Fare politica scrivendo

di Uwe Timm
incontro con Vittorio Giacopini
traduzione di Giovanna Mirelli
Con Un mondo migliore (Sellerio 2019) Uwe Timm torna alla ‘preistoria’ tedesca, ossia al nazismo e ai momenti della liberazione del dopoguerra. Se la cosiddetta “letteratura delle macerie” gli autori come Günter Grass, Heinrich Böll, Siegfried Lenz, si occupavano in sostanza del grande tema della “colpa” tedesca, nei libri di Timm il fuoco della questione appare un altro: “Com’è stato possibile”? La domanda è: come è stato possibile che Karl Heinz Timm, il fratello dello scrittore, diventasse un volontario nelle SS? Com’è stato possibile che le stesse persone che ascoltavano Haydn, Beethoven, Bach, scegliessero la reazione e lo sterminio. Com’è stato possibile – questo è appunto il tema di Un mondo migliore – che un intellettuale della sinistra radicale innamorato del sogno e dell’utopia di Cabet come Alfred Ploetz diventasse il teorico dell’eugenetica nazista?
È assolutamente corretto, sì. La questione del “come è stato possibile” per me è essenziale.
Per quanto riguarda questo libro, il personaggio chiave, Ploetz è qualcuno che passa da un’utopia originaria, legata a un esperimento comunitario, a un qualche cosa che è basato sulla realtà, sull’oggettività neutra della scienza. La presa di coscienza per lui nasce dallo scontro tra le sue aspettative utopistiche e quanto realmente ha visto incarnarsi di quelle aspettative a Ikaria nel suo viaggio (siamo a fine ottocento) nella comunità fondata negli Stati Uniti, a partire dalle idee di Étienne Cabet. Ecco, come è stata possibile questa “trasformazione” così radicale, da utopista a funzionario nazista? Concretamente è da lì, dall’esperienza che Ploetz fa ad Ikaria, che parte l’idea che bisogna cambiare la gente, che bisogna cambiare fisicamente le persone, cosa che non è più possibile operare, una rivoluzione nel modo di vivere e nella politica tramite interventi di tipo esclusivamente utopico-sociale. Il progetto delirante dell’eugenetica nazista nasce effettivamente anche da questo sogno utopico distorto, dalla delusione per esperimenti comunitari come quelli di Ikaria. È come se oggi dicessimo che per cambiare la società si deve agire esclusivamente tramite la genetica, tramite tutto ciò che riguarda l’ereditarietà. Una figura come Ploetz è emblematica di questo mutamento di prospettiva: all’approccio di sinistra, quello degli utopisti, si è sostituito un approccio strettamente e positivisticamente scientifico.
Ora il problema con l’uso della scienza come strumento di cambiamento, di progresso sociale è quello della elevazione a regola di un qualche cosa che in realtà non dipende dalla nostra volontà e a cui non possiamo far altro che assoggettarci. In qualche modo è un qualche cosa a cui ci si assoggetta. Del resto è vero anche oggi, anche se forse il campo non è più tanto quello della scienza quanto quello dell’economia. La sinistra oggi sta subendo ovunque una situazione simile, e gioca costantemente sulla difensiva. La nostra situazione non è lontana da quella dei tempi di cui scrivo nel libro. Allora la sinistra vedendo fallire modelli di sperimentazione sociale come Ikaria, ad esempio, decise di adattarsi, di assoggettarsi alla realtà o di forzare la mano perseguendo in altri modi, l’eugenetica in questo caso, lo stesso sogno di rigenerazione di palingenesi totale della realtà. Attualmente c’è una simile Sudditanza alle grandi strutture dell’economia, della globalizzazione. Non essendo riuscita a rovesciare e superare il capitalismo la sinistra adesso lo percepisce come inevitabile, e vi si assoggetta completamente.
E infatti mi sembra che in questo Ploetz c’è questa specie di ossessione diciamo di raddrizzare quello che Kant chiamava “il legno storto dell’umanità”: non si può cambiare la società, bisogna proprio cambiare fisicamente gli uomini per come sono fatti.
È una buona citazione questa di Kant. Beh, se vogliamo prendere il principio del legno o dell’albero, possiamo vederlo dal punto di vista di un giardiniere e tutto sommato l’uomo può intervenire, può fare in modo che questo legno, questo albero cresca alto e dritto. Ma gli uomini non sono piante, e nemmeno la vita sociale. In qualche modo si tratta di una forma di impazienza rivoluzionaria. È la stessa forma di impazienza che, in grande, ha portato alla degenerazione dell’esperienza dell’Unione Sovietica e, su scala più ridotta ha portato al fallimento delle colonie utopiche di fine Ottocento, primi Novecento, come l’Ikaria di Cabet. Allora bisogna leggere Gramsci e rendersi conto che nella storia e nell’azione politica bisogna invece essere consapevoli, saper aspettare, saper vedere e valutare la complessità delle situazioni. L’azione politica non può avere i tempi del sogno: si tratta sempre di percorrere una via molto lunga e ci vuole ostinazione, ci vuole pazienza. Per restare alla metafora del legno, cambiare la società è come trapanare con calma e con fatica delle assi molto spesse, e molto grosse.
Ecco, ma anche oltre questo libro a me sembra che in tutta la sua opera ci sia un particolare interesse per il sogno della politica come rigenerazione, cioè contrasto del mondo così com’è, e anche però sul fallimento della politica. Credo che questo sia sicuramente il tema centrale di Rosso, è un tema molto forte anche ne L’Amico e lo straniero, la storia di Benno Ohnesorg il ragazzo ucciso dalla polizia tedesca nel ’67 mentre manifestava contro la visita dello Scià di Persia (un episodio che di fatto diede il via al ’68 tedesco) e appunto l’ho trovato moltissimo anche in quest’ultimo libro. Insomma la politica come sogno che non si può non sognare, ma anche come sogno che spesso implode, produce il suo contrario, fallisce.
È giusto, è visto in maniera molto giusta. Questi processi civili sono processi, come dice anche Norbert Elias, molto lenti che a volte registrano passi in avanti. Ma a volte, anche tramite la resistenza che incontrano, le opposizioni che subiscono, possono tornare indietro, capovolgersi. La linea del tempo storico ha un andamento sinusoidale, non procede in linea retta. L’aspirazione è sempre quella di arrivare a una situazione in cui ci siano più civiltà, più libertà, più democrazia. Ma è tutta una questione di “alto” e “basso”. In questo senso la Germania rappresenta un esempio molto particolare perché se noi guardiamo la Germania di oggi ci rendiamo conto che non è più la vecchia Germania, dominata dal militarismo, dal conformismo, dall’obbedienza agli ordini. Certo in Germania dopo l’ enorme catastrofe nazista è stato possibile creare una forma diversa di convivenza. Purtroppo non sono stati i tedeschi stessi a riuscire a fare tutto ciò, ma sono riusciti a farlo tramite l’armata russa e l’intervento degli americani. Sia come sia in qualche modo i tedeschi sono riusciti a creare un nuovo modello, una nuova situazione. Dopo il ‘45 in parte sono ritornati i nazisti, poi c’è stato il ‘68 in cui si è risaliti, è stato un grande momento di liberazione a cui ha fatto seguito una fase importante di democratizzazione, ora invece siamo di nuovo dentro un avvallamento, dentro una fase depressiva in cui i reazionari stanno guadagnando molti consensi.
A me sembra che nella sua opera ci siano due tempi storici di grande interesse, il passato nazista sicuramente, ma anche gli anni ‘60 (la stagione dei movimenti, la rivolta giovanile). Magari in Italia questa parte della sua opera è meno nota, è stata meno trattata, il suo primo libro, che si intitolava proprio L’estate calda e narrava le origini del ’68, non è mai stato tradotto. Ho l’impressione che lei individui in questi due casi delle zone di riflessione importanti, ineludibili sulla politica contemporanea, che poi hanno a che fare anche col presente: il passato nazista è il passato più vicino degli anni sessanta.
Ritengo che il ’68 sia stato molto importante anche dal punto di vista della strutturazione della società. In quel momento in Germania stavano tornando a imporsi dei valori conservatori, e, soprattutto, ai vertici delle istituzioni erano tornate a contare, ad avere ruoli chiave, delle persone con un chiaro passato nazista. Quindi la stagione del ‘movimento’ va compresa misurandola contro questo sfondo. È stata una risposta, e una rivolta contro il ritorno all’autoritarismo. Non si sottolinea abbastanza ma il ‘68 ha davvero cambiato la storia della democrazia tedesca. Per la prima volta si sono differenziati gli approcci alla vita sociale, alla politica, alla stessa vita quotidiana e sono diventate essenziali le questioni di genere, le questioni sessuali, le questioni di carattere scientifico. Il processo di democratizzazione scaturisce proprio dal confronto, e dalla lotta, tra fasi e impulsi reazionari e momenti di “sogno e di utopia”. Detto ciò, oggi in Germania abbiamo una democratizzazione che è relativamente stabile e solida. Prendiamo ad esempio la questione del populismo e mettiamo a confronto la Germania di oggi con altri paesi: basti pensare alla Francia con la Le Pen, o se vogliamo anche all’Italia con l’attuale governo, o alla Gran Bretagna con tutta questa pazzia che sta succedendo per quanto riguarda la Brexit.
Le faccio un’altra domanda sul suo metodo di lavoro. Oltre al nodo delle contraddizioni della storia, al tentativo di rispondere alla domanda “come è stato possibile”, lei ha anche la grande capacità di occuparsi di vicende marginali, meno note. Non penso soltanto a questa storia di Ploetz che non è molto conosciuta, ma anche ad altri libri. In Penombra c’è la storia di un’aviatrice, Marga von Etzdorf e tutto parte da una passeggiata in cimitero berlinese, dalle scritte sulle lapidi. La vicenda di Benno Ohnesorg è anche una storia marginale che illumina tutta la storia tedesca di quegli anni. E ci sono anche tanti altri personaggi. Quel libro bellissimo che è La scoperta del currywurst in fondo racconta una storia, peraltro, non si sa quanto vera (la polemica tra berlinesi e amburghesi su chi abbia scoperto la ricetta di questa salsiccia al curry è interminabile), partendo dalla vicenda di una donna che non aveva nessun ruolo pubblico, nessuna particolare consapevolezza storico-politica. Insomma, la sua scommessa mi sembra: ricostruire la storia dai margini, da aspetti poco noti, lavorare proprio come archivista della fantasia.
Mi piace questa definizione, “archivista della fantasia”. Vede, la cosa importante è quella di essere in grado di dedicarsi alla figure legate alla quotidianità. Perché poi queste ci fanno passare al più grande quadro della storia e a quelle che sono le contrapposizioni della storia in generale. Bisogna saper guardare dove ci sono le cose concrete, quotidiane, perché da una piccola goccia si può arrivare a cogliere tutta la realtà, quindi bisogna sempre avere un occhio sulla situazione storica, sui dettagli, sulla cultura materiale, anche se molti scrittori, non sono, in realtà, particolarmente interessati alla storia e alla storia della singole persone, dei singoli uomini.
Tra l’altro, mi viene in mente parlando di attenzione alla quotidianità che in Rosso il personaggio si definisce “un partigiano della quotidianità”: lui vuole fare la rivoluzione a partire dalla vita quotidiana.
È giusto. Ma questo è Gramsci, io ho letto Gramsci.
Gramsci infatti è un autore di culto anche per il personaggio di Rosso. La sua figura ritorna nelle sue opere. Un altro libro che ritorna spesso nel suo lavoro è Tracce di Ernst Bloch.
Bloch per me è molto importante, l’ho letto anche io. È il tema del “principio speranza”.
Proprio là volevo arrivare. Perché a me sembra che nella sua teoria politica si ritrovi molto Bloch, questa idea del mettere sempre a confronto speranza e politica, e un po’, forse, Hannah Arendt. C’è in Un mondo migliore un passo chiave. Quando Karl Wagner, l’ex amico di Poetz che però è sempre restato di sinistra, dice: “Ploetz ha iniziato a non ragionare quando ha iniziato a parlare in termini di umanità, non di compagni ma di amici: così perde la ragione”. Hanna Arendt anche dice una frase molto bella “io non amo l’umanità io amo i miei amici”.
Il problema è quando si va nel generale, nell’astratto, quando si prescinde dal piano delle singolarità. Allora ci si perde. Wagner dice: mi interessa l’umanità, voglio cambiare l’umanità, ma non mi importa il caso singolo, concreto, e invece dopotutto il caso concreto dovrebbe essere la cosa piu’ essenziale dal punto di vista di un medico.
A proposito di Wagner, è molto interessante che accanto alla storia di Ploetz lei racconti la vita di un socialdemocratico, e poi anarchico, che ha attraversato la politica di parte dell’Ottocento e buona parte del Novecento e che ha passato tutta la fase del nazismo praticamente recluso in in uno scantinato. Un po’ come il personaggio del libro di Grass Dal diario di una lumaca in cui il protagonista, che si chiamava Dubbio, stava tutto il tempo in cantina mentre fuori c’era il nazismo. Wagner sta in una cantina piena di libri (come una libreria) e racconta gli anni tragici della storia vivendoli da un sottoscala.
Sinceramente non avevo Grass in mente quando l’ho scritto; ci sono molti suoi libri che mi piacciono molto, ma questo sinceramente non l’ho letto. Ma la cosa da sottolineare è che Wagner è socialdemocratico ma diventa anarchico a un certo punto. Quindi colui che sta nello scantinato è un anarchico. Lui lascia i socialdemocaritici perché contrario alla posizione interventista nella prima mondiale e alla politica nazionalista che anche l’Spd sposa in quegli anni. Quella scelta è stato un grandissimo errore dei socialdemocratici nel 1914, solo Rosa Luxemburg e Liebknecht erano contrari a questo. Tutti e due finirono in prigione. Tutti e due finirono uccisi.
Nei suoi libri ho due personaggi preferiti, entrambi anarchici: Wagner e il protagonista di Rosso e perciò mi interessa il suo rapporto con l’anarchia.
All’inizio facevo parte del movimento studentesco e in particolare militavo nell’ala anti autoritaria che però abbastanza presto a Monaco ha iniziato ad diventare un’altra cosa: hanno prevalso atteggiamenti hippie, radicali e in parecchi si sono avvicinati alla Rote Armee Fraktion, e quindi, con mia moglie, abbiamo lasciato e ci siamo avvicinati ai comunisti. Tra i comunisti, in Germania allora, c’erano molti giovani ma anche gi anziani, quelli che erano stati in carcere sotto il nazismo, che erano stati nei campi di concentramento. Queste persone avevano una certa esperienza e potevano trasmetterci un’ esperienza che non avevamo mai vissuto nella nostra vita. Siamo entrati nel Partito comunista ed è stata una esperienza molto importante; potevamo discutere e confrontarci con persone che erano ancora discriminate, perché bisogna ricordare che ancora allora, sotto il governo di Willy Brandt, essere comunisti era vietato e se eri comunista non potevi accedere a posti di lavoro nell’amministrazione pubblica, eccetera. A un certo punto ci siamo ritrovati in tre, io che avevo studiato filosofia, un archeologo, uno specialista di arte bizantina a fare un giornale, una rivista teorica. Beh, ebbe dubbio successo: noi facevamo il numero, lo stampavamo, lo distribuivamo in piazza, alle riunioni e la gente lo prendeva… e lo buttava via. Il guaio è che dovevamo fare i conti con la realtà: il partito comunista della Germania federale era in realtà subalterno alla linea della Rdt, la repubblica democratica tedesca, a un modello di socialismo reale che non era stato in grado di sviluppare in maniera indipendente l’utopia, il comunismo come lo intendevamo noi. Alla fine abbiamo capito che non si poteva andare avanti. Noi, io e mia moglie, abbiamo scelto di andarcene e venire a vivere per un po’ proprio qui in Italia. Ma certamente abbiamo deciso di lasciare il partito senza dare spettacolo, senza inginocchiarci davanti alla stampa borghese.
In sostanza, ha cominciato facendo politica e continua a fare politica scrivendo…
È vero, e voglio, spero di riuscire a farlo in maniera molto libera, indipendente, usando liberamente l’ideologia, continuando a essere molto impegnato insieme a mia moglie nel campo della sinistra.