Educazione mafiosa ed educazione “normale”
Da circa un secolo e mezzo quelle mafiose sono tra le rare famiglie rimaste costanti nell’educare in proprio i figli e le figlie. Alla scuola li mandano esclusivamente per istruirsi. Educare alla mafia è una pedagogia coniata sperimentata e trasmessa da loro, è un sapere che tramandano di generazione in generazione obbligatoriamente, altrimenti quei modelli di “famiglia” cesserebbero di esistere. I clan delle varie mafie meridionali sono flessibili e si ammodernano su tanti aspetti ma non sull’educazione dei loro componenti. La delegano a nessun altro oltre la parentela più prossima. E più fidata. Ci tengono di più, e snobbano quella proposta dalla religione e a quella offerta dalla scuola e dalla patria.
I clan mafiosi effettuano un’educazione totale, dura, mortale. Sembra un controsenso moderno, ma ci sono adolescenti e giovani non appartenenti a famiglie mafiose che cercano i clan, attratti da certi stili di vita dei coetanei e dei più adulti. Altri giovani cercano i boss per bisogno di una paghetta perché disperati, altri sono infatuati da ruoli e personaggi seguiti nei programmi televisivi, altri ancora sono succubi del mito del denaro facile, dall’uso delle armi e dalle grosse moto o automobili in uso quando mettono a segno i loro tipici colpi criminali.
Molti adolescenti e giovani non sanno a cosa vanno incontro entrando sotto giuramento in un clan mafioso, mentre in alcune città italiane (come Napoli o Palermo o Milano e Roma, ma anche in altre e all’estero) vi sono giovani che si muovono in gruppo imitando i malavitosi delle fiction, dei film e della realtà i quali dicono di sapere a cosa vanno incontro ma non gli importa la vita perché l’hanno già buttata via. Per genitori ed educatori, la Chiesa e la polis, questi sono figli e giovani definitivamente perduti? Sembrano meno umani di certi personaggi della saga di Twilight amati dal mondo adolescenziale, però sono veri, come sono vere le azioni criminali che compiono, come sono reali le cornici mentali e i valori che li guidano. Come purtroppo è vera l’assenza non di aule e scuole ma di maestri e maestre dediti a loro.
Tra i giovanissimi che incontro ve ne sono parecchi che pensano sia facile entrare in un clan mafioso. Che basti farsi avanti. Farsi vedere “bravi” e disponibili. Invece non conoscono le intenzioni dei mafiosi, secondo le quali solo i mafiosi stessi i soli che possono scegliere chi inglobare nei loro clan. Solo loro selezionano i minorenni da mandare allo sbaraglio, a commettere reati di poco conto (come portare una bottiglia incendiaria davanti a una saracinesca o infrangere i vetri di un negozio o bucare le gomme di un’automobile, eccetera) per non andarci di mezzo loro stessi. Ai giovani di famiglia “regolare” che vanno in cerca di chi li “battezzi” nel clan, bisogna impartire l’istruzione che sono i mafiosi che li vagliano in base alle loro incapacità a ribellarsi ai capi e per le loro predisposizioni a farsi comandare da un’autorità forte. Occorre insegnargli che li preferiscono perché sfruttabili, perché senza pensieri e parole, senza sentimenti profondi perché così non sanno il male che fanno, senza il potere di rivoltarsi contro colui che diventerà il loro mandante di azioni criminali anche innominabili. Li includono nel clan perché sono certi che essi sono incapaci di sostituirli al comando o di formare un altro locale mafioso. Alcuni di questi, al fine di preservarli dall’educazione alla mafia che riceverebbero dai ragazzi di “famiglia” mafiosa rinchiusi nella stessa cella della prigione, d’accordo col tribunale, li accogliamo in vari servizi della nostra comunità in alternativa al carcere dove per un periodo svolgono un servizio di utilità sociale, attuando una misura prevista dalla giustizia riparativa.
Una sera sono andato al cinema con un adolescente “in carriera”. Così ne ho scritto in La mafia sul collo (Edizioni Dehoniane 2014):
Nel buio della sala, il personaggio “buono” del film western è in affanno, aggrappato allo stipite della porta del treno che sfreccia nella prateria. Il “cattivo” se la sta svignando attraverso le carrozze posteriori senza colpo ferire. “Vai vai, menalo”, tuona all’improvviso Giuseppe, seduto accanto a me. “Uccidilo! spaccagli le mani!”. Non avevo mai visto nessuno indignarsi tanto col “cattivo” perché scappa con i soldi senza aver prima eliminato il “buono”.
Quella sera Giuseppe aveva da poco compiuto 17 anni. Poiché era minorenne, il giudice l’aveva affidato in prova al nostro Gruppo appartamento alternativo al carcere, al fine di poter vagliare al meglio le sue eventuali possibilità di sganciamento e riabilitazione da quel gruppo criminale di stampo mafioso formato da adulti insieme ai quali era stato catturato al Passo Aquavona, sopra Lamezia Terme, durante uno scontro a fuoco coi carabinieri.
Al rientro gli ricordai il tifo accalorato che aveva espresso durante certe scene del film. Si era identificato negli avversari degli “infami della legge” e in quel modo aveva fatto emergere il suo preciso quadro valoriale su come si sta al mondo. Ci credeva. In sintesi, mi spiegò che nessun Gruppo appartamento o carcere minorile o degli adulti né altro avrebbe potuto fermare i giovani di ’ndrangheta. Per la prima volta in vita mia capivo che non stavo ascoltando parole sulla mafia ma dalla mafia. Era giovanissimo. Non aveva concluso le scuole dell’obbligo ma si notava che alla scuola della mafia era stato educato e aveva imparato benissimo.
Dopo quell’episodio, solo rare volte ho avuto la sensazione di ascoltare parole di mafia dal di dentro. Sensazione che ho provato anche leggendo Anime nere di Gioacchino Criaco (Rubettino 2008).
A quel tempo ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte (…) Il porco camminava tranquillo, non aveva mai chiesto soste acqua o cibo, così arrivammo prima del previsto (…) La mattina seguente, come sempre, prendemmo l’autobus delle 6 e 30 che ci portava in città ai banchi del liceo, dove ci ritrovammo, seduti, ad affrontare cinque ore di lezione. Tre studenti normali.
I tre giovanissimi protagonisti frequentano il liceo e le operazioni di sequestro. Imparano a due scuole: la prima – il liceo – serve per apprendere saperi tecnici e funzionali, mentre la seconda – fatta di sequestri, omicidi, traffici di droga, carceri, eccetera – fornisce i saperi basilari della vita.
Libri come questo aiutano a comprendere l’humus culturale delle mafie andando oltre la loro dimensioni militari e di business arrivando fino alla cultura, ai modi di fare, alle scelte di vita. Come è stato per Gomorra di Roberto Saviano. Sono pagine che illuminano il lettore sulle chiavi interpretative di un quotidiano rimosso ma ben attuale, che polarizza e indirizza i giovani mafiosi “di famiglia” e anche altri, perché la mafia insegna, forma ed educa anche oltre i perimetri dei clan, insinuandosi fin dentro le famiglie “normali”, nel senso di ordinarie. Quelle che, tacendo, consentono alle varie mafie di spadroneggiare. Infatti, i luoghi d’incidenza delle loro interazioni educative sono le situazioni reali: ieri la famiglia e il territorio, e oggi, con la globalizzazione, vi hanno aggiunto il mondo.
Dentro la mentalità comune confluiscono più forme di mafiosità: quella dei boss e quella delle donne di mafia, quella dei giovani in carriera nelle cosche e quella degli altri giovani, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città, dei territori e – finanche dopo la scomunica palese di papa Francesco ai mafiosi – ancora delle Chiese. Tutto ciò non accade per caso. Si esprime attraverso regole “educative” forzate, piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, non certo della crescita umana dei suoi giovani componenti, per i quali è stabilito che sia secondario persino il sentimento di amicizia.
Rivolte all’interno come regolamenti rigidi, queste norme si impongono nelle comunità locali. Esse insegnano ai giovani il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali, quali il riscuotere il pizzo, mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, ottiene fiducia e fa carriera interna (sempre sotto vigile controllo). L’educazione dei giovani criminali avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano e dimostrano che uno sparuto gruppo di persone riesce ad “ammaestrare” interi quartieri e intere città. Specialmente le città omertose.
Un giorno, in una scuola dove l’associazione anti-racket tiene delle lezioni sul tema della legalità, la preside ha invitato alcuni del gruppo a presenziare in occasione della convocazione di un boss, perché suo figlio, di terza media, faceva il “piccolo boss” coi coetanei. Nella sala docenti la preside stava con tutti i professori e dovette dire al padre di questo ragazzo: “Signore, purtroppo suo figlio a scuola fa il prepotente (mai detto che fa il mafiosetto) con gli altri alunni”. Come immediata risposta, il papà va diritto dal figlio e gli molla una sberla vigorosa, ricordandogli: “Che cosa ti ho insegnato io? Che queste cose a scuola non le devi fare!”, poi ha precisato: “È fuori che le devi fare!”.
Non si scappa; i mafiosi educano perché guardano al futuro della “famiglia”. Sanno le probabilità di venire imprigionati, sanno i rischi di doversi nascondere da latitanti come i vermi sotto terra, per non venire catturati, e altre cose note ai film e alla letteratura… Sanno di avere vita breve e trasmettono in fretta e con forza i loro “saperi”. I clan educano. Sì, educano, perciò vi sono mamme che vogliono scappare via da questa educazione, altre mamme che si sottomettono nel clan, altre che emulano i capi, altre donne della parentela che stanno attente a come parlare. In generale, in questi ultimi anni, vi sono donne che si vanno differenziando da loro ruolo tradizionale di mero supporto ai maschi e di educatrici dei figli alla vendetta.
Anche i giovani “di famiglia” odierni, rispetto al recente passato, non stanno più solo a imparare dai vecchi. Oggi hanno più opportunità, a loro volta padroneggiano strumenti utili per poter insegnare cose ai genitori, ai capi, ai boss, perché come i loro coetanei hanno famigliarità con i linguaggi e i saperi digitali, capacità specifiche di contabilità, ragioneria, partita Iva, finanza, fiscalità, acquisite a quella “scuola normale” che pare sempre più incanalata a istruire tanti giovani ma a educarne pochi. I vecchi boss, meravigliati, innovano l’organizzazione criminale sfruttando al “meglio” i loro giovani figli.
(da Cattivi maestri. La sfida educativa alla pedagogia mafiosa, Edizioni Dehoniane)