Democrazia e diritto alla salute
Incontro con Mauro Boarelli e Mimmo Perrotta
La Costituzione tutela sia il diritto alla salute sia i diritti individuali. L’epidemia Covid-19 ha messo in tensione questi due poli: l’esigenza di tutelare la salute collettiva adottando misure per il contenimento dell’epidemia ha comportato limitazioni alle libertà di spostamento, di riunione, di socializzazione, di frequentazione dei locali pubblici e dei luoghi di cultura. È un problema inedito, che ha colto impreparato il ceto politico. La risposta è stata articolata prevalentemente attraverso Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), il Parlamento è stato di fatto esautorato. Come valuta l’azione del Governo da questo punto di vista? Come si può immaginare un’articolazione di questo rapporto tra esigenze differenti e in parte contrastanti nel rispetto dello spirito della Costituzione?
Non c’è conflitto, a mio parere, tra il diritto alla salute, che nel caso dell’attuale pandemia include il diritto alla vita, e tutti gli altri diritti fondamentali. Il diritto alla vita prevale, perché pregiudiziale, su tutti gli altri diritti, a cominciare dalle classiche libertà fondamentali. Nel caso delle pandemie, inoltre, dall’esercizio di tali libertà dipendono non solo la salute e la vita di ciascuno, ma anche il diritto alla vita di tutti gli altri, cioè di tutte le persone che potrebbero essere contagiate dalla nostra libera circolazione. Ebbene, questa tesi vale non soltanto sul piano etico-politico. Vale anche, nel nostro ordinamento, sul piano giuridico. Benché la nostra Costituzione non preveda, per nostra fortuna, lo stato d’assedio o d’eccezione – previsto invece da altre Costituzioni, come quella francese e quella spagnola – è la lettera stessa del testo costituzionale che impone, a tutela della salute pubblica, limiti all’esercizio di taluni diritti di libertà: in primo luogo alla libertà di circolazione, che l’art. 16 prevede possa essere limitata dalla “legge” “per motivi di sanità o di sicurezza”; in secondo luogo alla libertà di riunione, il cui esercizio, dice l’art. 17, può essere vietato dalle “autorità per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”; in terzo luogo alla libertà personale, limitabile anch’essa “per disposizione di legge” in base all’art. 32, nella forma dei lockdown, cioè delle quarantene domiciliari imposte quali “trattamenti sanitari” obbligatori a tutela della “salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”; infine all’“iniziativa economica privata”, che “non può svolgersi”, dice l’art. 41, in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Una critica va tuttavia mossa al governo Conte e spero non dovrà essere rivolta anche al governo Draghi. Riguarda la forma dei provvedimenti adottati per queste limitazioni delle libertà: i decreti del presidente del consiglio (i dcpm), previsti e consentiti dal decreto legislativo 1/2018 (il cosiddetto “codice della protezione civile”), anziché i decreti legge, i quali hanno il rango della legge e perciò sarebbero stati ben più conformi alla Costituzione, la quale riserva appunto alla legge le limitazioni della libertà di movimento e della libertà personale. I decreti-legge sono infatti sottoposti al controllo del Parlamento e ancor prima al vaglio del Presidente della Repubblica e, d’altro canto, sarebbero stati perfettamente idonei a fronteggiare l’emergenza perché comunque restano in vigore per 60 giorni. Il Parlamento è stato invece escluso dal dibattito e dal controllo parlamentare. Con il risultato di un inutile e permanente conflitto con le opposizioni, anziché il loro coinvolgimento e la loro responsabilizzazione.
Vorremmo provare ad ampliare questo punto di vista. Recentemente una figura di rilievo del mondo della medicina come Richard Horton, direttore della rivista The Lancet, ha messo in luce come la pandemia sia anche una “sindemia”, e di conseguenza l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo non può essere né compresa né efficacemente affrontata se vengono ignorate le connessioni con le dimensioni sociali e ambientali. La malattia è causata dal virus, ma la diffusione del virus si combina con determinanti sociali che vengono il più delle volte ignorate dal dibattito pubblico. A questo si aggiunge un’altra considerazione: le conseguenze della gestione della pandemia (il lockdown e le restrizioni alla vita sociale e culturale, alla frequenza scolastica, etc.) sono serie e colpiscono la popolazione in modo diseguale, a seconda dell’età, del reddito, della condizione sociale. “Salute” non vuol dire solamente non ammalarsi, ma anche poter vivere in maniera sana senza che l’equilibrio personale venga compromesso dalle disuguaglianze sociali. Partendo da questi due livelli del discorso sulla pandemia, tra loro intrecciati, è possibile allargare la nozione del diritto in modo che esso possa dialogare con gli approcci del filone del sapere medico più attento alla dimensione sociale (e non solo strettamente sanitaria) della salute?
È tutto vero. La pandemia, come sappiamo, ha accresciuto le disuguaglianze: tra chi può stare in casa e chi è obbligato ad andare a lavorare per assicurare la sopravvivenza di tutti gli altri, tra i lavoratori precari che hanno perso il lavoro e quanti hanno un reddito garantito, tra chi ha una casa e i senza tetto, tra i giovani e i vecchi, tra i ricchi e i poveri, tra gli studenti dotati e quelli non dotati dei computer necessari alle lezioni a distanza, tra i lavoratori garantiti e quelli in nero, tra gli immigrati regolari e quelli clandestini. Per non parlare delle disuguaglianze globali tra paesi ricchi forniti di strutture sanitarie e paesi poveri nei quali i malati sono abbandonati a se stessi. Si aggiunga la disuguaglianza economica aggravata dalla pandemia. La recessione ha colpito ben più duramente i ceti più deboli, provocando la perdita dell’occupazione dei lavoratori precari, la chiusura delle piccole imprese e l’espulsione di tutta la forza lavoro non in grado di convertirsi allo smart working.
Questi effetti sociali della pandemia sono una ragione di più per il rafforzamento della sanità pubblica. Il loro primo insegnamento è infatti l’insostituibilità della sfera pubblica, la sola in grado di garantire la salute a tutti, di disporre dei mezzi e delle attrezzature a tal fine necessarie e di mettere in atto interventi diretti a soccorrere le persone più povere e disagiate. Dopo le ubriacature liberiste degli anni passati, questa pandemia ha mostrato la necessità della sfera pubblica, alla quale, del resto, tutti, e più di tutti i liberisti anti-statalisti, chiedono letteralmente tutto, dalle cure e dalla rapidità delle vaccinazioni ai fiumi di denaro che pretendono in loro soccorso, dalla garanzia della salute al salvataggio delle imprese.
La gestione dell’epidemia ha mostrato i limiti del trasferimento alle Regioni delle competenze sull’organizzazione e la gestione del servizio sanitario. La Lombardia – dove più che altrove il sistema è stato riorganizzato attraverso processi di privatizzazione e centralizzazione intorno agli ospedali, a scapito di una medicina preventiva su base territoriale – rappresenta l’emblema del fallimento nel contrasto tempestivo ed efficace dell’epidemia. Ma anche le altre Regioni sono di fatto orientate verso un approccio analogo. La perdita di una visione organica e omogenea delle politiche per la salute pubblica e la rinuncia a un governo unitario del sistema sanitario ha portato a una frammentazione dei diritti (ai cittadini vengono assicurate prestazioni differenti a seconda del luogo di residenza) e all’incapacità di affrontare con i mezzi adeguati eventi eccezionali ma al tempo stesso prevedibili e da tempo annunciati dalla comunità scientifica, come l’attuale pandemia. Come valuta, alla luce degli eventi attuali, gli esiti della regionalizzazione?
La pandemia ha mostrato drammaticamente l’assurdità della regionalizzazione della sanità pubblica. Questa assurda competenza delle regioni, in forza della quale abbiamo 20 sistemi sanitari diversi, era già di per sé incostituzionale, dato che contraddice il principio di uguaglianza. La pandemia ne ha anche mostrato l’inefficienza. I conflitti tra Stato e Regioni, generati soprattutto dalla volontà di protagonismo dei ceti politici locali, hanno avuto come unici effetti la quotidiana conflittualità tra governo centrale e governi regionali, i conseguenti ritardi e un discredito complessivo delle nostre istituzioni. Come dite giustamente, il fallimento della regionalizzazione della sanità è stato mostrato drammaticamente dalla Lombardia, dove si è avuto il più alto tasso di contagi e di mortalità del mondo – all’inizio del maggio 2020 il 6,5% del totale mondiale e più della metà dei decessi registrati in Italia – a causa delle politiche irresponsabili adottate in passato dalla Regione lombarda: la riduzione dell’assistenza familiare domiciliare e del numero dei medici di famiglia e il conseguente smantellamento dei primi presidi territoriali; la privatizzazione di gran parte della sanità e la gestione con criteri aziendalistici della stessa sanità pubblica; la conseguente diminuzione del numero degli ospedali pubblici, i cui Pronto Soccorso sono stati invasi dai malati di Covid e trasformati in focolai contagiosi; e poi la decisione scellerata dell’8 marzo di trasferire molti di questi malati, per la scarsità dei posti letto negli ospedali pubblici, nelle case di cura e riposo per anziani, dove il contagio ha provocato una strage.
Nonostante questo, il progetto di autonomia differenziata non è stato abbandonato. È rimasto sottotraccia, a causa dello stato di emergenza che ha dirottato l’attenzione altrove, ma i suoi sostenitori non demordono. Il Presidente della Regione Emilia Romagna lo ha rilanciato nel mese di ottobre, affermando senza alcun imbarazzo (e senza alcun segno di avere imparato qualcosa dalla gestione della pandemia) che “gli ultimi mesi hanno portato a una nuova centralità del regionalismo”. Come si potrebbe sfruttare politicamente la situazione – ricavando opportunità da una grave crisi – per innescare un’inversione di tendenza?
Queste dichiarazioni non devono stupire. La politica odierna ci ha abituato da ormai molti anni alle sparate demagogiche che negano l’evidenza, cioè la disuguaglianza nella tutela del diritto di tutti alla salute, la confusione dei provvedimenti, l’incertezza delle competenze e i conflitti istituzionali generati da questa regionalizzazione della salute che si vorrebbe addirittura aggravare con il progetto dell’autonomia differenziata. Un’effettiva inversione di tendenza richiederebbe l’abolizione della dissennata riforma del 2001 del titolo quinto della nostra Costituzione, quanto meno nella parte dell’art. 117 che affida la tutela della salute alla legislazione concorrente di Stato e Regioni. Ma questa è una riforma troppo razionale per la demagogia del nostro ceto politico e per la smania di protagonismo dei suoi esponenti locali.
La gestione dell’epidemia mette di nuovo al centro un altro tema cruciale: il rapporto tra politici e tecnici. L’esito della crisi di governo, con l’affidamento dell’incarico a Mario Draghi, ha dato nuovo slancio alla retorica delle competenze, che vengono di fatto contrapposte alla rappresentanza politica, giudicata ormai inefficace per la gestione degli interessi pubblici. Eppure l’epidemia ha mostrato ancora una volta come la scienza non sia un deposito di saperi neutrali, e che veicoli culture e punti di vista differenti, approcci a volte contrastanti e fra loro incompatibili. Come può essere sviluppato, in una democrazia, un rapporto equilibrato tra la sfera politica e la sfera tecnica?
Non mi pare che nel caso della gestione dell’epidemia si debba parlare di conflitto.
È chiaro che solo i tecnici sono in grado di valutare il grado di pericolosità del virus e il grado di riduzione dei contagi conseguente alle misure restrittive della libera circolazione. Ma sarà poi una scelta politica la priorità assegnata alle ragioni della vita o alle ragioni dell’economia e le forme di contemperanza tra queste opposte ragioni. Il dibattito e gli scontri di questi mesi hanno mostrato che la destra, non solo in Italia, svaluta il diritto alla salute e alla vita ben più delle forze di sinistra. Temo che in questa rivendicazione delle libertà conculcate ci sia molta demagogia e soprattutto molta irresponsabilità.
Quanto al governo Draghi, esso è il risultato dell’aggressione alla vecchia maggioranza di un avventuriero della politica quale si è rivelato Matteo Renzi. A mio parere il governo Conte, avendo avuto la fiducia, non doveva dimettersi, come invece ha fatto nel timore di un voto del Parlamento, previsto due giorni dopo, contro la relazione sulla giustizia del ministro Bonafede. È la stessa Costituzione che esclude questo dovere: “il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo”, dice l’art. 94, comma 4, “non importa obbligo di dimissione”. È poi evidente, una volta apertasi la crisi con le dimissioni, che la formazione del Governo Draghi è stata una soluzione sicuramente preferibile alle elezioni anticipate in piena pandemia che, tra l’altro, avrebbero quasi certamente consegnato il paese alle destre.
Penso infine che non esistono, in una democrazia parlamentare, governi tecnici: qualunque governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò della maggioranza delle forze politiche rappresentate. Draghi, poi, è sicuramente un politico navigato, oltre che un grande economista. Possiamo perciò sperare, dal nuovo governo e dalla nuova maggioranza, non solo risposte efficaci alle emergenze in atto, ma anche una conversione della Lega, se non all’europeismo, almeno a un anti-europeismo meno volgare e, insieme, una civilizzazione del dibattito politico sulla base non più degli insulti e degli slogan ma del confronto razionale sui contenuti.
Anche se la definizione di “governo tecnico” è imprecisa – perché, come lei ha appena ricordato, i governi vengono votati dal Parlamento, e un “tecnico” come Draghi ha comunque una fisionomia politica – è indubbio che una scelta incentrata sulle “competenze” ha la duplice conseguenza di delegittimare la politica (identificata – per contrasto – con l’incompetenza) e di sottrarre ulteriormente peso al Parlamento (messo sotto scacco, anche per sue mancanze). Il rischio è che un’opinione pubblica sempre più disillusa rispetto al sistema politico venga spinta non verso nuove forme di partecipazione e protagonismo “dal basso”, ma verso una delega ai tecnici, veri o presunti tali, cioè verso una depoliticizzazione della vita sociale e una metamorfosi dei processi decisionali. Qual è il suo pensiero al riguardo?
Non sono d’accordo. Non c’è conflitto, a mio parere, tra competenza e politica, e parlare di contrasto o peggio di incompatibilità tra l’una e l’altra è il peggior servizio che si possa fare alla politica. La competenza, d’altro canto, non è mai neutra. Può essere messa al servizio di una politica conservatrice o peggio reazionaria, oppure di una politica riformatrice e progressista. Esistono tecnici di destra e tecnici di sinistra, tecnici di estrema destra e tecnici di estrema sinistra. Le loro scelte, benché compiute sulla base delle loro competenze tecniche, sono “politiche” esattamente come quelle dei politici di professione.
Quanto al governo Draghi, occorrerà valutarlo – come egli stesso ha dichiarato di fronte all’eccessiva e imbarazzante esaltazione della sua figura – sulla base del suo operato. Il suo programma, quale risulta dalle dichiarazioni su cui ha ottenuto la fiducia, è avanzato sotto molti aspetti. Ma saranno i fatti che dovranno essere giudicati. Certamente Draghi appartiene al mondo della finanza. Ma dobbiamo ammettere che le politiche europee, anche grazie all’operato di Draghi quale presidente della Banca centrale europea, sono cambiate rispetto all’ottusa austerità degli anni passati. Basti pensare alla massa di miliardi, in parte a fondo perduto, distribuiti dall’Unione; alla valutazione e poi all’acquisto e alla distribuzione dei vaccini agli Stati membri, fuori della logica del mercato; allo stanziamento infine di 7 miliardi e mezzo di dollari deciso dall’ultima riunione dei G7 per l’acquisto di vaccini a beneficio dei paesi poveri extra-europei. C’è peraltro un fatto, a mio parere decisivo, sul quale il tasso di civiltà del governo Draghi sarà giudicato: la svolta che vorrà mettere in atto nelle nostre vergognose misure di respingimento nei confronti dei migranti in mare, in grado di porre fine alla silenziosa strage di migliaia di persone che ogni anno affogano nel Mediterraneo a causa della nostra dolosa e preordinata omissione di soccorso.
In un suo intervento su questa rivista, circa un anno fa, affermava la necessità di una risposta unitaria dell’Unione Europea alla pandemia e, ancor più, di un “costituzionalismo globale e di una sfera pubblica planetaria nell’interesse di tutti”, per affrontare non solo questa sfida sanitaria, ma anche altre sfide globali, come le enormi disuguaglianze e la crisi ecologica. Come valuta il comportamento dell’Unione Europea in questo anno di crisi? E come stanno cambiando le istituzioni internazionali?
La pandemia ha mostrato la necessità e il valore vitale non soltanto della sfera pubblica – la sola in grado di garantire l’uguaglianza nella garanzia della salute e di produrre misure efficaci per limitare i contagi – ma anche di risposte quanto più possibile globali, imposte dal carattere, appunto globale, della diffusione del virus, che colpisce letteralmente tutti. Proprio per il suo carattere globale, essa richiede infatti misure globali, decise sulla base di strategie unitarie e coordinate, che possono provenire solo da un’istituzione globale di garanzia. Esiste già un’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma questa istituzione non è neppure lontanamente all’altezza delle funzioni di garanzia affidatele, a causa degli scarsissimi mezzi e della mancanza di effettivi poteri. Occorrerebbe perciò riformarla e rafforzarla, quanto ai finanziamenti e quanto ai poteri, per porla in grado di prevenire le pandemie, di bloccarne sul nascere il contagio e, comunque, di portare i soccorsi medici ai paesi poveri, a cominciare dai vaccini e dai farmaci salva-vita. Se ci fosse stata una simile gestione unitaria e tempestiva multi-livello, coordinata da una vera istituzione globale di garanzia indipendente, oggi non piangeremmo milioni di morti.
Non solo. Questa pandemia, colpendo tutto il genere umano, dovrebbe generare la comune consapevolezza che siamo tutti esposti ad altre gravi catastrofi ed emergenze globali – il riscaldamento climatico, la minaccia nucleare, la crescita della disuguaglianza e della povertà – che impongono la necessità della costruzione non soltanto di un frammento di costituzionalismo planetario in tema di sanità, ma di una sfera pubblica e di un costituzionalismo globali che, prendendo sul serio i principi di uguaglianza e i diritti fondamentali proclamati in tante carte internazionali, introduca le garanzie e le connesse istituzioni di garanzie necessarie per renderli effettivi. È questo il progetto di una Costituzione della Terra che avanzammo in un’assemblea svoltasi a Roma un anno fa. Le attuali emergenze globali infatti, benché dalla loro soluzione dipenda la sopravvivenza dell’umanità, non fanno parte dell’agenda politica dei governi nazionali, ancorate ai tempi brevi e agli spazi ristretti delle competizioni e delle circoscrizioni elettorali. Solo l’espansione del paradigma costituzionale oltre lo Stato, cioè una Costituzione della Terra sopraordinata a tutte le altre fonti di diritto, può oggi prevedere e imporre l’introduzione di istituzioni globali di garanzia dei diritti fondamentali e dei beni comuni, in grado di imporre limiti e vincoli agli attuali poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali. Non è vero, insomma, che non esistono alternative a quanto di fatto accade, come ripetono quasi tutti i governi e i loro sostenitori. Le alternative esistono. Ciò che manca è la volontà politica di realizzarle.
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