordinario potere che fa sì che l’umanità sia in grado di adattarsi alla morte e persino di vivere dentro la morte stessa?
Potrei dire che è la volontà istintiva di vivere, perché la vita resiste alla morte fino alla fine, ma sento, scrivendo queste parole, che ciò che chiamiamo volontà di vivere è solo un altro nome per la capacità delle persone di esercitare una ferocia smisurata. L’assassino è reso selvaggio dalla sua sete di sangue, la vittima dal suo rifiuto di morire in qualsiasi circostanza. I soldati israeliani che facevano la guardia agli abitanti del ghetto erano spietati – così disse il predicatore del venerdì all’assemblea che si tenne nella piazza davanti alla Grande Moschea il 25 luglio.
Poco prima di mezzogiorno il popolo udì la voce del muezzin salire dal minareto; era la prima volta che qualcuno aveva osato scalarlo. “Dio è grande!” risuonò e le lacrime cominciarono a scorrere sui volti degli uomini, che se ne stavano esterrefatti nel cortile della moschea, incapaci di credere alle loro orecchie. In quell’istante, il popolo vide la mano di Dio sotto forma di una grande nuvola che bloccava i raggi del sole e portava con sé una brezza fresca e ristoratrice, sentirono l’incenso.
“È la mano di Dio!” gridò Bilal, il predicatore, dall’alto del minareto. La gente quel giorno non pregò. Rimasero attoniti sotto la nuvola che ombreggiava il cortile, gli occhi levati. In totale silenzio.
Ancora una volta la voce del predicatore si levò e disse che Dio aveva comandato all’umanità di essere misericordiosa e di mostrare sentimenti umani gli uni verso gli altri. La sua voce era fioca, come se parlasse e non parlasse. Disse: “Non aspettatevi misericordia da nessuno tranne che dal Signore dei mondi”.
Il vecchio tacque. Aveva ottant’anni e durante l’invasione della città si era rifugiato in uno degli agrumeti. Poi, quando i giovani lo riportarono indietro, si era stabilito nella moschea con una cerchia di suoi discepoli e non l’aveva più lasciata, vivendo in mezzo alla folla di rifugiati che la riempiva. Aveva cercato di invitare la gente a pregare, ma nessuno lo aveva ascoltato in mezzo al caos dei moribondi che aveva sopraffatto la città. Ora, era tornato al suo minareto, dopo aver acceso l’incenso e aver chiesto alla gente di aggrapparsi alle corde di Dio, perché tutte le altre erano state tagliate e ne erano stati privati.
La gente taceva sotto la nuvola di Dio, ma non pregava, e quando mia madre mi raccontò gli eventi di quel giorno disse che la preghiera aveva bisogno di speranza: “Ma avevamo perso ogni speranza”.
Disse che tutti gli abitanti del ghetto – uomini, donne, bambini e anziani – si erano radunati nel cortile della moschea. Anche il prete, Toma Niama, uscì dalla sua stanza, adiacente alla chiesa, e si precipitò nel cortile.
Iliyya Batshoun disse che quando sentì la chiamata alla preghiera, pensò che fosse accaduto un disastro, quindi si precipitò ritrovandosi in mezzo al silenzio della nuvola che gettava la sua ombra su tutto.
Il predicatore era sceso dal minareto e la folla aveva cominciato ad agitarsi, preparandosi a disperdersi, quando risuonò la voce di Khadija. “O Dio! O Dio!” gridò la donna, come in un lamento funebre. “Vogliamo l’acqua, o Dio!”
Khadija aveva una buona ragione per la sua supplica: la vasca delle abluzioni si era prosciugata dopo due giorni di utilizzo essendo l’unica fonte d’acqua, e tutto ciò che restava era il pozzo dell’ospedale, la cui acqua era inquinata ed emanava un cattivo odore. Quando Moshe informò il capo del comitato che non era suo compito garantire l’approvvigionamento idrico per le persone e che avrebbero dovuto provvedere da soli, il dottor Zahlan suggerì di attingere le restanti acque salmastre dal fondo del pozzo nel cortile sul retro dell’ospedale, farle bollire e usarle solo per bere.
Questa soluzione, su cui la gente acconsentì a malincuore, si rivelò, tuttavia, impraticabile. L’acqua era verde, come se fosse piena di verderame, e anche facendola bollire più volte non si riuscì a liberarla dal cattivo odore. “Stiamo morendo di sete!” urlò Khadija. “E presto moriremo anche di fame perché siamo troppo deboli per fare il pane.”
Il mormorio della folla cominciò a salire in un grido soffocato. Khadija si diresse dritta verso il filo e tutti si unirono a lei. La cinquantenne dalla carnagione bruna, che si copriva il capo con uno scialle nero, appoggiò le mani sul filo e iniziò a scuoterlo. Hatim al-Laqqis si fece avanti, si mise al suo fianco e iniziò a scuotere anche lui il filo gridando: “Scuoti il filo!” Improvvisamente, tutti si trovarono davanti al filo, facendolo sbattere violentemente, come se volessero liberarlo. In quell’istante apparve il capitano Moshe e, in piedi dietro di lui, un uomo alto e calvo con la testa fasciata. Moshe alzò il fucile e scese il silenzio.
Iliyya Batshoun e gli altri membri del comitato avanzarono verso il filo e la gente sentì Iliyya dire: “Stiamo morendo di sete, signore”.
Uno dei soldati si avvicinò al cancello nel recinto, lo aprì, fece uscire i membri del comitato per un incontro con Moshe e disse alla folla di disperdersi.
“Non ci muoviamo da qui!” Manal disse piangendo. “Abbiamo bambini. I nostri bambini si stanno disseccando. Guardate mio figlio, tutti! Il suo corpo è come un bastone. Cosa devo dargli da bere?” Quando raccontava la storia della sete, Manal disse che le lacrime non estinguono la sete. “Se solo le lacrime potessero dissetare gli assetati!”.
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