Dune, o la fantascienza che non invecchia
All’inizio del Novecento la città di Florence in Oregon, affacciata sull’oceano Pacifico, stava affrontando un’imprevista crisi ambientale. Le dune di sabbia della costa, sospinte dai venti oceanici, stavano invadendo l’entroterra, a volte ricoprendo strade in poche ore o accumulandosi sulle abitazioni nel corso della notte. Il problema era così preoccupante che l’amministrazione cittadina decise di intervenire introducendo nell’ecosistema una pianta graminacea, ammophila arenaria, nota anche come sparto della sabbia: nient’altro che l’erba cespugliosa che cresce sulle coste del Mediterraneo. L’azione combinata delle radici delle piante intrecciate sotto la sabbia e degli steli che si sviluppavano in altezza avrebbe trattenuto le dune al loro posto. Così iniziò un massiccio lavoro di trapianto dello sparto, che avrebbe richiesto diversi anni per raggiungere l’estensione e la densità necessaria ad arginare le dune. Ma il piano funzionò. Forse anche troppo.
Nel 1957 a Florence arrivò in visita Frank Herbert, giornalista trentasettenne incaricato di preparare un articolo su questo progetto di ingegneria ambientale. Herbert negli anni precedenti aveva scritto alcuni racconti di fantascienza, pubblicati sulle riviste pulp di settore come “Astounding”, “Amazing” e “Startling Stories”. Aveva quindi la mente allenata a cogliere gli spunti dalla realtà e trasportarli in storie che li portassero in direzioni estreme. Quello che vide a Florence lo sorprese oltre ogni aspettativa: They Stopped the Moving Sands, era il titolo dell’articolo che iniziò a scrivere, che però non venne mai pubblicato. In compenso, diede all’autore materiale a sufficienza per pensare a quello che sarebbe poi diventato Dune, il romanzo di fantascienza più venduto della storia, un’opera che a distanza di sessant’anni ha ancora molto da dire (e continua a farlo anche grazie al recente adattamento cinematografico di Denis Villeneuve).
L’esperienza di Florence permise a Herbert di focalizzare la sua attenzione su un problema che non aveva mai considerato in modo approfondito: la relazione tra uomo e ambiente, in particolare nel caso di ambienti ostili. Come racconta lui stesso nell’introduzione al romanzo, iniziò a studiare tutto il materiale reperibile sulle popolazioni che abitano i deserti della Terra, e giunse alla conclusione che a differenza dei popoli “civilizzati” che praticano l’agricoltura, queste comunità più ristrette e apparentemente frugali stabiliscono un equilibrio unico con l’ecosistema di cui fanno parte: il bilancio tra l’energia prelevata e immessa nel sistema rimane sempre in pareggio.
Il tema ecologico è quindi l’innesco di tutto l’universo narrativo di Dune, ed è uno degli elementi che rende questo libro ancora attuale. Ma la vera universalità del racconto viene raggiunta quando questo tema si intreccia agli altri presenti nel libro. In Dune abbiamo forze opposte che si contendono l’unico pianeta su cui si trova la spezia, da cui dipende il funzionamento dell’intero Imperium galattico, a discapito della popolazione locale. Nell’epoca in cui Herbert scriveva si iniziavano appena a notare i primi indizi di quello che oggi chiamiamo cambiamento climatico, e non esisteva ancora un vero e proprio filone della climate fiction, eppure Herbert parlava proprio dello sfruttamento senza controllo di un ecosistema, una situazione che a distanza di sessant’anni ci appare estremamente familiare. Ci troviamo di fronte a una storia in cui ecologia, politica ed economia sono tutte interconnesse, ed è impossibile affrontare le questioni da un solo punto di vista.
Questa costruzione complessa e profonda rende l’universo di Dune uno dei più realistici mai costruiti da uno scrittore. Partendo dall’idea di adattarsi alla vita in un deserto estremo arriviamo ai fremen, i nativi abitanti del pianeta Arrakis, noto anche come Dune. I fremen sono stati modellati da Herbert come una popolazione in equilibrio con l’ambiente, ma sono ben lontani dallo stereotipo new age di comunione con la natura. L’intera società dei fremen è costruita intorno alla conservazione dell’acqua: questo significa che in ogni più piccolo dettaglio della loro tecnologia, delle loro tradizioni e anche della loro lingua, si ritrova la centralità di questo assioma. La cultura fremen è feroce, perché nel deserto la sopravvivenza va continuamente guadagnata, ma questo non significa che i fremen siano selvaggi. Seguono le loro leggi, spesso canalizzate attraverso la religione, che funziona da collante e rafforzo per una serie di precetti necessari a mantenere vitali le tribù nascoste nei sietch, rifugi segreti nel deserto profondo di cui nessuno conosce popolazione e posizione. Anche in questo caso quindi l’ecologia influisce sull’antropologia e viceversa, e la cultura fremen si sviluppa multidimensionalmente nelle direzioni di topos, ethos, logos, episteme.
Ma il mondo di Dune non si limita ai fremen, anzi, abbraccia decine di pianeti e migliaia di anni. E non si tratta, come in una qualunque saga spaziale, di abbellimenti cosmetici per dare respiro e colore alla storia. Quando iniziamo a leggere il romanzo apprendiamo poco per volta dell’Imperatore, delle Case del Landsraad, della Gilda Spaziale, del Bene Gesserit. E l’attenzione non viene catturata solo dalle cose che troviamo, ma anche da quelle che mancano: dove sono i computer? Perché in tutta la sua grandiosa espansione nella galassia questa umanità sembra regredita a un livello feudale di organizzazione della società? Anche questa non è soltanto una scelta estetica, ma un nucleo centrale su cui si sviluppa tutto il worldbuilding. Nella storia remota di Dune, l’umanità a un certo punto si è rivoltata contro le macchine pensanti, ovvero tutti quegli strumenti (dai computer in avanti) che interferivano con il ragionamento umano. Non sono forniti molti dettagli su come si sia svolto questo Jihad Butleriano (se non dal figlio di Frank, Brian, che insieme a Kevin J. Anderson ne racconta gli eventi nella trilogia Legend of Dune ndr) ma il suo impatto è stato colossale e ha stabilito il paradigma entro cui si sviluppa tutta la società dell’Imperium, impresso anche in questo caso con la forza del dogma religioso: “tu non costruirai macchine a somiglianza della mente umana”.
Questo mondo privo di tecnologia potrebbe apparire contraddittorio rispetto ai canoni della fantascienza, perché non c’è niente di “futuristico” in Dune. In realtà, l’idea diffusa che la fantascienza debba raccontare (o addirittura prevedere) il futuro è di per sé errata, ma è anche vero che quando in un racconto ambientato secoli o millenni da adesso si ritrovano elementi della tecnologia attuale la sua credibilità inizia a vacillare. Anche se si tratta di elementi collaterali alla storia, la rapidità con cui le nuove tecnologie diventano obsolete è un pericolo per tutte le ambientazioni future. In Dune questo problema non si pone, perché Herbert ha eliminato all’origine la necessità di immaginare la tecnologia futura (e in particolare quella informatica, la più difficile da prevedere), costruendo un universo in cui è stata bandita. Ecco quindi che il retrofuturo medievaleggiante della saga non solo è credibile, ma ne aumenta a sua volta l’universalità, confondendo le coordinate temporali in cui inquadrare la storia.
Questa umanità senza macchine è anche uno dei temi portanti di Dune, non solo nel primo romanzo ma nell’intera esalogia. Herbert era affascinato dalle potenzialità dell’uomo e della sua mente, sia come singolo individuo che a livello di società. Questa sua fissazione lo porterà infatti a scrivere altre storie che contengono società-formicaio come L’alveare di Hellstrom, o superuomini in Gli occhi di Heisenberg. Nell’universo di Dune l’impossibilità di affidarsi ai computer ha portato l’umanità a cercare al suo interno gli strumenti per evolversi: le risorse e le capacità interiorizzate dagli umani dimostrano un diverso percorso di sviluppo, non più diretto a progettare cose ma a progettare sé stessi. Troviamo così i mentat, che utilizzano particolari tecniche di concentrazione e di analisi tali da renderli degli autentici computer umani; la sorellanza del Bene Gesserit, una sorta di ordine monastico femminile le cui adepte sono addestrate al controllo completo della chimica del proprio corpo, e che negli stadi più avanzati possono accedere alla memoria ancestrale delle loro antenate; i Tleilaxu che manipolano geneticamente i corpi per ottenere schiavi e soldati da utilizzare; i Navigatori della Gilda, umani mutati dalla costante immersione nel gas di spezia, grazie al quale possono accedere alle rotte sicure per il viaggio interstellare. Tutte queste fazioni sono punti estremi della possibile evoluzione di un’umanità che ha deciso di concentrarsi su di sé invece di affidarsi a supporti esterni. Herbert ci mette di fronte a versioni differenti di un distillato di umanità, a volte così concentrato da essere disturbante, ma pur sempre riconoscibile.
Fin qui abbiamo parlato soltanto del setting narrativo in cui si svolge la storia, ma naturalmente Dune è principalmente l’epica di un giovane che deve compiere un percorso doloroso di accettazione del proprio ruolo. Non dobbiamo lasciarci ingannare dal fatto che alla fine del romanzo il protagonista abbia ottenuto la sua vendetta: vista nel suo complesso quella di Paul Atreides è una tragedia, che si compirà definitivamente nel secondo libro Messia di Dune. In questo universo di superuomini, Paul è il Kwisatz Haderach, il primo e unico maschio Bene Gesserit capace di far convinvere anima e animus, non a caso infatti anche lui accede alla memoria ancestrale dei suoi antenati attraverso l’ordalia della spezia. Paul si ritrova al centro di piani e complotti che si dipanano da secoli: la faida tra la sua casa Atreides e gli Harkonnen, il programma genetico del Bene Gesserit per la sintesi del Kwisatz Haderach, l’attesa dei fremen del messia proveniente da un altro mondo. Possono sembrare gli ingredienti base dell’avventura di un predestinato, non fosse che tutti questi ruoli sono stati preparati per lui, e grazie alla sua prescienza Paul è perfettamente al corrente di cosa lo aspetta. Quando il rampollo di casa Atreides, rimasto orfano del padre e fuggito nel deserto, uccide il suo primo uomo e acquisisce il nome fremen di Muad’Dib, la sua strada è segnata: nel suo futuro c’è il genocidio, la jihad che infiammerà l’universo e consumerà migliaia di pianeti, sterminando centinaia di miliardi di persone. Non c’è scelta, c’è solo accettazione di un destino che, anche se non è ancora scritto, non può compiersi in maniera diversa.
Per il suo ruolo di salvatore del popolo nativo, in alcune interpretazioni il personaggio di Paul Atreides è stato visto come “l’uomo bianco” che arriva a civilizzare i selvaggi, tuttavia questa è una lettura superficiale che non tiene conto della profondità narrativa di Dune, che si arricchisce ulteriormente nei seguiti, in cui il messaggio viene di nuovo ribaltato e mostrato nella sua ipocrisia. Se nel primo romanzo abbiamo fatto il tifo per Paul e abbiamo gioito nel vedere il barone Harkonnen morire, in Messia di Dune troviamo un Paul stanco e disilluso, che ha perso tutto quanto aveva di più caro e nonostante questo continua ad andare incontro al suo destino. Il tutto viene ancora ribaltato quando in I figli di Dune la scena passa ai suoi eredi, e in particolare a Leto II che diventerà il Tiranno in L’Imperatore-Dio di Dune, un ibrido immortale uomo-verme che estende la sua crudeltà su tutta l’umanità. Eppure dopo altri quindici secoli scopriremo in Gli eretici di Dune che il piano di Leto II era ben più complesso, e la sua tirannia un mezzo necessario per combattere la stagnazione della specie umana. In tutte queste occasioni ci viene mostrato come il legame tra politica e religione sia pericoloso e manipolabile, tanto che tutte le profezie e i culti personali menzionati nell’intera saga (il Madhi dei fremen, Santa Alia del Coltello, il fanatismo isolazionista dei Tleilaxu) si rivelano essere stati progettati e diffusi precisamente con lo scopo di esercitare un qualche tipo di controllo sulle masse. Se quindi da una parte Paul è sicuramente una figura messianica, lo è perché questa forma è stata preparata per lui, e in seguito da lui stesso abusata fino a portarlo alla distruzione.
Tra gli altri strumenti di controllo e manipolazione che ritornano in tutta la saga di Dune un ruolo centrale assume anche il sesso. In una società che ha abbandonato la tecnologia, l’incrocio controllato delle linee di sangue diventa una forma di selezione artificiale paragonabile all’eugenetica. Ma per assicurarsi questi risultati, la sorellanza Bene Gesserit deve poter controllare gli accoppiamenti, ed è per questa necessità che le Sorelle diventano anche abili seduttrici, capaci di soggiogare gli uomini e ottenere il materiale genetico di cui hanno bisogno. È così che una pulsione fisiologica come il sesso viene anch’essa piegata alle necessità del potere, e sono solo gli individui più forti a poter sfuggire a questa trappola. Tra questi il primo esempio notevole è proprio Lady Jessica, che per amore del suo duca concepisce un figlio maschio (Paul) disobbedendo agli ordini della Sorellanza. Tutta la vicenda di Dune si origina proprio dalla scelta indipendente di una donna in contrasto con gli ordini dell’istituzione di cui fa parte.
Con questa contrapposizione tra volontà individuale e necessità collettive Frank Herbert ci mette di fronte continuamente ai pericoli dell’estremismo, alla corruttibilità del potere (“Non è vero che il potere corrompe, è che attrae i corruttibili” dice l’autore in una delle sue citazioni in epigrafe a ogni capitolo), alla complessità di meccanismi vasti come società o ecosistemi che non possono essere ridotti a semplici equazioni. Un esempio perfetto di questa situazione arriva dalla città di Florence, in Oregon. Lì dove dagli anni Cinquanta si è iniziato a piantare sparto della sabbia per arginare le dune. They Stopped the Moving Sands, è vero; ma adesso ammophila arenaria, una specie aliena introdotta nell’ecosistema, è diventata invasiva, e non si riesce più a controllarne la crescita. Il deserto non solo è stato fermato, ma adesso si sta riducendo, consumato dall’avanzata di una boscaglia paludosa che sta raggiungendo la costa. Le conseguenze a lungo termine di un intervento che inizialmente appariva ingegnoso e sostenibile si sono manifestate con violenza e adesso sono altrettanto difficili da controllare del problema iniziale. Probabilmente non era questo che avevano anticipato gli amministratori di Florence quando hanno pensato a questo piano, ma forse Frank Herbert, che è sempre stato capace di intravedere piani nei piani, pensava qualcosa del genere quando ha immaginato un pianeta desertico che sarebbe potuto diventare un giardino.
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