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Covid e regioni

Illustrazione di Elisa Francioli
1 Dicembre 2020
Paolo Lanaro

È arrivato il momento di aprire una discussione seria sulle Regioni. Esistono da cinquant’anni e per una buona parte di questo periodo nessuno sapeva neanche cos’erano, salvo vederle raffigurate sulle carte geografiche. Sono servite, ammesso che oggi non sia più così, a collocare politici di seconda o terza fila, a fare un po’ di clientelismo, a distribuire soldi a casaccio. Erano state create per adempiere l’articolo 114 della Costituzione, dopo le nefandezze centralistiche e autoritarie del fascismo. In realtà non hanno mai funzionato e non hanno mai avvicinato i cittadini alle istituzioni. Credo che sarebbe sufficiente un sondaggio banale con il quale chiedere per esempio ai veneti dove si trova la sede del Consiglio regionale (a Venezia, certo, ma dove?) per rendersi conto di quanto sia lontana la Regione, più del Parlamento e della Presidenza della Repubblica. Il Covid ha purtroppo accelerato il processo degenerativo. Le Regioni sono diventate nient’altro che dei centri di potere in costante conflitto con lo stato centrale. Non era questo che si voleva quando è stata prevista e costituzionalmente autorizzata la loro istituzione. L’obiettivo era quello di trasferire competenze, di decentrare, di snellire la macchina dello stato e di creare uno strumento nuovo, più flessibile rispetto al passato e a quanto viene predicato dal costituzionalismo liberale, di cui il cittadino potesse avvalersi nel rapporto con lo stato. È avvenuto tutto questo? No, sono state solo demandate funzioni senza un progetto e senza un criterio plausibile. Non è necessario ricorrere a Mortati per rendersi conto che le nostre Regioni più che alla necessità dello Stato di rendersi capillare grazie a una struttura di tipo federale, sono servite a disegnare e a contestare poteri substatali utilizzati da questo o quello schieramento politico.

In un articolo recente Nadia Urbinati ha fatto notare come i presidenti di regione (o più pomposamente: i governatori) siano molto attivi quando si tratta di tagliare nastri o alleggerire le restrizioni statali in materia sanitaria, ma lo siano molto meno quando si tratta di assumere decisioni che possono essere impopolari anche se indispensabili. Le Regioni, ha scritto Urbinati, nella situazione innescata dalla pandemia virale in realtà sono parte del problema e non certo la soluzione, anche a causa “di quel coacervo di poteri concorrenti e mal definiti messo in piedi dal titolo quinto della Costituzione”.

Oggi i governatori rivendicano un ruolo e uno status che, nelle loro intenzioni, li assimila ai ministri. C’è da essere perplessi di fronte a tanto esibizionismo e a tanta vacuità. E si badi bene che non si devono fare distinzioni tra destra e sinistra: Fontana e Zaia non sono meglio o peggio di Emiliano e De Luca, ne sono soltanto una variabile meno sgarbata e insolente. Perfino un giornalista prudente come Massimo Franco ha scritto sul “Corriere della Sera” che la cosiddetta “seconda ondata” del virus sta portando alla luce più protagonismo che senso di responsabilità, più pettorutismo che consapevole sobrietà. La lotta politica in Italia sembra oggi esprimersi attraverso un modo diverso di interpretare l’autonomia regionale invece che attraverso l’eterno e irrisolto conflitto tra i deboli e i forti, tra i sommersi e i salvati.

Forse, anzi senza forse, è venuto il momento di chiederci per quale motivo dobbiamo spendere quel che spendiamo per le regioni senza un ritorno significativo in termini di servizi e di assistenza (es. la Calabria ha 1,95 posti letto in ospedale ogni mille abitanti, meno della metà di molte altre regioni). Prendo un dato da un articolo di Paolo Balduzzi apparso tempo fa sulla Lavoce.info, un noto sito di economisti italiani. Nel 2015 la spesa totale per le Regioni è stata di 526 miliardi di euro, di cui 480 miliardi di spesa corrente (redditi di lavoro dipendente, consumi, prestazioni sociali, interessi passivi). Mi domando se e in quale modo questa enorme massa di denaro abbia migliorato, come sarebbe da aspettarsi, la nostra qualità della vita. Credo che non lo sappia nessuno. E dunque? Non si può, meglio ancora, non è divenuto obbligatorio metter mano a una profonda revisione del nostro assetto istituzionale, magari abolendo le Regioni e ripristinando le Province, più piccole e sicuramente più vicine alle richieste politiche dei cittadini? Mi rendo conto che le dimensioni limitate non necessariamente garantiscono efficienza e agilità istituzionale. Ma se l’esperienza delle Regioni è quella che abbiamo davanti agli occhi, e cioè una lotta politica spezzettata e caotica, perché non invertire la rotta?

Qualche mese fa, dando credito all’ineffabile visione del mondo dei 5 Stelle, abbiamo votato per il taglio dei parlamentari (personalmente ho votato No, sia chiaro). Senza nessuna analisi di come stanno davvero le cose, senza pensare che la nostra democrazia ha bisogno di più spessore, senza capire che il rigetto qualunquista della politica è solo il primo passo verso una società autoritaria di massa. Purtroppo il Pd, terrorizzato dall’idea di trovarsi dalla parte dei perdenti, si è acconciato alla linea “senza mormorare”. (Ci rivediamo tra 5 anni con i dati sulla produttività legislativa dopo la cura dimagrante…)

Già ad aprile del 2020 Sabino Cassese, in un’intervista, aveva cominciato a ipotizzare una clausola di supremazia dello stato sulle Regioni. In realtà era la riforma Boschi del 2016, bocciata con sdegno da una parte del Pd e dal centrodestra e oggi riproposta dallo stesso Pd con un disegno di legge che garantisca la tutela dell’interesse nazionale sugli interessi locali.

All’inizio, ricorda Cassese, la regionalizzazione riguardava solo l’agricoltura, la sanità, i lavori pubblici e i trasporti. La via intermedia tra federalismo e stato centralizzato, scelta dall’Italia, suscitò interesse a livello internazionale, tanto da influenzare l’ordinamento spagnolo e quello francese. Tuttavia col passare del tempo si sono create tali e tante incrostazioni burocratiche che hanno finito per appesantire la macchina statale e per rinnovare un antico difetto del nostro paese: la bassa stateness, la debolezza dei poteri centrali di fronte a sub-poteri sempre più invasivi e sempre più orientati a costruirsi con strumenti propri consenso e adesione (che si tratti di Regioni o di altro).

Per dire fino a che punto ormai le cose si stiano ingarbugliando e come sia diventato indispensabile mettere all’ordine del giorno un ridimensionamento dei poteri regionali, o almeno una loro razionale ridefinizione.


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