Etiopia: la ferita coloniale

Estratto libero da “La memoria come pietra di inciampo”, in Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano, a cura di Federica Sossi, Ombre Corte, in corso di stampa.
Mi sono a lungo occupato della storia dell’Etiopia, un paese in cui ho vissuto e fatto ricerche per più di trent’anni fino a che l’età e le incombenze di lavoro me lo hanno permesso. L’Etiopia è il solo paese africano insieme alla Liberia non sottoposto a un vincolo formale coloniale che ha subìto tuttavia una dura occupazione militare da parte della amministrazione italiana durante il periodo fascista. Pur non avendo lo status di colonia, in seguito all’occupazione militare l’Etiopia venne inglobata in un illusorio Impero dell’AOI (Africa Orientale Italiana) con a capo il Re d’Italia, governo illegittimo e arbitrario non solo perché si sostituiva con la forza a uno Stato membro della Società delle Nazioni, ma per la ferocia dell’azione repressiva contro la popolazione etiope che da subito si ribellò e combatté il dominio italiano. Gli uomini e le donne che lottavano per difendere il proprio paese erano chiamati banditi (shifta) e non patrioti (arbegnoch) dall’amministrazione italiana. Banditen, sia detto per inciso, era il termine usato dagli occupanti nazisti in Italia per riferirsi ai partigiani della resistenza antitedesca dopo il settembre 1943.
Quando sono sbarcato la prima volta all’aeroporto di Addis Abeba nel settembre 1970, il paese era allora retto dall’imperatore Haile Selassie ultimo discendente della dinastia c.d. salomonide che per sette secoli aveva governato la regione orientale del Corno d’Africa. Dell’occupazione straniera allora si parlava poco in Etiopia, membro fondante dell’OUA (l’Organizzazione dell’Unità Africana, oggi UA, Unione Africana, aveva sede allora come oggi a Addis Abeba), ma per un visitatore straniero (ferenj) proveniente dall’Italia il ricordo aggressivo dell’occupazione fascista lo si riscontrava quotidianamente nei monumenti e nelle strade intitolate ai nomi dei patrioti scomparsi, e nei cauti avvertimenti dell’Ambasciata italiana ai connazionali di tenersi lontani dalle celebrazioni ‘antitaliane’ nei giorni delle infauste ricorrenze. Riferimenti al ‘periodo coloniale’ si potevano inoltre percepire in due altri contesti cittadini: nei discorsi dei connazionali italiani rimasti o arrivati in Etiopia nel dopoguerra con riferimento all’occupazione, improntati per alcuni da senso di colpa e per altri da malcelata auto-esaltazione, e tra le giovani leve dei nazionalismi etnici che in quegli anni davano vita ai vari movimenti di liberazione (tigrini, eritrei, oromo) che volevano liberarsi dal ‘giogo coloniale’ del governo imperiale imposto a fine secolo dall’imperatore Menelik. Era pertanto difficile non occuparsi della ‘questione coloniale’ in Etiopia, questione ibrida e intricata piena di riferimenti multipli, di revanscismi etnici e di manipolazioni politiche che plasmano la complessità di ogni colonialità ostentata o celata.
Di quel triennio di vita e di ricerca in Etiopia (settembre 1970-novembre 1973) conservo due ricordi. Il primo è che, contrariamente ai residenti italiani arroccati nel Circolo Juventus, espressione visiva di italianità locale, in quanto ricercatore venivo accolto dai colleghi etiopi come uno di loro, e sia in città che sul terreno, nei piccoli centri dell’Etiopia occidentale dove svolgevo le mie ricerche, non mi sono mai sentito ‘nemico’ o straniero, al di là dell’etichetta bonaria di ferenj! ferenj! urlatami dietro dai bambini per strada. Né mai fui coinvolto nel doloroso trauma dell’occupazione fascista avvenuta in molte famiglie etiopi con cui ero in contatto se non nei racconti dolenti di familiari superstiti o la ricerca di notizie di persone esiliate o disperse durante l’occupazione. Ne rimasi colpito: in Etiopia mi sentivo protetto dalla gente che il mio governo e i soldati del mio Stato avevano occupato e represso brutalmente. Non c’era vendetta ma richiesta di conoscenza anche in Etiopia sugli anni brutali del periodo italiano. Il secondo ricordo di quegli agitati anni Settanta marcati da forti proteste giovanili era che il target principale delle rivendicazioni studentesche di quegli anni era l’arretramento conservatore della monarchia e della Chiesa, e l’incapacità del governo imperiale di varare una riforma agraria che ridesse la terra a chi la lavorava. Down with the Emperor e Land to the tiller erano gli slogan principali del movimento studentesco di quegli anni Settanta. Le infuocate riunioni che si svolgevano nel campus dell’Università di Addis Abeba si tenevano non in amarico ma in inglese al fine di non privilegiare alcuna lingua nazionale.
Al di là dello spirito del tempo – il post-Sessantotto, l’opposizione alla guerra del Vietnam con i suoi richiami di lotta, la rivolta anti-sistema dei giovani – la questione coloniale allora si esprimeva nel supporto alle guerre di liberazione esterne al paese, soprattutto quelle in corso nelle colonie portoghesi. A livello locale, questa si esprimeva nei ricordi del passato dominio e nelle ansie della comunità italiana di Addis Abeba rispetto ai possibili cambiamenti nel paese, sia nei sogni di autonomia linguistica e culturale che si annidavano dietro le nascenti nazionalità in formazione. Poi venne il tetro periodo del Derg – il governo socialista dei militari di Mengistu Haile Mariam – che per diciassette anni (1974-1991) impose con la forza la volontà assimilatrice e totalitaria dello Stato secondo il modello sovietico promuovendo le varie componenti etnico-linguistiche del paese al ruolo di ‘nazionalità’ con diritto teorico all’autodeterminazione. Ogni forma di dissenso e di dissonanza dalle norme governative veniva represso in quegli anni brutalmente. Seguirono anni terribili di dittatura e rivolte terminate nel tragico periodo del “Terrore Rosso” (1986-88), quando i cadaveri dei morti venivano lasciati per strada per ammonire i viventi.
È difficile sottrarsi al ricordo della violenza coloniale italiana in Etiopia. Ed è significativo che tra le ricorrenze nazionali che compongono la memoria recente dell’Etiopia, ben tre date riguardino eventi di guerra causati dal governo italiano (la quarta ricorda la fine del regime socialista del Derg). Le tre date sono il 19 febbraio (1937, Yekkatit 12, il giorno dei Martiri), la strage di civili inermi a Addis Abeba a seguito dell’attentato al Generale Rodolfo Graziani; il 2 marzo (1896, Battaglia di Adua), la sanguinosa sconfitta che pose fine all’espansionismo italiano di fine secolo; e il 5 maggio (1941, il giorno dei Patrioti), il ritorno dell’Imperatore Haile Selassie a Addis Abeba a cinque anni esatti dall’entrata delle truppe italiane nella capitale. È per questo che l’occupazione degli anni trenta ordinata dal governo fascista, ci ricorda l’autrice de Il Re ombra, è ancora così viva nella coscienza diffusa del paese e nei percorsi di memoria delle molte migliaia di famiglie che ancora oggi piangono i corpi dispersi abusati insepolti dei propri cari e che oggi “esigono resurrezione” (p. 5), cioè riconoscimento, dignità e memoria per la loro lotta.
È stato in occasione del centenario della battaglia di Adua, alle cui celebrazioni l’Italia ufficiale si rifiutò di partecipare, che è riemerso lo spettro del passato. Al convegno internazionale che si tenne allora presso l’Università di Addis Abeba il 2 aprile 1996, e alle cerimonie in onore dei caduti sul campo nella città di Adua (7000 circa i morti di parte etiope, 6000 di parte italiana inclusi 2000 ascari eritrei, 1800 feriti, un pari numero di prigionieri che restarono ostaggi in Etiopia), né il governo italiano né quello eritreo mandarono rappresentanti ufficiali, segno che l’indipendenza eritrea conquistata pochi anni prima e l’irresolutezza italiana circa il mancato ritorno dell’obelisco di Aksum in Etiopia a cinquanta anni dalla fine del conflitto mondiale (tornerà nel 2005 ad opera del governo Berlusconi) stavano erodendo i rapporti bilaterali. Di più, recriminazioni regionali sul significato da dare all’espansionismo etiopico di fine secolo e la critica interna alla mancata espulsione degli italiani dall’Eritrea dopo la Battaglia di Adua erano il segnale di un disagio interno che covava da lunga data nella regione. Di lì a poco i trenta mesi di guerra aperta tra Etiopia e Eritrea (1998-2000) lungo il vecchio confine coloniale del Mareb, e la pace ufficiale che arriverà venti anni dopo subito precipitata, nel novembre 2020, in una nuova spirale di violenza, segnalavano le continue difficoltà di stabilire i confini di appartenenza e di condivisione della memoria nazionale. La ferita coloniale è tuttora aperta nella regione del Corno d’Africa e continua a mietere vite e coscienze senza che i governi ufficiali, l’Italia in primis, si prendano carico a livello diffuso e istituzionale di tale memoria e di avviare nuovi percorsi di consapevolezza critica sulle radici storiche del conflitto e sulle sue dolorose eredità nella regione del Corno.