Cosa stiamo facendo ai nostri bambini?

Grazia Honegger Fresco è scomparsa il 30 settembre scorso. Pedagogista, erede di Maria Montessori e nostra affezionata collaboratrice, Grazia si è distinta per il suo impegno decennale nell’innovazione e divulgazione di tecniche pedagogiche, e nella formazione di educatori della prima infanzia. La ricordiamo con alcuni suoi grandi scritti, pubblicati per noi su Lo straniero.
da Lo straniero n. 8 autunno 1999
Il mondo dei bambini occidentali oggi non si divide più semplicemente tra ricchi e poveri con fasce intermedie, ma tra piccoli, dissennati consumatori (con la collusione compiaciuta degli adulti) e bambini cui il territorio degli acquisti continui, anche stupidi, è precluso. Sono i bambini di strada, i piccoli dei vicoli e delle baraccopoli, dei Sinti e dei Rom che non hanno nemmeno l’acqua e un rifugio caldo. Tutti gli altri, dal figlio del modesto operaio a quello del ricco industriale, consumano, più o meno, tutti le stesse cose: i Kinder Ferrero e le Barbie, i mostricciattoli di plastica e le imitazioni dei personaggi televisivi, gli inutili accessori per la cartella scolastica e gli assorbenti pluriprotettivi per culetti da mordicchiare, come dice un’idiota pubblicità televisiva. L’orgia del superfluo: l’assorbono come una seconda natura.
Da quando? Dalla nascita, ovviamente, con la culla “romantica”, ovvero coperta di veli che non permettono al piccolo alcuna visione, appena sia pronto per farlo, e poi le creme, i succhiotti – veri tappi per risolvere ogni pianto del piccolo senza capirne le reali necessità –, il latte in polvere, quando le madri non trovano in ospedale sufficiente supporto all’allattamento materno già nei primi minuti dopo il parto. Il tutto molto costoso, ma per un figlio – si sa – non si bada a sacrifici.
Di lì a poco, non appena comincia a crescere, ecco pronti il letto con le sbarre, il recinto, il girello, il balla-balla: veri strumenti di tortura, se si guarda alle progressive capacità motorie di un bambino, ma molto comodi per l’adulto. Il piccolo è in gabbia e non disturba; è alla nostra altezza e non c’è da chinarsi. I nonni fanno a gara per questi doni “utili”. Nessuno che pensi piuttosto a preparare un letto basso, un tappeto o una moquette anche usati, da coprire con una semplice fodera di cotone: soluzione a costo quasi zero, preziosa per un bambino che da sé, a poco a poco, scoprirà con le proprie forze come strisciare, rotolare, mettersi sulle ginocchia infine alzarsi in piedi. Si dice: “Poverino! Che fatica!” L’adulto (che odia per sé lo sforzo) lo tira su e lo “infila” nell’attrezzo a disposizione: evita così il continuo contatto fisico – comune in altre culture – che un piccolino chiede sopra ogni altra cosa. Così l’inutile consumo va contro il benessere del bambino, gli impedisce di fatto di seguire le possibilità naturali e i tempi di crescita: lo stimola a essere sempre oltre, più avanti di altri.
Verrebbe da dire che in passato “si davano” i figli al mondo, oggi invece un solo figlio deve “possedere” il mondo anche per noi, che spariremo senza lasciare traccia. Eppure non lo si favorisce nel modo più consono. Proprio perché attualmente nascono pochi bambini, si potrebbero convergere le energie per dare loro l’aiuto più saggio e invece no: in famiglia o inseriti precocemente – poveri e ricchi nel senso detto sopra – in istituzioni spesso poco attente al delicatissimo periodo di ambientamento e alla separazione dai genitori e dalla casa, i piccoli soffrono di crisi di abbandono. Allontanati, il più precocemente possibile, dal corpo materno, restano a lungo piccoli, immaturi. A tre anni o più portano ancora il patello, a quattro o cinque non riescono a rinunciare al ciuccio, allo straccetto o al pupazzo. Gli oggetti “transizionali” sono diventati àncore contro la disperazione del trovarsi soli: di essi i genitori ricordano ai figli di continuo l’uso, perché non riescono a sostenere i pianti rabbiosi, i ricatti dei loro piccoli. La parola d’ordine, a tutti i livelli sociali, è possedere. L’ovetto di cioccolato un tempo limitato al tempo pasquale, è ormai dolce di tutti i giorni; a novembre già si entra nell’orgia del Natale e il 25 dicembre non c’è bambino della fascia “consumatori” che non riceva decine di giocattoli con montagne di carta e di nastri regalo da convogliare nella spazzatura. (D’altra parte in una società basata sulla centuplicazione del desiderio, eguagliato di fatto al bisogno, come fa un genitore a porsi sempre e comunque come solo modello alternativo? Non è affatto facile e può avere effetti nefasti d’altro tipo!). Un’amica che lavora in un centro di pronta accoglienza con bambini di situazioni davvero disastrate, mi dice che la differenza è se mai nel buon gusto, nella qualità più raffinata dei tessuti, ma non c’è bambino che non abbia più copie di giacconi, scarpe, maglioni e magliette, per non parlare ovviamente dei giocattoli che, a tutti i livelli, sembrano oggetti per tacitare i sensi di colpa dei genitori, che desiderano vedere il figlio contento almeno il primo minuto.
‘Te l’ho comprato: perché non ci giochi? e ritornello frequente. In realtà oggi i bambini cercano altro – chiedono avidamente attenzione. Isolati dai coetanei nelle villette o nei condomini di piccole o grandi città, non trovano risorse se non nella compagnia di persone adulte. Chiedono di continuo lo sguardo approvante di un parente: senon è dipendenza questa! D’altro canto i figli sembrano essere poco presenti nella mente di molti genitori o lo sono nell’ottica del possedere e del produrre più che dell’aiutare la loro vita in espansione. Si direbbe che gli adulti abbiano pensieri in continua diaspora per le tante preoccupazioni, ma anche in fuga dalla realtà, con la complicità della onnipresente TV. (Viene in mente il suo protagonismo nel toccante Ladrodibambinidi Gianni Amelio). Così il video diventa il più semplice ed economico dei surrogati e le relazioni familiari, come del resto il gioco infantile, risultano quanto mai impoverite.
Un lavoro bellissimo proposto alle educatrici nei Nidi di mezza Europa dalla psicologa inglese Elinor Goldschmied, è stato quello di recuperare tanti oggetti casalinghi, ovviamente non pericolosi, in legno metallo vetro pietra, elementi naturali, perché già prima dell’anno i bambini possano sperimentare materiali diversi. Le esperienze sensoriali che la grande Montessori tanto raccomandava, praticamente sparite dalle nostre scuole materne, dovrebbero cominciare molto prima, all’alba delle prime esplorazioni occhi-mano-bocca. E no, dicono molti solerti funzionari delle Usl e delle Asl: solo plastica nei Nidi, niente che non sia giornalmente lavabile e disinfettabile, esattamente come i succhiotti, quotidianamente immersi nel liquido apposito la cui base è un sale di cloro. (Malgrado i risciacqui, alla lunga quanto ne ingeriscono i bambini?)
L’igiene impera, ma solo quella delle salmonelle e company. Attenzione all’igiene mentale zero. Niente di vero va dato ai bambini, ed ecco Nidi e Materne riempirsi di lavelli fìnti (l’acqua è pericolosa perché bagna!), di cucinette finte dove si danno ai bambini tutte le possibili imitazioni del mangiare, rigorosamente in plastica; dal pollo arrosto al panino, dal grana all’uovo fritto, dal pesce alla frutta.
Materiali che hanno costi molto elevati non sono biodegradabili e, quel che è peggio, non arricchiscono minimamente l’esperienza dato che solo integrazione sensoriale tra le varie sensazioni (un’arancia vera è colorata, rotonda, profumata, morbida o dura, rugosa o liscia…) può aiutare la formazione dei concetti base di cui l’intelligenza del bambino è così affamata. Esperienze in cui tale integrazione non sia possibile o addirittura risulti deviata (che cosa mi dice un’ingannevole arancia di plastica?), a farne le spese è la sua capacità di comprensione del mondo.
Nei Nidi dove si attua un intelligente ascolto dei bisogni individuali la ricerca di materiali significativi passa dalle educatrici alle famiglie che scoprono il lusso di recuperare oggetti fatti o trovati in casa, interessanti da esplorare (un pennello da barba, un pentolino…) e li mettono a disposizione dei figli in una cesta, invece di acquistare di continuo giochi didattici. Viceversa nelle istituzioni infantili in cui il moderno viene esaltato al massimo, le orripilanti imitazioni diventano modello e indicazione per i genitori che comprano anch’essi le forbici che non tagliano, il finto bancone da falegname, la finta tinozza: pessimo design e tutto in plastica coloratissima, costoso e funzionale a un tipo di attività ben presto esaurite.Bisogna infatti distinguere tra il gioco del “far finta (le foglie che diventano piatti e i sassolini pastasciutta, improvvisato in un giardino) e quello del fingere di fare come i grandi, con oggetti che riproducono utensili proibiti. Il primo è un evento creativo, del tutto originale, tanto che quelle foglie possono diventare in un altro momento denari o barche o altro ancora. Fingere di imitare è invece sterile: che cosa posso inventare con un uovo fritto di plastica?
Lo stesso si può dire della bambola con la faccia di pianto, che fa la pipì e altre prodezze, che ha arredi ben più ricchi di quelli dei bambini stessi; delle auto che suonano e si muovono a comando. Il gioco diventa asettico e a senso unico e i bambini non sembrano provare altro piacere se non nel dire: “Ce l’ho anch’io, come i miei compagni!…” (Centinaia di peluchevennero a suo tempo inviati ai bambini del terremoto: è sicuro che non avessero bisogno o non desiderassero altro?) E poi si dice che i bambini sono noiosi, che si interessano solo al televisore o al massimo a un pallone!
“Ma per recuperare il casalingo, qui si mette in crisi qualche settore produttivo” obietta un padre. Il discorso è diverso: anziché lasciarsi condizionare da ciò che il mercato offre e che quasi mai risponde ai bisogni dei bambini, sarebbe importante favorire nelle famiglie una capacità critica che, diffusa, potrebbe a sua volta condizionare le scelte degli industriali, limitando al massimo l’acquisto di regali e di oggetti superflui, non cedendo alle mode. Utopia?
In un Nido una madre (lei impiegata, il marito rappresentante) dice orgogliosamente all’educatrice che a Natale ha regalato al figlio (due anni e mezzo) un computer- giocattolo: “Vedesse come è già capace di cliccare e di far muovere i personaggini sullo schermo!”. Questo stesso bambino, osservano però gli adulti del Nido, è inquieto, instabile: linguaggio sviluppato, ma capacità motorie e manuali molto ridotte, difficoltà a condividere qualcosa con i compagni. Povero bambino ‘ricco’: in un’età in cui avrebbe bisogno di giocare con la sabbia e con l’acqua, con i pezzi di legno e con la bambola, è lì come un robottino davanti al piccolo schermo. L’anticipazione, l’abilità condizionante di battere un tasto per vedere comparire questo o quello non lo aiutano a modificare il comportamento, non arricchiscono – e su questo molti genitori si illudono – le sue capacità mentali.
Ci sono altri aspetti da considerare. Ad esempio i genitori lamentano che i bambini non solo non giocano più da soli, ma diventano sempre più tirannici ed esclusivi. Il gioco simbolico, quello che aiuta a fantasticare, a giocare ruoli diversi, a buttare fuori rabbie, paure, risentimenti, a immaginare imprese impossibili e audaci vit torie, rischia dunque la fine. Impoverito da falsi giocattoli e dai fumetti televisivi che riempiono la mente di modelli inarrivabili, dall’intromissione di adulti che pretendono di insegnare “come si gioca”, il bambino di oggi non trova più dentro di sé il partner con cui inventare, né, spesso, riesce a condividere con un compagno in carne e ossa le invenzioni del gioco.Il veleno della competizione, delle gelosie non sostenute dagli adulti, 1 attesa di sempre
nuovi premi tolgono ai bambini il piacere dello sforzo, del mettersi alla prova. D’altro lato la città, la scuola non lasciano spazio al gioco libero. Le città, la cui attuale bruttezza e invivibilità sono cominciate negli anni del boom economico, non offrono più ambiti rassicuranti, giardini, strade o piazze dove i bambini si possano incontrare. Quanto alle scuole, appaiono sempre più organizzate per soffocare le iniziative autonome e, negli adulti, la capacità di ascolto.
Chiedo a un ragazzino di sei anni con cui sto chiacchierando chi siano i maestri che egli nomina. Mi risponde: “Sono quelli che fanno fare le cose” e aggiunge: “Anche le maestre”. Si capisce che le “cose” sono quelle dei programmi, non quelle che effettivamente piacciono ai bambini, perché in tal caso il gioco avrebbe un suo spazio, anche minimo, e sarebbe da loro “riconosciuto”. E invece no.
No al gioco “futile e individualista” (parole di un’insegnante), sì al gioco sportivo che organizza, addestra, mette in anticipo nell’ottica di chi vince e chi perde. (Vedi le scuole sempre più precoci di calcio e di pallacanestro, di nuoto o di sci, autentici vivai per pescare futuri campioni, ma anche i tanti corsi pomeridiani di karaté o danza, palla a volo o pattinaggio cui i bambini vengono condotti dopo la scuola.)
Mi è accaduto di vedere in una Materna un’attività cosiddetta “psicomotoria” (saltare dentro e fuori dai cerchi messi in fila a terra, al comando di un tamburello) concludersi con una premiazione – “Lo facciamo sempre, per stimolarli!” – facendo salire i tre più “bravi” su tre cassette disposte come nei giochi olimpici. Meglio non commentare!
Il discorso dei premi è quanto mai doloroso: oggi si puniscono meno i bambini rispetto ai metodi plateali del passato, tipo orecchie d’asino e fagioli sotto le ginocchia, ma si usano modi più sottili per indurre comportamenti e ottenere risultati. Si esaltano i cosiddetti capaci nella convinzione – esplicitata da alcune maestre, ma evidentemente diffusa – che questo sia un modo meno aggressivo di educare. Si vuole ignorare che umiliazione ed esclusione siano deterrenti della peggiore specie, esattamente come il sistema dei voti, delle pagine strappate, dei continui confronti su cui si basa l’intero curriculumscolastico. Questa modalità diffusissima allena i bambini fin dai primi anni ad agire solo in vista di un riconoscimento, di un vantaggio, loro che d’istinto sarebbero generosi e disinteressati; ad allenarsi su meccanismi di rivalsa, spionaggio, accusa, loro che d’istinto sarebbero pronti a collaborare, ad aiutare il compagno in difficoltà. È ovvio dunque vedere comportamenti defor mati, indotti da adulti che, malgrado diplomi e lauree, sempre meno conoscono i bambini. Anzi, imbottiti di teoria come sono, finiscono per usarla con di loro. (E questo è l’inganno delle scuole per i futuri insegnanti!)Nei corsi di aggiornamento o di supervisione cui a volte sono chiamata a partecipare acca
de per fortuna di incontrare educatori sensibili e istintivamente capaci di relazioni valide con i bambini e tuttavia facilmente in difficoltà di fronte alla critica, all imprevisto, all’obiezione di un genitore. Fragili, si direbbe, come gli allievi di cui sono responsabili.
Un verbo negativo che oggi ricorre sulla bocca di insegnanti e di genitori è stimolare, ovvero spingere in avanti, far imparare, nella totale sfiducia di possibilità originali della persona infantile, cui hanno rubato non solo il gioco, ma anche il tempo, il lento ritmo delle conquiste personali, il gusto di ripetere, di soffermarsi a proprio piacere su questo e non su quest’altro.
La scelta da parte del bambino è inesistente, anche se di continuo oggi gli adulti chiedono: “Che vuoi fare? Andare dalla nonna o stare a casa? ”, “Vuoi i calzoni blu o la gonna?” e perfino “Vuoi andare al mare o in montagna ?”. Anche i maestri fanno scegliere, per poi escludere: “Chi vuole andare a musica?” “Io, io io” “No, no, siete troppi, tu andrai domani…”. Sono esperienze all’ ordine del giorno. Una scelta mistificata. Finta.
Di fatto i bambini non si sentono accolti con i loro sentimenti e fin dai primi anni vengono immessi in un filone produttivo di efficienza, di velocità. Questo vale non solo per il gruppo “consumatori”, ma anche per gli altri, i veri poveri, di solito etichettati come “zavorra”, “caso sociale”, “fa quel che può”. Nella scuola , ripetitiva che insegna a colpi di fotocopie, vengono visti come fattori pericolosi i desideri, le emozioni, le amicizie; eppure rispondere ai bisogni non significa accontentare senza misura, così come indipendenza non è fare ciò che si vuole, come si vuole.
Quando i bambini hanno un ben definito spaziodilibertàentro cui agire, secondo l’immagine del grande medico francese André Berge, allora sì che stanno bene: uno spazio in cui ci siano solo oggetti significativi per il loro livello di sviluppo e per i’ loro interessi, evitando il superfluo, e i cui limiti siano indicati da regole accettabili, con un adulto che non fa “il comandante”, come dice il mio interlocutore di sei anni. È allora che un corretto atteggiamento pedagogico aiuta il bambino a strutturare il proprio Io, ma al tempo stesso ne rispetta il mondo interno nel quale peraltro non si deve entrare. (Invece, anche qui, genitori ed educatori pronti a intrufolarsi, spa rare diagnosi, dare spiegazioni psicologiche confondendo ancora di più le acque.) Nello spazio condiviso e direttamente esplorabile, dove l’eventuale errore è considerato non una colpa ma un… amico che fa crescere, il bambino diventa protagonista del proprio sviluppo e, senza spinte dirette, si mostra interessato, socievole, indipendente. Non ci sono più allora bambini di serie A e altri di serie B. Ognuno percorre la sua strada come può, al meglio di sé, senza voti né premi.
Altra utopia? Ah no, questa no. È una realtà troppe volte constatata per non sapere che è sempre attuabile (anche se andare contro corrente non è mai facile). Possiamo citare maestri dimenticati come Montessori o Freinet, Decroly o Paulo Freire, Mario Lodi o Don Milani e tanti altri, sconosciuti, isolati: in lotta con i colleghi e con le direzioni didattiche cercano di operare al meglio nel rispetto di ciascun bambino loro affidato. Troppo pochi purtroppo per opporsi alle interpretazioni diseducative dei programmi ministeriali e alle pretese burocratiche di una scuola che dovrebbe essere di tutti e non lo è, né pubblica né privata, dato che queste modalità sono diffuse ovunque e fuori da ogni controllo.
Come sono i bambini di oggi? Si dice: “Più svegli di una volta” No, semplicemente hanno una maggiore capacità verbale. Gli adulti parlano molto di più con loro, spiega no, li spingono a comunicare e questo è certamente un bene, solo che non rispondono con altrettanta sollecitudine al desiderio di agire in modo autonomo che il bambino manifesta fin da quando, a un anno, vuole prendere da solo qualcosa che lo interessa.
Si instaura precocemente la lotta tra adulto e bambino a proposito del toccare, del fare da sé, mentre sono apprezzati il parlare, il correre, il saper precocemente tirare calci a una palla. Questo bambino che cresce… senza mani, mostrerà ben presto forte inquietudine, difficoltà a concentrarsi, a entrare in un rapporto tranquillo con gli altri. Le storie e i libri lo incantano, mentre colore o creta gli fanno paura perché teme di sporcarsi. Rifiuta di vestirsi e di spogliarsi da solo e di continuo chiede aiuto per le cose che fa, agendo solose ha un adulto vicino (abitudine che gli viene dal fatto che anche in casa ha sempre qualcuno accanto che lo “stimola” o lo “fa” giocare).
L’arricchimento del vocabolario e la prontezza delle risposte (non di rado aggressive ai primi No, offensive, perfino, nei confronti degli adulti) non compensano la perdita di contatto con la realtà, la difficoltà ad agire in prima persona. Sono fenomeni assai diffusi, riscontrabili nelle istituzioni infantili, con risultati disastrosi che si toccano con mano negli anni successivi. Rimediabili?
In una scuola materna tutte le mattine un piccolo di quattro anni fa scene spaventose per non lasciare sua madre, la quale è sempre incerta e spesso finisce per riportarlo a casa, mentre il fratello di un anno più grande entra senza problemi. Le scene hanno un rinforzo nel fatto che usciti di lì, la madre – per calmarlo – gli compra regolar mente qualcosa: la merendina o l’ultimo Batman, un ciupa-ciupa o il costume di Zorro. Madre benestante che se lo può permettere o madre incosciente che non si rende conto della demolizione sistematica del suo bambino? E questi è viziato o infelice? Incontri ripetuti con la maestra mettono in luce altri “privilegi”: mangia solo davanti al televisore; spesso bisogna rincorrerlo per tutta casa per lavargli il viso; la sera non vuole mai andare a letto ecc. ecc. Tutta la vita della famiglia gira intorno a lui. La madre vorrebbe far diversamente, ma non sa come, non osa cambiare, temendo il peggio. Dice i primi No con fermezza, mette fine agli acquisti alle fughe da scuola. Chiuso il video in un armadio, alle nove, al più tardi «i ° zano le luci. Sconcertato dal cambiamento, il bambino sente di avere le armi SpUntate. I pianti non mancano, ma i genitori, finalmente coalizzati, riescono a mantenere l’impegno preso. Nessuna aggressività, solo calma e chiarezza. Nel giro di due mesi il suo comportamento è modificato e tutti in casa vivono meglio.
Queste situazioni di conflitto oggi sono frequentissime nelle famiglie dei vari ceti sociali- non ci si sa più opporre ai bambini, mettere un freno alle loro provocazioni o dare attenzione equilibrata alle loro richieste. È come se gli adulti avessero paura della loro energia vitale. In effetti si è sconvolto il senso dell’autonomia e altempo stesso non si vede più l’importanza formativa di un minimo di frustrazione. Il bambino tiranno può essere il piccolino che nel primo anno di vita ha ricevuto scarsa atten
zione al suo sentire, alle sue esigenze di contatto e di stabilità o l’ha ricevuta in modo ansioso e discontinuo, passando precocemente per troppe mani. Ma diventa tiranno anche perché gli adulti, insicuri o poco maturi loro stessi, lo espongono di continuo a dubbi, a scelte verbali nelle quali ben presto capisce diuscirevincente: il timore del pianto, degli urli, del famoso “trauma” – sempre in agguato, secondo la solita psicologia selvaggia – paralizza i genitori. Diventano deboli, pronti a cedere o aggressivi fino alla violenza: due strade entrambe perdenti. La loro aspettativa per il futuro di un figlio è che “conquisti” il suo posto nel mondo con un lavoro “pulito”: programmatore, impiegato, bancario e così via, non certo l’idraulico o il falegname. A maggior ragione l’operaio aspira a questo e quindi non c’è nulla di casuale nel corso che ha preso l’educazione, dentro e fuori le istituzioni.
Anche se questo quadro negativo è, come già si è detto, predominante, pure sono tanti i genitori e gli insegnanti che, grazie a un loro equilibrio interiore e a una diversa con sapevolezza dei rapporti umani, stabiliscono con i bambini un rapporto sano di protezione, di osservazione affettuosa e di apertura senza cedimenti e sono quindi in grado nell’adolescenza di aiutarli a trovare una propria strada, malgrado le difficoltà attuali di occupazione.
C’è anche da dire che tanti bambini e ragazzi crescono al meglio delle loro possibilità malgrado noi adulti, malgrado una scuola oppressiva o banale, ma tale constatazione non può diventare una scusa per non cambiare, per non accorgersi di loro, persone dalle quali non solo abbiamo avuto “in prestito” il pianeta – come suona un detto ecologista – ma anche il futuro della specie. Il mondo si salva in primo luogo proteggendo la salute mentale, l’equilibrio e l’autentica gioia di vivere che ogni bambino nascendo rinnova per noi tutti.