Fake news, tra passato e futuro
di Carlo Ginzburg. Intervista di Mauro Boarelli
“Le false notizie, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende – hanno riempito la vita dell’umanità. Come nascono? Da quali elementi traggono la loro sostanza? Come si propagano, amplificandosi a misura che passano di bocca in bocca, o da uno scritto all’altro?” Questi gli interrogativi che il grande storico francese Marc Bloch si poneva nelle Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra (1921). Ai nostri giorni, nell’era del web e degli esperimenti sull’intelligenza artificiale, la produzione e la circolazione di fake news inquinano il dibattito pubblico e – in alcuni casi – vengono utilizzate per preparare il terreno a tentativi di sovvertire gli ordinamenti democratici. Di questa mescolanza tra vecchio e nuovo, dei pericoli e degli anticorpi, abbiamo discusso con Carlo Ginzburg, che di recente ha dedicato all’argomento due saggi, inediti in italiano: La posverdad: un viejo asunto nuevo (in Verdad, historia y posverdad. La construcción de narrativas en las humanidades, a cura di Miguel Giusti, Pontificia Universidad Católica del Perú, Fondo Editorial, 2020), e Fake News? An Old New Story (in Secularism and Its Ambiguities, Natalie Davis Lectures, Budapest, CEU, in corso di pubblicazione).
Fake news è un’espressione relativamente recente, associata a un’epoca dominata da Internet. In realtà si tratta di un fenomeno rintracciabile nel passato, anche in un passato assai remoto. Vorrei partire dalle riflessioni di Marc Bloch sulle false notizie di guerra nelle quali, prendendo le mosse dalla sua esperienza diretta, ragionava sulla prima guerra mondiale come fabbrica di false notizie. In un passo – che hai ripreso nel tuo saggio La posverdad – Bloch scrive: “Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita”. Un incidente iniziale, fortuito, “fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento”. In un altro passaggio afferma: ”solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione”.
Questo mi sembra un punto cruciale. Il web produce nuovi modi di fabbricazione di false notizie, offre nuovi canali di circolazione e determina una maggiore velocità di propagazione, ma anch’esso presuppone stati d’animo collettivi preesistenti, altrimenti i contenuti falsi non potrebbero avere presa, rimarrebbero materiale inerte. Vorrei riflettere su questa mescolanza di vecchio e nuovo per la “messa in moto” dell’immaginazione sociale.
Qualche anno fa fui invitato a partecipare ad un convegno sulla post-verità in Perù. Ho accettato immediatamente, perché volevo polemizzare con questo concetto, e le sue implicazioni. In realtà gli organizzatori del convegno non lo sottoscrivevano: si trattava di una sorta di provocazione, che io ho raccolto. Ricordo che tanto tempo fa in un convegno a Yale dissi: “… la verità, senza virgolette”. Di fronte al mio gesto tutti si misero a ridere. Oggi riderebbero meno. Alla nozione di verità senza virgolette e senza post continuo a credere, e non sono disposto a metterla in discussione.
Il mio intervento a Lima si intitolava “Una vecchia storia nuova”. Perché questo ossimoro? Perché l’idea di usare la menzogna per raggiungere determinati fini politici è antichissima: ad essa è legata anche la riflessione sul mito. Ciò che è cambiato – e tu l’hai anticipato – è la tecnologia.
Molti anni fa avevo proposto di collegare lo straordinario libro di Bloch I re taumaturghi (1924) al suo bellissimo saggio sulle false notizie di guerra, legato alla sua esperienza di soldato nella prima guerra mondiale. Perché? Perché la leggenda (o credenza) secondo cui i re di Francia e d’Inghilterra erano in grado di guarire i malati di scrofola venne interpretata da Bloch attraverso il filtro delle false notizie. Da un lato c’era un fine politico: il libro dimostra l’esistenza di una precisa intenzione delle monarchie di rafforzare il proprio potere usando l’idea del monarca guaritore. Per questo Bloch mise in epigrafe una frase tratta dalle Lettere persiane di Montesquieu: “Ce roi est un grand magicien” (“Questo re è un grande mago”). Dall’altro lato c’è la ricezione della credenza, che Bloch esplorò mostrando come uomini e donne malati di scrofola percorressero grandi distanze per farsi toccare dai monarchi. Questa interazione tra una potenziale disposizione ad accettare la falsa notizia e la falsa notizia stessa – messa in circolazione dai sovrani oppure da altri membri della corte – è al centro del libro di Bloch e credo possa aiutarci a capire come funzionano le fake news.
Oggi abbiamo un modello, un filtro che ci aiuta a spiegare certi meccanismi: la pubblicità. In un saggio ancora inedito ho citato un passo di Mein Kampf in cui Hitler indica la pubblicità come modello della propaganda politica. Questo per me suona come una conferma di ciò che avevo sostenuto anni fa, in un saggio ora raccolto nel volume Paura, reverenza, terrore. Ero partito dal famoso manifesto in cui Lord Kitchener punta il dito contro il passante per mobilitare i cittadini a favore dell’impero britannico nella prima guerra mondiale: “YOUR COUNTRY NEEDS YOU” (“Il tuo paese ha bisogno di te”). Avevo sostenuto che il modello di comunicazione che aveva ispirato quella campagna era un manifesto pubblicitario in cui è raffigurato un uomo che offre una sigaretta al passante. Ricordo che quando presentai questo saggio a Londra, mostrai queste due immagini e dissi: “Ecco la smoking gun”, la prova inconfutabile della mia argomentazione.
Hitler criticò la propaganda usata nella prima guerra mondiale dalla Germania e dall’Impero austro-ungarico, giudicandola, a differenza di quella inglese, debole e fiacca, e sostenne che coloro a cui è destinato il messaggio propagandistico non devono chiedersi se il contenuto del messaggio sia vero o falso: il problema è l’efficacia. La pubblicità funziona così. Credo che ancora oggi il modello delle fake news sia, in larga misura, la pubblicità.
Sul funzionamento della rete nella produzione di false notizie torneremo tra poco. Prima vorrei soffermarmi sul tuo saggio Fake news?, in cui riprendi la teoria della profezia che si autoavvera oggetto di un celebre saggio del sociologo Robert K. Merton pubblicato nel 1948, che a sua volta riprendeva la teoria elaborata vent’anni prima da un altro sociologo, William Thomas. La definizione di Merton, che tu citi, è questa: “La profezia che si autoadempie è, all’inizio, una definizione falsa della situazione. che determina un nuovo comportamento che rende vera quella che originariamente era una concezione falsa”. Ti propongo anche un altro passaggio dallo stesso saggio, sulle conseguenze della profezia: “[…] gli uomini non rispondono solo agli elementi oggettivi di una situazione, ma anche, ed a volte in primo luogo, al significato che questa situazione ha per loro. E una volta che essi hanno attribuito un qualunque significato ad una situazione, questo significato è la causa determinante del loro comportamento e di alcune conseguenze di esso”.
Mi sembra che questo ragionamento si possa accostare ad un altro grande libro, anch’esso su temi contigui a quelli su cui stiamo ragionando. Mi riferisco a La grande paura del 1789 di Georges Lefebvre, pubblicato nel 1932, affascinante indagine sull’origine e sulla diffusione di una voce intorno ad una inesistente cospirazione aristocratica contro borghesi e contadini, al tempo della presa della Bastiglia. Ricostruendo la reazione difensiva scatenata da tale paura, Lefebvre scrive: “[…] quando un’assemblea, un esercito o popolazioni intere aspettano di vedere comparire il nemico, è raro che la presenza di questo non sia un giorno o l’altro segnalata”. Si tratta con ogni evidenza della profezia che si autoavvera, anche se Lefebvre non usa questa espressione. Mi piacerebbe ragionare sulle implicazioni di questo meccanismo sociale che influenza l’azione collettiva: un terreno di indagine che mi sembra molto fertile anche ai giorni nostri.
Sì, non c’è dubbio. Ho accostato I re taumaturghi di Marc Bloch e La grande paura del 1789 di Georges Lefebvre anche perché entrambi erano professori all’Università di Strasburgo, nell’Alsazia Lorena, territorio di confine che simboleggiava la vittoria della Francia alla fine della Prima guerra mondiale. Non ho trovato – ma su questo tema devo tornare – uno studio adeguato sul clima intellettuale dell’Università di Strasburgo in quegli anni. Un punto di connessione tra i due potrebbe essere lo psicologo Henri Wallon. La psicologia è certamente un terreno d’incontro fra la prospettiva di Bloch e quella di Lefebvre. Ma c’è anche un altro elemento che venne segnalato da Franco Venturi: l’elemento illuministico, ossia la demistificazione della falsa notizia. Questo è certamente vero, anche se in entrambi i casi quello che mi aveva colpito fin dalla prima lettura era il fatto che Bloch, oltre alla demistificazione, si sia proposto di capire ciò che spingeva le folle di malati di scrofola a percorrere grandi distanze per farsi toccare dai re.
Per quanto ne so, il saggio famoso di Merton non è mai stato usato in questo contesto. Nel suo modello interpretativo la falsa notizia crea le premesse di una traiettoria che la rende efficace, e perciò vera (anche se rimane falsa per chi l’ha prodotta). In un passo che non mi pare abbia attirato l’attenzione che merita, David Hume si chiese perché rituali fasulli come il sacramento dell’ordine e l’eucarestia abbiano un effetto reale: e sostenne che a renderli esemplari per l’interprete è proprio la loro lontananza dalla realtà. Dietro questo paragone si avverte, a mio parere, l’influenza di Galileo: così come il modello matematico facilita l’interpretazione perché elimina l’attrito con la realtà, la falsità di quei rituali ci permette di analizzarne l’efficacia.
Ma fino a che punto possiamo proiettare tutto questo all’indietro? Penso a quella frase straordinaria di Tacito che non mi stanco di citare, “fingunt simul creduntque” (“credono in ciò che hanno appena immaginato”), e che riassume con straordinaria concisione il fenomeno dell’auto-convincimento, che è sicuramente una faccia del problema. Per Tacito, coloro che credono a queste menzogne sono coloro che le hanno prodotte. Naturalmente è possibile che in certi casi i produttori di fake news siano vittime delle menzogne che hanno confezionato. Ma insisterei sull’idea di sdoppiamento da cui eravamo partiti: da un lato ci sono quelli che producono le false notizie, dall’altra parte quelli che ne sono vittime. Per questo citavo la pubblicità, che però appartiene all’emergere del capitalismo: non è possibile proiettarla all’indietro.
A proposito dello sdoppiamento tra produttori di false notizie e “vittime”: ci sono delle situazioni in cui questo avviene realmente? Mi viene in mente quello che accadde a Orléans, in Francia, nel maggio del 1969. In città si diffuse rapidamente la notizia di una “tratta delle bianche”: giovani ragazze entravano in alcuni negozi di abbigliamento femminile e poi scomparivano nel nulla. I negozi erano gestiti da ebrei. Notizie analoghe si ritrovano in quel periodo anche in altre città francesi.
La vicenda venne studiata da Edgar Morin e dalla sua équipe di sociologi che condussero un’inchiesta sul campo, pubblicata nello stesso anno (La rumeur d’Orléans, tradotta in italiano nel 1979 con il titolo Medioevo moderno a Orléans). Tra i risultati dell’indagine, emerge l’impossibilità di individuare una fonte originaria della notizia, qualcosa che conduca ai responsabili della sua fabbricazione. Questa forma di creazione e diffusione di una falsa notizia è connessa ad un aspetto messo in luce da Morin, secondo cui la società moderna non “racchiude al suo interno residui arcaici, ma […] produce un nuovo arcaismo; non una società che fuga i miti con la razionalità, ma che ne produce di nuovi creando nuove irrazionalità”.
Sì, questo mi convince, anche se non ho mai usato la categoria di modernità perché da un lato, mi sembra troppo vaga; dall’altro implica una cesura che, per l’appunto, viene spesso smentita.
Nel caso di Orléans mi sembra che si possa parlare di complotto diffuso. Questo è quasi un ossimoro, nel senso che siamo abituati a pensare a un complotto, vero o fittizio, che però ha degli autori. Invece in questo caso gli autori non si trovano, come se ci trovassimo di fronte a una sorta di contagio che non si riesce a ricondurre ad una fonte. Con questo torniamo al rapporto tra complotto fittizio e complotto reale che ho evocato nella prefazione a Storia notturna (1989). Il riferimento che avevo in mente era ciò che accadde dopo la strage di Piazza Fontana del 1969. “Il Corriere della Sera”, diretto dallo storico Giovanni Spadolini, indicò immediatamente all’opinione pubblica il responsabile, la “belva umana” Pietro Valpreda. Dopo di che, nel corso degli anni emerse a poco a poco che accanto al complotto fittizio attribuito agli anarchici c’era un complotto reale, organizzato da gruppi neo-nazisti appoggiati da un’ala dei servizi segreti. Mi pare che nel caso delle fake news ci si trovi spesso di fronte a qualcosa del genere: una denuncia di complotti fittizi, che nasconde la volontà di manipolare l’opinione pubblica, e quindi un complotto effettivo.
Per quanto ne so, il primo caso di complotto completamente inventato nella storia europea è la cospirazione dei lebbrosi e degli ebrei nel 1321, accusati di aver avvelenato i pozzi. Ho studiato la diffusione di queste notizie e ho visto che è molto rapida: per questo ho supposto che sia stata coordinata da un’autorità superiore. Anche in questo caso parlerei di “vecchia storia nuova”. Il complottismo è certamente un ingrediente delle fake news: ma non va dimenticato che esistono anche i complotti veri, perché, come dicevo prima, ogni complotto falso ne nasconde uno vero (come si sa, esistono istituzioni che si dedicano alla loro fabbricazione).
C’è una connessione molto forte tra le fake news e il ruolo della folla. Ho in mente il film di Fritz Lang Furia (Fury, 1936). Il personaggio principale, interpretato da Spencer Tracy, viene arrestato in una piccola cittadina degli Stati Uniti e ingiustamente accusato del sequestro di una bambina. La voce si sparge, tra i cittadini monta la rabbia, fino a che la folla inferocita assalta la prigione e appicca il fuoco. Quindi c’è un errore, cui fa seguito l’attribuzione a questo errore di un significato sbagliato, ed è su questa attribuzione di significato che la folla entra in azione, in modo incontrollabile.
Facciamo un passo indietro: Metropolis, altro film di Fritz Lang (1927) in cui la folla ha un ruolo centrale. Film straordinario, profetico, che trasmette un messaggio politico ambiguo. Di fronte a questo film Goebbels propose a Lang – che fuggì subito all’estero – di collaborare con il regime nazista. È chiaro che Goebbels aveva identificato nella finzione la possibilità di intervenire sulla realtà.
Ho introdotto il tema della folla perché vorrei parlare dell’assalto a Capitol Hill a Washington e alla piazza dei tre poteri a Brasilia. Due tentativi di colpo di stato nei quali la fake news hanno avuto un ruolo importante, anche perché supportati da due presidenti uscenti che nel corso del loro mandato e delle precedenti campagne elettorali avevano fatto uso sistematico di fabbricazione di false notizie.
L’efficacia delle false notizie, a mio parere, ha degli elementi imprevedibili. Si tratta di un’azione a vasto raggio, le reazioni che ne seguono possono essere molto diverse, e tra queste può esserci addirittura il colpo di Stato. Si creano eventi che sono fatti per essere diffusi, e la comunicazione fa parte dell’evento. Ci troviamo di fronte a una versione di “the medium is the message” di Marshall McLuhan. E tuttavia sarebbe interessante analizzare questi eventi cercando di distinguere l’elemento deliberato e quello imprevisto, dal punto di vista della comunicazione.
Come combattere le false notizie? Nella sua indagine su Orléans, Morin spiega che la diffusione della falsa notizia è stata spenta (anche se sono sopravvissuti piccoli focolai) dall’intervento delle comunità ebraiche e delle associazioni antifasciste e antirazziste. Però fa notare due elementi di debolezza nella costruzione di quello che definisce anti-mito. Il primo è che si basa prevalentemente su una forma di “intimidazione” basata sull’autorevolezza dei soggetti che hanno condotto la reazione, non su un impegno alla chiarificazione. L’altro è che l’anti-mito “ha bisogno di una struttura mitologica, omologa e antagonista a quella del mito che combatte. […] Diventa anche il mezzo di comunicazione con le strutture mentali che hanno nutrito il mito, e uno dei suoi effetti è quello di spostare l’epicentro del complotto” (in questo caso, dagli ebrei ad altri commercianti e ai fascisti, senza – tuttavia- che ci fossero evidenze in questo senso).
In questo vedo la ricerca di una confutazione sul terreno della falsificazione e non semplicemente della contrapposizione rovesciata. A questo proposito mi sembra importante una nozione giuridica, che io ho usato anche nella discussione storica: l’onere della prova. La falsificazione delle false notizie potrebbe essere ragionevolmente descritta come lo spostamento dell’onere della prova nei confronti dei nostri avversari. Questa sarebbe una mossa efficace e penso che andrebbe nella direzione di Morin, perché non si tratta della contrapposizione di un mito a un altro mito: ci si muove sul terreno dei dati di fatto.
Hai scritto che bisogna confutare le fake news attraverso una filologia applicata al digitale.
Naturalmente questa è una sorta di parola d’ordine, di difficile attuazione. Come dicevi giustamente all’inizio, perché le fake news possano funzionare occorre una disponibilità ad accoglierle. Certamente una scuola che educa alla coscienza critica rende i cittadini più impermeabili alle fake news. In questo senso l’educazione alla filologia digitale non è un programma assurdo. Penso a un tipo di educazione che promuova un uso sofisticato della rete, non solo per cercare delle risposte, come facciamo tutti, ma anche per produrre domande inattese che rinviano ad altre domande, permettendo di imbastire una ricerca. Un esperimento in questa direzione, a proposito delle false notizie e della loro demistificazione, potrebbe serbare delle sorprese.
Mi è capitato di dire tanti anni fa ad un convegno a Parigi che Google è un gigante stupido, nel senso che non impone le sue domande: siamo noi che dobbiamo imparare a formularle, partendo dalla massa di dati che ci mette a disposizione. Di qui l’idea di porre delle domande a caso, partendo da quello che tecnicamente viene definito un “rumore” da evitare, e che può rivelarsi una ricchezza inaspettata. Ma questo uso sofisticato della rete non può essere appreso dalla rete stessa: richiede dei mediatori umani, cioè gli insegnanti (oggi vergognosamente sottopagati).