Equilibristi
Il libro Equilibristi. Lavorare nel sociale, oggi, curato da Andrea Morniroli per le Edizioni Gruppo Abele, si pone nel dibattito su come vent’anni di politiche liberiste e quattro di crisi economica abbiano radicalmente cambiato lo scenario del lavoro sociale. Pur con colpevole ritardo (nei tempi delle vacche grasse il terzo settore raramente si è interrogato sul senso del proprio agire), oggi il privato sociale, il terzo settore, si trova a riflettere su come mutare il proprio ruolo per poter sopravvivere e trovare un senso nel nuovo scenario, fatto di drastico calo dei finanziamenti pubblici, di sostanziale disinteresse nell’investire risorse in servizi destinati alle fasce deboli della popolazione, di un rapporto in molti casi degenerato tra le imprese del terzo settore e la pubblica amministrazione.
L’aspetto che più mi pare interessante del volume è il tentativo, portato avanti in alcuni dei saggi che lo compongono, di affrontare la crisi del sociale e il ruolo degli operatori anche da una prospettiva politica, cercando di sviscerare i molteplici aspetti di questa cruciale questione. E proprio su queste riflessioni vorrei focalizzare l’attenzione.
Le premesse sono certamente condivisibili: fin dalle prime pagine Andrea Mormiroli esplicita l’esigenza da cui muove il libro, cioè quella di ripercorrere attraverso un racconto onesto la storia del terzo settore per individuarne non solo le potenzialità inespresse, ma anche gli errori, le contraddizioni che hanno portato a questa situazione. Non solo quindi una analisi sulle cause esterne (di natura politica o economica), ma anche un’autocritica. Essersi lasciato schiacciare nella polarizzazione tra servizi in vendita a chi può accedervi e la filantropia (e la repressione) per chi invece è marginalizzato e fuori dal mercato; aver rinunciato alla rivendicazione “positiva” del proprio ruolo, del senso (anche economico, perchè la prevenzione costa meno della repressione) che avrebbe oggi investire nelle politiche sociali e nel welfare; essersi adeguato al compito di blando contenimento dei problemi sociali; aver rinunciato ad un’ottica di liberazione ed emancipazione in favore di un logica assistenziale e cronicizzante: fin dalle prime pagine l’analisi muove da considerazioni lucide e radicali sul contributo che anche il terzo settore ha dato all’attuale disastrato panorama.
Purtroppo il saggio introduttivo e i seguenti mi sembrano meno centrati nel delineare le strade da percorrere, le strategie da imboccare, le azioni che possono garantire un rinnovato senso al lavoro e all’impegno sociale. Come dicevamo, la politica. Da un lato il ruolo che la politica ha avuto nel delineare l’attuale crisi e quello che dovrebbe fare per uscirne, dall’altro la necessità che chi lavora nel sociale recuperi la dimensione politica del suo agire. Per quanto riguarda il primo aspetto diversi contributi contenuti nel libro indicano ciò che gli amministratori dovrebbero fare per cercare di invertire la rotta. Porsi come coordinatori e regia del privato oltre che erogatori diretti, favorire le relazioni d’aiuto spontanee cercando di limitare il meccanismo di delega, cercare di ridurre gli interventi e le logiche assistenzialistiche, favorire il protagonismo delle comunità nel farsi carico dei propri problemi, lavorare sulle reti sociali, ecc. Tutte indicazioni sensate e condivisibili, frequentemente evocate da tanti amministratori, ma che spesso restano lettera morta, oppure una facciata per coprire tagli e riduzioni di spesa.
Il vero problema (purtroppo ignorato quasi del tutto dal libro) è infatti quello di una classe politica e amministrativa estranea a queste logiche, radicalmente disinteressata ad affrontare queste questioni. Oppure completamente impotente, quasi senza strumenti per intervenire, vista la situazione sempre più compromessa degli enti locali. Inoltre nel libro è assente la questione cruciale della ipertrofia burocratica che attanaglia il lavoro sociale come tanti altri ambiti di intervento: sempre più spesso le politiche che dovrebbero tradurre questi principi e processi in teoria condivisibili e sensati viene realizzata attraverso un moltiplicarsi assurdo delle procedure e della documentazioni che non solo vanifica le premesse di quei provvedimenti, ma blocca e inibisce l’efficacia dei servizi e il lavoro degli operatori coinvolti.
Mi sembra insomma poco utile limitarsi ad individuare il “cosa fare”, senza porsi il problema di “chi” e “come” debba farlo, cioè di come lavorare a un profondo rinnovamento della cultura e del dibattito politico, a partire dal livello locale.
Strettamente legato a questo aspetto c’è poi il ruolo politico che l’operatore dovrebbe recuperare. Il libro analizza questo recupero attraverso la consapevolezza che l’operatore deve trovare anche nei confronti del contesto in cui agisce, cercando di intervenire non solo sul disagio degli “ultimi”, ma coinvolgendo anche i “penultimi”, lavorando sulla ricucitura del tessuto sociale mai come oggi imbarbarito e lacerato dalle tante “guerre tra poveri” che attraversano le nostre città e le nostre periferie. C’è inoltre la questione dell’erosione dei diritti sociali: l’operatore si trova a lavorare in contesti di progressiva inesigibilità di diritti sociali ed economici, deve perciò avere consapevolezza di questo e agire su questo piano per cercare di guadagnare un po’ del terreno perduto, anche stringendo alleanze con i destinatari (i cosiddetti “utenti”) di quei servizi sempre più risicati. C’è infine il ruolo che l’operatore dovrebbe avere nel vigilare e denunciare storture e degenerazioni: il ruolo di “sentinella” che faccia da argine alle dinamiche clientelari e corruttive che purtroppo caratterizzano molti rapporti del privato sociale con il pubblico. Anche qua mi trovo d’accordo con l’analisi (pur mancando completamente il quadro macroeconomico che solo può spiegare i rapporti di forza che stanno dietro a questo progressivo spostamento di risorse a sfavore dei più poveri e di chi si occupa di loro) e con gli obiettivi (eccezion fatta per l’ennesimo, inutile appello a “comunicare meglio” il lavoro che si fa in più parti del volume), meno convincenti ci sembrano le soluzioni proposte. Quasi mai nel libro (con l’eccezione del saggio di Giacomo Panizza) viene evocato un ruolo critico e conflittuale che l’operatore (e le organizzazioni del terzo settore) possono e debbono avere nei contesti in cui operano. Come se dare vita ad alleanze con i marginali e gli esclusi per rivendicare l’attuazione dei propri diritti, lottare contro le degenerazioni nel rapporto tra privato sociale e pubblica amministrazione, contrastare le lacerazioni e le divisioni che oggi attraversano i contesti in cui gli operatori lavorano, boicottare le perversioni burocratiche che attanagliano il lavoro sociale fossero realizzabili solo “socialdemocraticamente”, senza momenti di conflitto e scontro, di auto organizzazione e auto determinazione radicale e “altra”.