Dagli Usa. Pensieri domestici per i tempi a venire

Traduzione di Fiorenza Picozza
La pandemia di Covid-19 sta cambiando tutto, ma sta anche confermando tendenze che, negli ultimi anni, molti studiosi avevano già descritto: viviamo in un mondo globalizzato in cui le frontiere tra economia, società, politica e persino biologia sono sempre più sfumate e in cui una pandemia colpisce immediatamente tutte le dimensioni della vita.
Queste sfumature, tuttavia, non cambiano il quadro delle nostre relazioni sociali. Al contrario, non fanno altro che aumentare le enormi diseguaglianze delle nostre società, giacché il virus ne ha colpito maggiormente i settori più vulnerabili: gli anziani e i poveri, coloro che non si possono proteggere da sé. Il risultato economico della pandemia è l’aumento di povertà e disoccupazione di massa. Certo, questa situazione è la riprova della fondamentale necessità di un sistema di salute pubblica efficace, concepito non come un business redditizio ma piuttosto come un diritto umano fondamentale. Questa rivendicazione è stato uno dei pilastri della campagna di Bernie Sanders e, senza dubbio, diventerà sempre più centrale nelle lotte degli anni a venire.
Contemporaneamente, la crisi pandemica rafforza notevolmente la dimensione biopolitica dei nostri stati. È chiaro che chiediamo loro di proteggere la salute dei cittadini e dei residenti (inclusi immigrati e rifugiati) e che protestiamo contro le politiche neoliberiste che, negli ultimi anni, hanno fortemente indebolito i nostri ospedali. È proprio perché venivano considerate poco redditizie che molte attrezzature essenziali sono state così colpevolmente trascurate: il risultato è che oggi le città con i centri medici e scientifici più avanzati sono anche quelle che più disperatamente necessitano di mascherine e ventilatori.
Ma non dobbiamo ignorare l’altra faccia della medaglia: questo intreccio tra biologia, economia e politica rende i nostri governi bio-poteri che, letteralmente, amministrano la nostra vita fisica. Oggi, accettiamo di buon grado un isolamento necessario ma dobbiamo essere coscienti del fatto che, parafrasando Foucault, “il buon pastore” – almeno quando è veramente buono e questo, certamente, non è il caso di Donald Trump in questo frangente – non solo ci protegge, ma ci governa. Stiamo sperimentando un nuovo “stato d’eccezione” – città in condizioni simili a un coprifuoco, con le inevitabili limitazioni ai diritti fondamentali – che domani potrebbe rappresentare un sostanziale precedente in quanto a restrizione della libertà, impedimento di azioni collettive e imposizione di politiche di austerità in nome del recupero nazionale, la sicurezza collettiva e la salute pubblica. Giorgio Agamben ha sicuramente sottostimato la gravità di questa pandemia ma non per questo i suoi avvertimenti sono meno pertinenti.
Il modello antropologico stabilito dalle politiche pandemiche – lavoro da casa, lockdown e autoisolamento – corrisponde del tutto al concetto di libertà definito dal liberalismo classico: il trionfo della libertà “negativa” (circoscritta a un ambito puramente individuale) contro la libertà “positiva” (l’azione collettiva nella sfera pubblica). Questo modello antropologico è agli antipodi sia della “comunanza” che della cultura di sinistra, le quali storicamente sono state forgiate e trasmesse attraverso l’azione collettiva. Ciò significa che dobbiamo reinventare pratiche che possano sostituire, almeno durante la transizione, le forme tradizionali di mobilitazione di massa.
Questa crisi sta mettendo alla prova la capacità di vivere delle nostre società, estendendo il lavoro di individui isolati. Per esempio, corriamo il rischio che il lavoro da casa aumenti, cancellando la nozione stessa di “tempo del lavoro”. E giacché diversi servizi e produzioni necessitano di interazione fisica, ciò potrebbe combinare le diseguaglianze sociali con le diseguaglianze sanitarie (l’esposizione diseguale alla malattia). In altre parole, le diseguaglianze sociali possono diventare diseguaglianze “biologiche” e il buon pastore può diventare un pastore autoritario ed eugenetico. Perciò, dovremmo prendere questa crisi come opportunità per riabilitare molti lavori essenziali – non solo quelli di infermieri o impiegati degli ospedali – che ci permettono di sopravvivere e sono oggi tra quelli più mal pagati. Questo è il significato delle manifestazioni spontanee delle persone che applaudono i conducenti di ambulanze e di autobus dalle loro finestre.
Sembra che una delle letture più popolari in questi tempi straordinari sia La Peste di Albert Camus, un romanzo che ritrae la città di Orano devastata da un’epidemia e racconta di un prete, Padre Paeloux, che la accetta come punizione inflitta da Dio sull’umanità peccatrice. Questa posizione filosofica e morale, così caratteristica del conservatorismo oscurantista e anti-umanista, non può certo essere condivisa dalla sinistra, però merita una certa meditazione.
È certo che la Covid-19 non è né la prima né la peggiore pandemia della storia dell’umanità. Sappiamo tutti che nel Trecento “la peste nera” decimò la popolazione europea e che, negli anni Venti del Novecento, la cosiddetta “influenza spagnola” uccise più persone della Grande Guerra. Lo storico dell’Aids Mirko Grmek ha ripercorso la storia globale come una successione di epoche pandemiche e ha sottolineato che queste malattie hanno sempre avuto profondissime conseguenze demografiche ed economiche. Ma è anche vero che, considerando l’impatto economico, sociale e ambientale del Coronavirus, che va ben oltre la sua dimensione biologica, esso ci appare come una sorta di “vendetta della natura”.
Ovviamente questo non significa stigmatizzarne i portatori, e ancor meno le vittime; come ho detto prima, appartengono ai settori più vulnerabili delle nostre società e cerchiamo di proteggerli, salvarli ed eventualmente, poterli piangere. Piuttosto significa meditare una metafora potente: siamo di fronte a una nuova “rivolta della natura” – prendo in prestito quest’espressione da Max Horkheimer – contro la minaccia di una civiltà che ha creato forze di produzione titaniche e le ha trasformate in mezzi di distruzione (prima di tutto distruzione dell’ambiente e distruzione della capacità di autoregolazione e autoriproduzione dei nostri sistemi ecologici).
Le strade delle nostre città sono deserte e la produzione è calata drasticamente; la natura sta riconquistando i suoi diritti. Ciò che una teologia politica reazionaria vedeva come il flagello di Dio oggi può essere interpretato, in termini secolari, come una punizione di ordine naturale.
Finora, abbiamo sperimentato un’incredibile e rincuorante ondata di solidarietà e mutuo-aiuto collettivi. Un paese come l’Italia, in cui fino a pochi mesi fa la scena politica era dominata da un leader razzista e xenofobo come Matteo Salvini, riceve ora medici e infermieri cinesi, cubani e albanesi come fossero eroi. Le persone sembrano aver compreso che abbiamo bisogno di una risposta globale e solidale e che la ricerca di capri espiatori è una questione letale. Ma non sono sicuro che prevarranno gli stessi sentimenti dopo un anno di crisi economica.
Correndo il rischio di apparire irrimediabilmente arcaico, direi che dobbiamo essere preparati a un cambiamento duraturo che potrebbe rinnovare la vecchia alternativa: “socialismo o barbarie”. Sono consapevole del fatto che, un secolo più tardi, questo slogan non possa essere condiviso con leggerezza. Sappiamo che il socialismo stesso può diventare il volto della barbarie ma ciò non cambia la sensazione che ci troviamo di fronte a un dilemma storico: o ci sarà un New Deal del ventunesimo secolo, che chiuderà definitivamente il ciclo neoliberista inaugurato negli anni Ottanta, oppure ci aspettano tempi orribili, con governi neoliberisti dalle fattezze ancora più diseguali e autoritarie.
La riproduzione del fascismo o del totalitarismo; un po’ diversa ma non per questo meno da incubo. Una politica per il futuro dovrebbe trovare una convergenza tra la lotta per salvare il pianeta e la lotta per il “diritto universale al respiro”, come l’ha giustamente chiamato Achille Mbembe, il diritto di esistere per ogni essere vivente, al di là di razza, status economico o sovranità statale.