E sarà…come prima
La favola di Arlecchino,
Arlecchino e Colombina
San piangere, san ridere
Ma soltanto con la mascherina
(Gino Paoli, 1960)
Far finta di essere sani,
far finta di essere…
(Giorgio Gaber, 1973)
Prima del pandemonio della pandemia, in molti pensavano – e qualcuno lo diceva – che “non si poteva più andare avanti così”. Anzi, “Così, così, così…” col tono e il ritmo della battuta di Filomena Marturano, senza il bisogno di spiegare il cosa e il come e il perché. In coscienza ma anche per diretta conoscenza, si sentiva di essere arrivati a un punto terminale, al limitare dell’orizzonte del Troppo Consumo e del Tutto Spettacolo. Pressavano certamente le Grandi Ragioni ecologiche ed economiche con le loro incombenze e le nostre impotenze, ma ancora più pesavano i Piccoli Motivi di una vita personale e sociale spinta al vano inseguimento dell’immarcescibile progresso, che appunto “andava avanti” come diceva e voleva la sua pubblicità… Ci diceva e ci voleva consumatori a tempo pieno e spettatori a mente vuota, in un Mercato diventato dimensione globale ma anche istituzione totale. Sia chiaro, nessuno aveva niente in contrario: il rigetto critico da molti dichiarato, era spesso soltanto un reflusso esofageo dovuto all’indigestione commerciale e spettacolare che ci fa sentire insieme sudditi e sovrani.
E però, in quell’interminabile tramonto che ha preceduto la nottata della pandemia, tutti cominciavano ad avvertire o finivano per provare la sensazione di correre a senso unico in un vicolo cieco, e dunque di temere di sbattere su un muro o peggio di cadere in un abisso… Si cominciava a chiamare “mancanza di futuro”, e si era presa l’abitudine di riferirla ai giovani dal domani incerto, anche se poi – come si sa – “domani è un altro giorno”, poiché la via col vento del progresso garantisce a tutti “una seconda opportunità” e assicura – perfino ai moribondi dei film americani – che “andrà tutto bene!”
In effetti andava alla grande, anzi alla grandissima nell’eterno come prima ritrasmesso in differita dalla tivvù per tutti i mesi dell’Io resto a casa: non solo vecchi film, ma repliche di recenti giochi a quiz e chiacchiere con pubblico dal vivo (si fa per dire) e antiche panoramiche delle immense adunate dei concerti pop o delle partite d’altri tempi, rimesse in onda per i patiti della storia del pallone. Per tutta la Fase Uno, isolati e immobili sui divani e sofà, si è provata insieme noia e meraviglia per la grande quantità e la poca qualità dei programmi registrati “prima del decreto”, ma anche un inconfessabile crescente disagio nel rivedere tutta quella gente che c’era in giro “una volta”. Quella volta in cui tante volte sarà venuta a tutti la voglia di fuggire Via dalla pazza folla!
Altro che assembramenti! Fra manifestazioni di piazza e traffici in strada – e gite scolastiche e fiere alimentari e festival intellettuali – c’era stato un tempo recentissimo e lunghissimo in cui l’Evento e l’Avvento facevano rima e ressa ovunque, con quote e frequenze che – a ben ricordare e meditare nella casa dove si era confinati – facevano francamente più paura che nostalgia.
Ma davvero Prima si viveva in così tanta compagnia ed eccessiva frenesia? Durante i mesi di assenza e di astinenza ci si scopriva a chiedersi se davvero era quella la Normalità a cui si voleva o peggio si doveva tornare…
Più di prima…
Così, nel tempo sospeso e nello spazio chiuso della tirannia di un virus (che ancora ci assedia fisicamente, ci domina psicologicamente e infine – o in primis – ci governa politicamente), ci si è dibattuti tra le due opzioni del Prima e del Dopo da scegliere, anche se i due avverbi formavano un nodo impossibile da sciogliere. Nella contingenza o emergenza da superare, il prima o il dopo per tutti pari sono, ma però (che non si dice) sotto sotto continuavano a dividersi fra un passato da restaurare e un futuro da reinventare. Se cioè in verità Tornare come Prima o Avanzare verso il Dopo erano due modi di dire e sperare la stessa cosa, in mentalità parlavano lingue di diverso accento e di opposto significato. E non c’è stato nessuno che non abbia preso partito fra un dopo e un prima entrambi da raddoppiare in durata e profondità: l’uno verso la fantascienza e l’altra vicina alla rimembranza… L’isolamento e la sospensione avevano riaperto la battaglia fra il futurismo che si è sempre sognato di costruire e il passatismo che ci sembrava di poter rivivere. Più che una battaglia divisiva era un intimo dibattimento condiviso da tutti, che da un lato o emisfero cerebrale pensavano di rilanciare le meravigliose sorti progressive di un futuro in salute e in sicurezza, in distanza controllata e tecnologia raffinata; intanto, l’altra parte del cervello, o forse del cuore, era appagata dal rivedere il cielo terso e il mare trasparente e – sia pure dalla finestra – la migliore primavera degli ultimi decenni di impazzita meteorologia.
Nel mentre e nel dove della prigione domestica e della città proibita, chi non ha elogiato le strade vuote e il canto degli uccelli e il silenzio dei sensi e la pace dei rumori? Insomma, c’era “qualcosa di nuovo, anzi d’antico” da apprezzare e godere, se è vero poi che chi si contenta gode. E il proverbio non riguardava solo un paese per vecchi, ma anche il mondo dei ragazzi tornati in famiglia e perfino il presepe dei bambini acceso di sguardi e di cure – checché ne dicano o maledicano i tanti allarmati pedagoghi. Insomma, fra amarcord senili e stupori infantili, il “più di prima” è stato un efficace placebo per tutta la quarantena, regalando a tutti consolazioni spesso scambiate per originali scoperte e riflessioni. Prima fra tutte la Vacanza che è infine sorella del Vuoto ma, per i più colti e i più ricchi, cugina dell’Ozio virtuoso: non il padre dei vizi, ma l’otium latino della tranquillità e creatività contro il negotium peraltro chiuso e il suo vile denaro e infine il giusto ma pur sempre sporco profitto.
Ebbene sarà stupido pensarlo e confessarlo, ma c’è stato un tempo in cui il nemico invisibile è sembrato un giustiziere, ed è andato per così dire in trascendenza: c’è stata cioè gente per cui il demone del virus ha fatto ritrovare alla superstizione il suo status e significato etimologico, proprio mentre la religione se la passava male: la devozione era stata sospesa e la liturgia era preghiera nel deserto. Come si ricorderà, rare funzioni e processioni e funerali hanno alimentato focolai ma anche tenuto in vita fuochi fatui di fede: a memoria di telespettatore ne ricordo uno per tutti, subito spento, nella chiesa di San Vigilio a Pinzolo in Trentino, dove alcuni devoti e un prete sono stati multati anche se rispettavano la distanza di sicurezza. Lo ricordo perché sulla facciata di quella chiesa, c’è un dipinto del Cinquecento, un famoso trionfo della morte con in basso la didascalia di un canto devozionale che comincia così: Io Sono La Morte Che Porto Corona, Sonte Signora De Ogni Persona…
Adesso che, con il referendum del 3 giugno, la monarchia assoluta del Coronavirus ha ceduto il passo alla repubblica dei mille comuni e signorie, non sarà tuttavia facile dimenticare il suo “contagio” ideologico, che ha indotto nuove abitudini e, soprattutto, ha sedotto il pensiero. Non c’è nessuno che nella fase uno non abbia pensato di pensare, creduto di sapere, convinto di dover dire e fare e lettera e testamento – proprio come in penitenza. La clausura (ma anche la paura) induce in meditazioni o tentazioni a cui si fa troppo affidamento, sentendosi tutti un po’ dottori dell’anima, una volta abbandonato il corpo alla mercé o alla grazia del rione sanità…
Ma poi non è vero che, nei mesi passati in solitudine o peggio in famiglia, si leggesse tanto e si riflettesse meglio: ciascuno dovrebbe anzi fare la tara di quello che lo ha nutrito o distratto, illuso o deluso, nei lunghi giorni detti del “sacrificio” o della “responsabilità” o perfino di un patriottico eroismo (almeno a contare e cantare i tricolori dei balconi). Le informazioni e le discussioni e le opinioni che ci hanno ispirato o messaggiato sembravano tutte vere, ma solo per poco e poi per pochi e infine per nessuno: proprio come si fa dopo una vacanza (per di più forzata), bisognerebbe mettersi a dieta invece di montarsi la testa.
Tanto più perché, come al solito, “niente sarà come prima”, ma al contempo – per citare il giovane Brecht – “Non vi fate sedurre (…) ché non c’è niente, dopo”.
Il peggio viene dopo?
Non c’è niente dopo che non ci sia già stato prima: “Non ci sveglieremo, dopo il confinamento, in un mondo nuovo, sarà lo stesso, un po’ peggiore” – dice lo scrittore Houellebecq in un’intervista. Ed è vero che il proverbiale “al peggio non c’è fine” funziona, ma soltanto quando può vantare un accertato lontano inizio. Così la “disumanizzazione”, di cui pochi si lamentano e nessuno si allarma, ha avuto una lunga incubazione tanto trascurata quanto festeggiata: il non-umano è anzi la paradossale caratteristica dell’era attuale, detta dell’Antropocene perché appunto realizza la nostra definitiva egemonia e rovinosa dittatura… Il trionfo dell’uomo e il collasso del mondo sono da tempo la stessa faccia di una “moneta” che ci domina da lungo tempo e per omnia saecula (se è vero che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”).
Ma non riapriamo la querelle se conta più l’economia o basta che ci sia la salute: se lasciamo perdere i fini e restiamo ai mezzi e ai dettagli che condizionano l’arte del vivere quotidiano, si scopre che c’erano già prima tutte le novità e le quantità che si stanno riproiettando nel dopo, sia pure con modifiche e rettifiche e perfezionamenti avveniristici. Prima c’erano già le miracolose tecnologie che sostituivano i contatti reali moltiplicando le connessioni virtuali; prima c’erano già quelle istituzioni e attenzioni e ossessioni salutate da tutti come salutari… anzi come “sanitari”. E prima di tutto o dopo tutto (che è davvero lo stesso), l’emergenza o meglio l’emersione del Coronavirus ha solo normato la normalità di una distanziazione sociale già interiorizzata.
Non facciamoci autoingannare dall’ipocrisia degli abbracci rimpianti o dei parenti distanti: ciascuno ha diritto al suo dolore intimo e caso particolare, ma la lontananza o l’indifferenza delle relazioni umane è da tempo la legge generale implicita nella vita “civile”. Certo, la coreografia delle code davanti ai negozi può fare effetto e dare fastidio, e però – come si è visto, e subìto – l’esercito dei benpensanti e bencomportanti ha tenuto la guardia ben più alta delle poche furbe e disinvolte infrazioni. Rispetto alla nuova prossemica, soltanto i giovani si sono mostrati insofferenti e desiderosi di ritrovare il gruppo o il branco – ma anche l’orario notturno e il locale esclusivo – che infine li distingueva e li salvava dall’invadenza o dall’indifferenza dei predecessori e progenitori. Tutti peraltro impegnati a imitarli e inseguirli dentro la “movida”, l’unica parola straniera non inglese che sia subito passata nella lingua “all’italiana”. In fondo, la paura fa solo novanta e ha i giorni contati, e sono già passati.
Si è gridato allo scandalo, anzi al reato di assembramento, come non fosse prevedibile che dopo mesi di nascondino arrivasse un libera tutti almeno per i più nervosi o curiosi. I mille signori e governatori di un’Italia tornata al tempo del Congresso di Vienna hanno tutti avuto da dire e da fare cento disordinate ordinanze, per ricordare che la “fase due” – e non ci sarà due senza tre – è quella della convivenza con il nemico invisibile: una faccenda complicata, visto che si può andare al bar e al ristorante, in chiesa e al museo e infine si spera “in ogni luogo”… ma soltanto con la mascherina. “Zitti zitti, piano piano” come in un’opera buffa, ci si sta infatti ancora muovendo a passi felpati spiando gli altri attori, e sperando che il virus non se ne accorga e non ci segua dal barbiere o dal pasticciere che sono le prime vere urgenze, e poi perfino a casa di amici ma ancora senza poterli toccare. E quindi, da giugno, non ci accompagni da una regione all’altra, e al mare e in montagna, e si dice anche al cinema e al teatro (se poi sarà ancora in vita qualche attore) e in ultimo anche a scuola, dove – come recita Pinocchio – “voglio subito imparare a leggere, domani poi imparerò a scrivere, e domani l’altro imparerò a fare i numeri…”.
Riparte infatti a settembre la scuola “in presenza” – ha deciso la ministra dalla penna rossa e i capelli turchini – anche se qualcuno dovrà stare “in assenza”, ma giustificata e in connessione. Una scuola “in sicurezza” – si dice – e dunque con banchi di contenzione? divisori di plexiglas e visiere? classi di dieci per volta? e al bagno? e dal preside? e la sospensione? e la ricreazione?
Roba dei miei tempi, ormai vecchi quanto il libro Cuore: adesso del cuore in nessun modo e del corpo poco, con il rischio di indebolire la testa cioè il suo organo più importante. Ma nessuna paura, la testolina dell’Azzolina non è sola: fior di esperti e frutti maturati in anni di innovazioni e sperimentazioni stavolta riusciranno nell’eterna impresa di fare una scuola moderna dove – come sempre – tutto tornerà come dopo.
Il senno di poi
Intanto, nel nuovo abbecedario, continuano ad affacciarsi nuove parole che meno si capiscono e più sono facili da usare: una per tutte, la più confusa e diffusa, “sanificare”. Nel dizionario di Google (e quale altro sennò?) si trova la seguente definizione: Sottoporre a sanificazione. Quindi, proseguendo: Sanificazione: il complesso dei procedimenti e delle operazioni di Sanitizzazione. E allora, Sanitizzazione: trattamento che fa parte dei processi di Sanificazione. E finalmente si spiega che tali processi riguardano gli alimenti che vanno conformati “alle norme igieniche vigenti”.
Dagli alimenti agli ambienti, non si sa poi con cosa (e qualcuno si chiede anche perché) si irrorano pavimenti e si strofinano tavoli e sedili e maniglie con procedure frettolose e rituali e infine devozionali, tanto che a un virologo di fama – anche se francese – è scappato di dire che in fondo tutta questa allerta operativa è “poco più di una superstizione”.
Il fatto è che la Medicalizzazione da strategia si è fatta ideologia di massa, e genera una fede eccessiva che non chiede più la Grazia ma pretende la Salvezza. E l’altro fatto complementare è una sorta di affezione all’infezione, una specie di sindrome di Stoccolma che passa di virus in virus pur di non far cessare uno stato permanente di allarme che dà valore alla vita. Colpisce l’osservazione di una virologa – stavolta italiana – letta su un quotidiano a metà maggio: “Si percepisce sui social, ma anche parlando con la gente, una sorta di strisciante necessità di essere minacciati da catastrofi globali. (…) Psicologi e sociologi dovrebbero, se ancora non lo fanno, cercare la causa di una sindrome che ormai si è diffusa in tutto il mondo, cioè la necessità di vivere in uno stato di panico sociale”.
No, non lo fanno; anzi molti di loro fanno il contrario, confortando casi o raccogliendo dati a sostegno della Prudenza e Fortezza e Temperanza in attesa di una Sapienza che nessuno ancora ha. I medici sono ancora una volta i più onesti. Loro sanno di non sapere e spesso lo dicono, ma la fede nei medici è ormai passata da dominante a incontinente. Non per via dei miracoli e degli eroi, ma perché non ce n’è più un’altra in giro: inutile sperare in una qualunque filosofia che non sia quella del tirare a campare e del voler guarire anche prima di essere ammalati. La medicina – o come si dice adesso, la Scienza – sta correndo un gran rischio, perché il suo sapere e potere è inferiore al volere dell’utente, che è paziente ma anche impaziente…
Ebbene, un paziente come me, che per motivi sanitari (e fino a ieri con autocertificazione) si fosse trovato a viaggiare in treno da Roma a Firenze poteva leggere, poco prima, dell’arrivo una scritta sul muro dell’argine dell’Arno: ora pazienza, poi disobbedienza.
Chissà se per una volta potesse servire, o si potesse seguire questo senno del poi?