Decrescita, emergenza climatica e cura
Il coronavirus è uno dei primi, più evidenti shock del viaggio a tutta velocità che il mondo sta percorrendo verso il collasso ecologico e sociale. Da tempo, in tanti ci chiedevamo: quale sarà il primo grande shock della crisi ecologica? Pochi si aspettavano che sarebbe stato un virus. Eppure così è stato. Lo shock è arrivato, e me ne rallegro. Attenzione: non mi rallegro della “natura che si vendica sull’umanità parassita”, una narrativa tanto diffusa quanto profondamente ingiusta e pericolosa, poiché ignora relazioni di classe, genere e razza. Negare tali disuguaglianze strutturali favorisce argomenti razzisti ed ecofascisti, che si scagliano contro la popolazione umana nella sua quantità (l’argomento del “siamo troppi”), occultando le grandi responsabilità di pochi così come le molteplici conseguenze sui molti che responsabilità non hanno. Non c’è da crogiolarsi, dunque, nelle immagini di un cigno sui Navigli, di anatre nella Barcaccia di piazza di Spagna, di acque limpide a Venezia, seppur tutto questo ci dica molto sui diversi e migliori rapporti che potremmo costruire con le altre specie. C’è invece da rattristarsi parecchio per l’immensa sofferenza delle persone malate o portate via dal virus e delle loro care e cari che non possono nemmeno celebrarne i funerali, ma devono soffrire in isolamento. C’è da preoccuparsi soprattutto per le emergenze nell’emergenza: coloro per cui il virus non è altro che una forma di oppressione che si somma a gravi oppressioni preesistenti, da donne costrette a condividere spazi ristretti con uomini violenti a chi si trova senza dimora, o in un campo profughi, o in un campo di concentramento libico, o nel bel mezzo della guerra in Siria. È opportuno riconoscere che la crisi sanitaria ed economica senza precedenti in cui ci addentriamo potrebbe essere una delle ultime, enormi, possibilità, per uscire con forza dal capitalocene e fondare un nuovo sistema economico e sociale. È di questo che mi rallegro.
Sono un attivista che cerca di contribuire alla lotta per difendere diverse forme di vita sul pianeta dal collasso che secondo il 99% degli scienziati è dietro l’angolo. Secondo l’Onu, per avere una prospettiva futura (non rosea, ma almeno avercela), il mondo dovrebbe – tra le altre cose – ridurre le emissioni di anidride carbonica del 7% all’anno nei prossimi dieci anni. Cosciente di questo e del fatto che, al contrario, le emissioni stanno aumentando ogni anno e nessun cambiamento politico ed economico in grado di realizzare ciò che è necessario sembra essere all’orizzonte (in particolare nel breve arco temporale necessario), sopporto la realtà con un ancor presente ottimismo della volontà ma con un sempre maggiore pessimismo della ragione. Ecco dunque che una crisi come quella del coronavirus rappresenta uno di quei rari momenti caotici – verosimilmente il più significativo di questa decade – capaci di riaprire i giochi della storia. È necessario ricordare che la diminuzione di polveri sottili e altri elementi inquinanti dovuta al blocco delle attività per ridurre il contagio (www.g-feed.com/2020/03/covid-19-reduces-economic-activity.html) sta contribuendo a salvare vite umane (si vedano i 46.500 morti per polveri sottili nel 2016 in Italia). Questo ci obbliga a mettere l’attuale epidemia in prospettiva, ricordandoci quanto un ritorno alla normalità non sia niente di desiderabile perché, come è stato letto sui muri di Santiago del Cile in occasione della recente insurrezione: “la normalità era il problema”.
Questo non significa celebrare il virus come cura dell’umanità, ma riconoscere che virus e collasso climatico sono due facce della stessa medaglia: la crisi ecologica creata non dall’umanità, ma dal capitalismo. Le pandemie sono questioni ecologiche: il coronavirus emerge all’intersezione della società umana e quella non-umana, e dalla relazione di dominio che la prima ha con la seconda. Il biologo evoluzionista Rob Wallace ha scritto di come la distruzione di habitat naturali, l’agroindustria e in particolare la produzione di bestiame siano strettamente legati all’incidenza del virus, per non parlare di come il presente modello di commercio globale e turismo di massa ne facilitino la diffusione. Sono gli stessi elementi che formano le cause dell’emergenza climatica. Non solo: quest’ultima sembra accelerare, a sua volta, la diffusione dei virus (www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.01.24.918755v1). Le due crisi tuttavia, non solo condividono il modello di sviluppo contemporaneo come causa profonda, ma condividono molte delle soluzioni, identificabili – con un po’ di approssimazione – con le idee che compongono la decrescita.
La decrescita sfugge a una definizione univoca, ma può essere generalmente definita come una radicale trasformazione sociale, politica ed economica, associata a un’equa riduzione del throughput di risorse, materiali ed energia, condotta democraticamente e a partire dall’occidente sovrasviluppato, con l’obiettivo di promuovere il benessere e la giustizia ecologica e sociale. Numerosi attori del movimento per la decrescita si sono giustamente affrettati a sottolineare come la crisi economica causata dal coronavirus non corrisponda affatto a ciò che il movimento rivendica, anzi. Se quella presente è una decrescita per disastro, quella che si vuole rivendicare è una decrescita pianificata e consapevole. La pur presente riduzione di throughput ha poco di equo e democratico (tutt’altro), e l’isolamento fisico non promuove certo né benessere né convivialità, mentre di ingiustizie ne vediamo e ne viviamo in abbondanza.
Eppure, questa non è una crisi economica come le altre. Non è una semplice recessione né tantomeno una crisi finanziaria. È un blocco semi-totale dei flussi che compongono ciò che intendiamo per attività economica – che corrisponde in gran parte all’accumulo di capitale. Ciò che la crisi sanitaria richiede, scrive l’economista britannico James Meadway, non è nemmeno un’economia di guerra (una metafora abbondantemente utilizzata in questi giorni). Infatti, se quest’ultima implicherebbe la totale mobilitazione delle risorse produttive dell’economia, la presente crisi di salute pubblica richiede di smobilitare l’economia. Le categorie usate finora per identificare l’emergenza risultano dunque del tutto inadeguate. Sotto questo aspetto, l’emergenza climatica richiede un approccio simile: finora, la maggior parte dei governi ha parlato di crescita verde – ovvero di come approfittare della decarbonizzazione per aumentare i profitti – quando l’unica risposta scientificamente sensata è proprio una parziale smobilitazione dell’economia. La ragione per cui, tuttavia, crisi economica e guerra sono le metafore più utilizzate, rispettivamente, da padroni e stato, è facilmente comprensibile dal tipo di risposta auspicata dagli stessi: piani di salvataggio per i primi, controllo e poteri militari per il secondo.
Ciò che ci obbliga a considerare questa crisi un’opportunità è proprio il fatto che la classe dominante sta facendo lo stesso: o per tornare a una presunta ‘normalità’ che la favorisce, rendendo il capitalismo neoliberista ancor più vorace, seguendo lo schema della dottrina dello shock, come scrive Naomi Klein, oppure – se il neoliberismo sta morendo grazie a questa crisi, come sostiene David Harvey – per rendere la normalità ancor più distopica, approfittando della paura collettiva per sperimentare sistemi di controllo mai consentiti prima. Con l’appoggio dello stato, poi, sono le multinazionali come Amazon e Facebook che stanno tentando di vendersi come infrastrutture imprescindibili per questo periodo storico e cercheranno di riorganizzare la società lungo linee neo-tecnocratiche. Dunque, se in questo rimescolamento di carte concessoci dalla storia giocassimo (ancora una volta) in difesa, potremmo perdere una delle ultime opportunità di cambiare le cose, prima che il collasso climatico, scientificamente certo, devasti vite in modo ben più brutale del virus.
Che fare, dunque, di quest’inedita smobilitazione? Innanzitutto, occorre renderci conto delle menzogne che hanno giustificato la “normalità” finora. Molteplici misure economiche adottate in svariate parti del mondo mostrano quanto fragili siano i confini del possibile dell’orizzonte neoliberista. Seppur in ordine sparso e in modo decisamente poco strutturale, dall’inizio del virus, nel mondo, sono state attuate sospensioni del pagamento di affitti e di debiti, si sono attivati redditi di base, sequestri di strutture di sanità privata e hotel, la ri-nazionalizzazione di ferrovie e altri beni comuni recentemente privatizzati; si sono viste industrie private obbligate a convertire la produzione per il bene comune, nonché la parziale liberazione di carcerati. Questo dimostra che quando si tratta di difendere la vita, misure di stampo socialista sembrano funzionare meglio di quelle capitaliste, come ammettono implicitamente molti insospettabili capitalisti di ferro. La Gran Bretagna è da manuale: il governo Johnson, tra nazionalizzazioni ferroviarie e diritto alla banda larga, sta scopiazzando maldestramente il programma con cui Corbyn ha perso le elezioni. In questo senso, dunque, si evidenzia una profondissima debolezza dell’impianto capitalista e si dimostra, senza giri di parole, che – posto l’obiettivo generale di difendere la vita e non i profitti – abbiamo sempre avuto ragione.
Un altro dato da annotare in queste settimane è che, finalmente, i risultati della ricerca scientifica sembrano essere in grado di cambiare repentinamente l’organizzazione economica di uno stato (non di tutti e non del tutto) per evitare il sacrificio di vite umane. Ora, per quanto riguarda il riscaldamento climatico, l’iperuranio ideologico della crescita ci dice: “che importa se la scienza afferma che moriremo tutti, non possiamo certo fermare la crescita!”. Al contrario, ciò che accade in questi giorni dimostra che, in fondo, è possibile – ascoltando la scienza – mettere la vita umana davanti al profitto. Naturalmente non è del tutto così: sia fuori che dentro il belpaese hanno luogo enormi conflitti tra profitto e salute, impersonati in primo luogo da padroni (e stato), da un lato, e lavoratrici e lavoratori, dall’altro. Questi conflitti ricordano significativamente i conflitti ambientali, di cui l’esempio più eclatante è l’Ilva. L’incompatibilità di capitalismo e vita risulta dunque tanto evidente nei posti di lavoro ai tempi del coronavirus quanto nei conflitti ambientali che abbondano sul pianeta.
Nel frattempo, da più parti del pianeta si ode di improvvisi scioperi selvaggi, campagne per sospendere o abolire debiti e affitti, così come la rivendicazione del diritto a occupare case sfitte. Tutto ciò ci dice molto sul perché, per alcuni, la preoccupazione maggiore continua a essere la crescita del Pil. La ragione è che senza crescita, il capitalismo della rendita – il cosiddetto neoliberismo – che si fonda proprio sul trasferimento di ricchezza da parte di chi lavora e produce nei confronti di chi possiede, attraverso il pagamento di debiti e affitti, collasserebbe. È di questo collasso che cominciamo a sentir l’odore, ora che l’impossibilità di produrre e guadagnare ci fa, in un certo senso, svegliare di colpo: perché pagare l’affitto di una casa quando ci sono 7 milioni di case vuote solo in Italia? Perché pagare un debito nei confronti di una banca che non ha fatto altro che creare dal nulla il denaro che mi ha prestato? La crescita è la famosa marea che solleva tutte le barche, anche se la barca dei poveri sta a galla per miracolo mentre quella dei ricchi vola su Marte con Elon Musk. Se la crescita si ferma, mentre la barca dei poveri affonda, i poveri si chiedono perché mai stanno lasciando Elon Musk andare su Marte e gli espropriano la barca/navicella. In altre parole: crescere è una scusa per non redistribuire. Senza crescita, la voce in favore della redistribuzione emerge spontaneamente con più forza. Non è un caso che il meccanismo della crescita sia così difficile da estirpare: senza, non avremmo altra scelta che redistribuire.
Tra le misure economiche straordinarie alle quali assistiamo osserviamo una parziale sospensione delle regole finanziarie fondate su monetarismo e austerità, con cui si giustifica – tra le altre cose – l’inazione contro il cambiamento climatico. Di colpo, centinaia di miliardi di euro possono essere usati per far fronte all’emergenza. Miliardi che, fino al giorno prima, non si potevano usare. Non si potevano usare per la transizione ecologica, per chi è in povertà assoluta o per l’accoglienza. Adesso ci sono. La ragione è semplice, ed è che il denaro cresce, quasi letteralmente, sugli alberi. Il denaro, dalla fine del gold standard, non è altro che credito, di cui il 97% è creato dal nulla da banche private (https://positivemoney.org/how-money-works/proof-that-banks-create-money/). Che la produzione di credito (e le decisioni riguardo al quanto e a favore di chi) sia privatizzata, è una scelta politica. Ora, seppur il coronavirus non ha (ancora) scardinato il sistema di produzione e distribuzione del denaro a livello europeo, non possiamo che apprezzare come, per esempio, il patto di stabilità possa saltare da un giorno all’altro se lo si vuole. Inoltre, non è un caso che parte del dibattito sulla distribuzione del denaro sia al centro dei negoziati in corso tra gli stati dell’Unione Europea – si veda la questione Eurobond – e ne determinerà, probabilmente, il futuro. Insomma, se il dibattito su come produrre e distribuire il denaro (se in forma di debito o meno, e se sì ripagato da chi) e su come spenderlo (se in piani di salvataggio o se in salute pubblica e reddito universale, per esempio) è ancora in corso, la crisi ci offre una lezione-ripasso sul fatto che il denaro non è altro che un sistema di simboli (infiniti) di relazioni umane e politiche. Quando risentiremo la scusa “non ci sono i soldi”, ricordiamoci che non è vero.
Un’altra questione che emerge con forza nel contesto della crisi attuale è la centralità della cura. Mentre ci rinchiudiamo nelle nostre case (chi ne ha il privilegio), riscopriamo l’indispensabile lavoro di mediche, medici, infermiere e infermieri, che applaudiamo dalle finestre. Riscopriamo l’importanza delle badanti a casa con nonne/i e genitori, nonostante siano state esplicitamente, vergognosamente e ironicamente escluse dal decreto “Cura Italia” del 17 marzo. Ringraziamo le tate a cui ci affidiamo se dobbiamo andare a lavorare o, in loro mancanza, guardiamo alla cura che noi stessi dobbiamo offrire, a tempo pieno, a figlie/i, nipoti, anziane/i e disabili. A tutto ciò si aggiungono maestre e maestri che a distanza, con enorme fatica, cercando di continuare a educare, insieme a milioni di altre lavoratrici e lavoratori che risultano fondamentali per la riproduzione e il sostenimento della vita nostra e dei nostri cari, producendo e distribuendo cibo e medicine. Non dimentichiamo infine chi lavora per addolcire il passaggio dalla vita alla morte, le onoranze funebri, o chi raccoglie ogni giorno i nostri rifiuti. La cura, infatti, non racchiude solo il venire incontro ai bisogni fisici ed emotivi altrui, ma è anche la capacità e pratica sociale di generare più ampiamente il benessere e la prosperità necessari per la vita umana e non-umana.
La maggior parte dei lavori che fanno parte della cura in senso lato sono allo stesso tempo notoriamente sottovalutati o del tutto svalutati, sottopagati o svolti gratuitamente, riconosciuti come lavori o nemmeno considerati tali. Sono spesso informali o in nero, e altrettanto spesso svolti da donne e migranti, se non da donne migranti. Nel frattempo, la classe media e la classe alta – chi si occupa di marketing, accounting, consulting, public relations, management, hedge funds, investment banking e il resto dei lavori che pronunciamo tendenzialmente in inglese – può stare a casa, lavorando (o) meno. L’inglese non è un caso: si tratta di lavori recenti, frutto della burocratizzazione corporativa degli ultimi decenni. Lavori che, potremmo ipotizzare, la lingua italiana non ha fatto in tempo a tradurre. Oppure lavori che sono più cool se definiti in inglese perché è dal capitalismo anglosassone e da quella cultura che sono stati creati. Sono alcuni dei lavori che l’antropologo statunitense David Graeber ha definito bullshit jobs (lavori del cavolo), ovvero segretamente ritenuti inutili per la società dalle stesse persone che li svolgono. Come conclude Graeber, il paradosso è che più utile è un lavoro, peggio è pagato, e viceversa. Questo inverte il senso comune che immaginiamo alla base dell’economia e rivela che il guadagno di qualcuno è tanto lontano da una questione di utilità quanto vicino a una questione di potere politico.
Questa divisione non può essere presa rigidamente: i confini sono flessibili. Prendiamo chi fa musica, per esempio. È un lavoro di cura? È fondamentale? Se prendiamo in considerazione l’antropologia e la storia dell’umanità, lo è senza dubbio e lo è sempre stato. E se prendiamo in considerazione i vari concerti e balli sui balconi a cui abbiamo assistito in queste settimane, non c’è dubbio che siamo ben consapevoli di tale centralità. Tornando ai lavori di cura in senso più limitato, non c’è dubbio che questi ultimi siano al centro della riproduzione della vita con o senza coronavirus, ma è evidente che la crisi presente ci offre un’occasione per riaffermarne la centralità, e potenzialmente per invertire valore e valori dell’economia presente per rifondare l’economia intorno a essi. Se questa è l’economia dell’anti-guerra, non è un caso che la cura ne sia al centro, perché guerra e cura stanno agli antipodi. La cura non produce morte, ma cerca di evitarla. È l’opposto del mettere la propria sopravvivenza al di sopra di quella degli altri, l’opposto del privare qualcuno della libertà. La cura è la scoperta della vulnerabilità propria e altrui che avviene a partire dal riconoscimento dell’interdipendenza e dei beni comuni, invalidando così il dogma utilitarista, individualista e proprietario su cui si sorregge l’homo oeconomicus, e su di lui il capitalismo. Interdipendenza che non si limita ai membri della nostra specie, ma riguarda le reti e i sistemi, animati e inanimati, che sostengono la vita sul pianeta: un’eco-dipendenza, come la definisce l’eco-femminismo.
Per questa e altre ragioni, cura ed ecologia sono profondamente legate. Per questo i lavori di cura sono i lavori green per eccellenza. E sono lavori svolti, nella stragrande maggioranza dei casi, dalle donne. Non ci sorprenda dunque se, nel patriarcato, siano estremamente sottovalutati rispetto ai lavori svolti prevalentemente dagli uomini. Una smobilitazione di molti di questi ultimi in favore di una valorizzazione della cura – attraverso, per esempio, un reddito di base universale (o reddito di cura) – associata alla demercificazione dei beni comuni, sono alla base della proposta di economia ecologica di cui si fa portavoce la decrescita. Non è un caso che proprio in questi giorni si parli di “reddito di quarantena” e reddito universale per far fronte alla situazione, o che si sospendano, deroghino o si sostengano i pagamenti di ciò che vorremmo considerare beni comuni ed essenziali. Ma si parla anche di riduzione della giornata lavorativa, della sostituzione di indici economici come il Pil a orientare le politiche pubbliche con indici che tengano in considerazione il benessere delle persone in relazione all’impatto ecologico di tale benessere, fino alla più che mai necessaria localizzazione dell’economia nonché la democratizzazione della politica. È dunque un’economia che ha bisogno di meno produzione e più cura e condivisione ciò che ci può portar fuori tanto dall’emergenza coronavirus (oltre a ridurre le probabilità che si ripeta) come da quella climatica.
In questi giorni, in tanti temono (a ragione) che per tornare alla “normalità” si metterà una crisi contro l’altra: per uscire dalla crisi economica del coronavirus si stanno già allentando le insufficienti regolazioni esistenti per combattere la crisi ecologica. Un divide et impera esercitato sulle due crisi: “potete morire di coronavirus o di disoccupazione in un’economia in crisi, o potete morire di inquinamento e di cambiamento climatico in un’economia (ovvero un Pil) in crescita”. Tutto ciò che dobbiamo fare è invalidare questa falsa dicotomia e immaginare un’economia dalla portata ridotta, in cui non si muore di inquinamento non perché siamo in quarantena, isolati o ammalati, ma perché l’abbiamo deciso. Bisogna annientare il ricatto e affermare collettivamente: si può fare a meno di jet privati, di volare per un week end, delle crociere sulle grandi navi, dei treni ad alta velocità, della produzione di armi, del carbone o dello shopping senza esserne forzati dalla paura del coronavirus. Possiamo avere i cigni nei Navigli senza doverli guardare dal balcone. Possiamo scendere in piazza a cantare, ballare e protestare senza dover respirare polveri sottili.
Abbiamo visto che, per la paura di un virus, si può cambiare molto. Possiamo farlo anche per una vita di benessere, cura, giustizia, condivisione e solidarietà? La decrescita non è altro che questo. L’economia capitalista è alla base della crisi ecologica ed è del tutto incapace di tirarcene fuori. Ciò per cui dobbiamo lottare è che questa crisi ci aiuti a tirarci fuori dall’economia capitalista.