Didattica, tecnologia e rete
Sul “Barrito del Mammut”, giornale online del Centro Territoriale Mammut, abbiamo pubblicato a inizio aprile una piccola ricerca su possibili nessi tra uso di tecnologie e salute dei bambini. Abbiamo raccolto alcuni dati delle più importanti organizzazioni internazionali e articoli di esponenti del mondo della medicina, della pedagogia e dell’economia. È da tempo che andiamo ragionando su questi temi, perché il collegamento tra scuola e salute è la ricerca azione che portiamo avanti da oltre 12 anni. In molte occasioni abbiamo comunicato i risultati del nostro studio (anche e soprattutto grazie a “Gli asini”), raccontando soprattutto i modi in cui la scuola può farsi alleata della crescita salutare e viceversa. Abbiamo fatto da sempre molta attenzione a questo elemento, tanto importante per maestri del secolo scorso come Montessori, Freinet, Steiner, dove fare didattica partiva e andava di pari passo con lo sviluppo fisiologico naturale dei bambini.
In questi anni abbiamo da una parte tentato di attualizzare quelle modalità didattiche e dall’altra (spesso presi dallo sconforto) denunciato quanto la scuola stesse andando nella direzione opposta.
L’ormai celeberrimo “distanziamento sociale” è diventata pratica prevalente nella scuola da almeno un decennio, nutrito da paura e giudizio imperanti anche nella scuola. La digitalizzazione dell’apprendimento è andata di pari passo, essendo evidente ai più quanto “innovazione” avesse finito per coincidere con “digitalizzazione”. Corpo, uscite in città e in natura, contatto senza mediazione con l’altro e con la realtà esterna sono diventate sempre più chimere, purtroppo fin dall’asilo. Perfino l’“ora d’aria” nei cortili” di scuola, la ricreazione di antica memoria, è stata praticamente abolita in buona parte delle scuole. Abbiamo più volte messo in evidenza questo aspetto, dove la cantilena fissa, il vero muro riscontrato in ognuna delle scuole con cui avevamo a che fare era: “E se si fa male?”. Escludendo così ogni possibilità di “farsi bene”.
Il tempo di allerta virus che stiamo vivendo oggi può essere visto come preziosa cassa di risonanza, lente di ingrandimento di un processo che andava avanti ormai da oltre un decennio e che oggi diventa più visibile e quindi visibile ai più.
È questo forse il tempo di fare i conti con molte delle cose che non ci piacciono. E per farlo è necessario risalire all’origine di queste cose, che non sono spuntate dal nulla, ma hanno radici nel tempo “prima coronavirus”. Una delle prime con cui noi genitori dobbiamo fare i conti è il senso del limite e la frustrazione che ne deriva, altrimenti non potremo passare granché ai nostri figli. La scuola è chiusa, punto e basta. Tutto il resto è un palliativo (spesso nobile e faticoso, a volte anche con belle sorprese) pur sempre virtuale, per lo più, come se stessimo tutti giocando in un immenso videogioco. E se i genitori sono più o meno liberi di scegliere la salute o la malattia, per sé e per i propri figli, non può esserlo un’istituzione. I dati della comunità scientifica parlano chiaro, le nuove tecnologie possono fare davvero male, al pari di un veleno. Un’istituzione non può somministrare veleno consapevolmente. Le istituzioni “sarebbero” obbligate a tener debito conto dei dati messi a disposizione dalla comunità scientifica, mentre i cittadini possono decidere di non crederci, salvo poi lasciarsi prendere dall’isteria collettiva quando questi dati diventano allarme mediatico. Del resto noi della Campania ne sappiamo qualcosa, avendo assistito per decenni alla distruzione progressiva e costante del nostro ecosistema facendo finta di niente, fino all’esplosione mediatica del fenomeno.
Premessa questa che spinge noi genitori a dover fare molti altri conti. In primis con la nostra genitorialità, con la scelta di aver messo al mondo dei figli di cui dobbiamo prenderci cura noi, direttamente. Non poter delegare a maestri, baby sitter, preparatori atletici e affini la cura dei nostri figli ci mette davanti tutte le responsabilità derivanti dalla scelta di diventare genitori. E di tutte quelle scelte che abbiamo effettuato prima: vivere o meno in una celletta (un appartamento oggi più che mai appare come una celletta) senza spazi esterni e natura sufficienti; vivere o meno in isolamento, avendo perso la socialità abitativa che un tempo caratterizzava città come Napoli (nel palazzo, nei bassi, nel rione); la scelta o meno dell’iperprotettività, dove ai nostri figli non viene lasciato nemmeno un minuto di libertà dal nostro sguardo vigile (o di colui a cui questa vigilanza è delegata); la scelta o meno della dipendenza permanente dei nostri figli da noi, rendendoli incapaci di autonomia e facilmente eterodiretti; la scelta o meno di essersi lasciati ottenebrare dall’illusione che stare a casa avanti a uno schermo fosse più salutare (se non altro perché meno rischioso) che scendere giù al palazzo a giocare con i compagni; la scelta o meno di una vita bulimica, fobica di qualsiasi cosa possa somigliare al “vuoto”, piena di ogni oggetto che possa impedirci di entrare in contatto col nostro sé autentico e bambino.
Scelte che molto spesso derivano da una mancanza di consapevolezza di altre scelte, quelle fatte dalle “famiglie” più potenti che si trovano oggi a influenzare governi e aziende mondiali, dove l’unica cosa che appare evidente è la necessità di realizzare una società del marketing e dello schermo. Un mondo nuovo, ancora una volta a misura dell’economia, dove le macchine non prenderanno il posto degli uomini, ma troveranno posto “negli” uomini. Perché il nuovo mondo sarà basato (ancora di più) sull’ibridazione uomo/macchina, mondo a cui la scuola in primis sta dando il suo contributo da anni e oggi più che mai. Una delle grandi eredità di questo periodo sarà il notevole incremento di dipendenza di adulti e bambini da smartphone, computer e affini.
Sia chiaro, questo non costituisce nessuna giustificazione a farsi vittima, perché in questa faccenda tutti noi adulti abbiamo un ruolo attivo di complicità evidente. Se siamo arrivati a un modo di fare scuola (che a noi non piace) come quello che viene attuato in questo tempo di emergenza è anche responsabilità di dirigenti e docenti che di queste consapevolezze fino a ora non hanno voluto saperne niente, concentrando l’attenzione maniacale sui programmi e tralasciando il proprio ruolo fondamentale di educatori esterni alla famiglia, con la possibilità/obbligo unica (in mancanza potranno intervenire in seguito solo medici e psicologici ad adempiere a questa funzione) di costruire qualcosa che non andasse in questa direzione e prima di tutto con i genitori.
Fare i conti significa naturalmente vedere anche quanto di buono si è fatto in questi anni, quanto stia permettendo a genitori, bambini e docenti, ma anche a politici, funzionari e altri educatori di far fronte più o meno dignitosamente a uno dei periodi più difficili nella storia dell’umanità. Genitori e maestri che negli anni passati hanno fatto scelte di un certo tipo, oggi ne stanno raccogliendo i frutti più di tutti. Ma anche di questo abbiamo sempre voluto tenere massimamente conto nella ricerca azione di questi anni, mettendo più di una volta in evidenza quanto l’umanità si trovi in un momento unico, preziosissimo, prima di tutto per l’enorme patrimonio umano e scientifico che chi è venuto prima di noi ci ha consegnato. E se riusciremo a far tesoro di questi mesi di allerta virus, probabilmente lo dovremo proprio alla consapevolezza di quanto di buono ci sia già dentro di noi e nel mondo di cui ci circondiamo.