In Trentino: le cooperative scolastiche

Quando si parla di cooperazione in ambito scolastico, uno subito pensa alla tradizione dell’attivismo francese (Célestin Freinet, Fernand Oury) e del Movimento di Cooperazione Educativa. In Trentino, invece, questa parola è indissolubilmente legata al nome di un prete, don Lorenzo Guetti, considerato a buon diritto il padre della cooperazione.
In un momento storico – la fine dell’Ottocento – caratterizzato da una forte crisi del settore agricolo e da una massiccia emigrazione oltreoceano, Lorenzo Guetti mostrò ai contadini delle sue valli che l’unica via d’uscita era quella di unire le forze. Nacque così nel 1890, a Villa di Bleggio, la prima Cooperativa di Smercio e Consumo, grazie alla quale i contadini potevano acquistare a prezzi accessibili la farina per la polenta. Dopo la sua morte, il modello cooperativo si diffuse in tutto il Trentino diventando uno dei punti di forza del suo sviluppo economico. Chi conosce un poco il Trentino sa bene che il modello cooperativo è una componente fondamentale della sua identità culturale; tanto che, da ormai diversi decenni, la Federazione Trentina delle Cooperative porta avanti dei progetti di educazione alla cooperazione nelle scuole che si basano sulla metodologia dell’impresa simulata. Il funzionamento è molto semplice. Su invito dei docenti, all’inizio dell’anno, gli esperti della Federazione delle Cooperative vengono a scuola per incontrare gli studenti, raccontano loro cos’è e come funziona una cooperativa e quali sono i principi su cui si fonda. Alla fine di questo breve ciclo di incontri, propongono loro di fondarne una. Gli studenti scrivono il loro statuto, scelgono il nome della cooperativa e creano il logo; poi eleggono il loro presidente, il contabile e tutte le altre cariche. Da quel momento si impegnano in una serie di attività che coinvolgono il territorio e promuovono i valori della cooperazione. Negli anni il progetto è cresciuto sempre di più e attualmente sono attive circa 56 cooperative scolastiche nelle scuole di ogni ordine e grado. Ogni cooperativa è diversa dalle altre: in genere sono di classe, ma possono diventare di plesso o di istituto. Per saperne di più sono andato a intervistare alcuni insegnanti. Il mio viaggio è iniziato a Vigolo Vattaro, nell’altopiano della Vigolana a pochi chilometri da Trento. Nell’Istituto Comprensivo del paese sono attive, sia nella primaria che nella secondaria di primo grado, diverse cooperative che si dividono i compiti fra loro: ce n’è una che gestisce l’orto della scuola e il mercato contadino; un’altra addetta alla vendita dei panini durante l’intervallo; un’altra ancora che vende le spremute, il tè e il caffè durante le udienze con i genitori; un’altra che costruisce dei manufatti in legno per il mercato natalizio… Gli studenti gestiscono le entrate e le uscite in modo rigoroso, conservano gli scontrini e, alla fine dell’anno, redigono il bilancio sociale dove rendono conto di tutto. Gli utili vanno poi devoluti a delle associazioni di volontariato o a delle organizzazioni non governative. Sono gli stessi ragazzi a sceglierle, dopo aver raccolto le informazioni necessarie ed essersi confrontati sui pro e i contro. Grazie alla cooperativa scolastica, mi spiega la prof.ssa Vanessa Bridi, “i bambini e i ragazzi imparano a relazionarsi tra coetanei e a prendere la parola, diventano più autonomi responsabili e sviluppano una maggiore consapevolezza di sé, con le ovvie ricadute sulle loro capacità di orientamento”. Come sottolinea la prof.ssa Silvia Mondini, “tutto questo può esistere perché è stato creato un contenitore apposito: l’ora di compresenza”, ovvero un’ora a settimana nella quale in classe c’è sia l’insegnante di italiano che l’insegnante di scienze; un’ora in cui però non si fa né italiano, né scienze, ma si lavora alla cooperativa. È una novità non da poco se si tiene presente il ben noto attaccamento degli insegnanti per le “loro ore”. A Vigolo, la cooperativa ha messo in moto un circolo virtuoso che, negli anni, ha trasformato in senso democratico e partecipativo la scuola. Da circa otto anni è infatti attivo il Parlamento degli studenti. “Il Parlamento – spiega la prof.ssa Viola – è composto da tutti i rappresentanti di classe e si riunisce periodicamente per organizzare e portare a termine un progetto come la festa di carnevale o quella di fine anno, ma può anche avanzare delle proposte per migliorare la vita scolastica. L’anno scorso ad esempio gli studenti ci hanno chiesto di fare due ricreazioni brevi invece di una sola lunga. È un livello superiore di coinvolgimento e attivazione dei ragazzi: è la vera partecipazione attiva”.
Naturalmente la cooperativa scolastica non poteva mancare nell’unico istituto trentino dove lavora un folto gruppo di maestre del Movimento di Cooperazione Educativa. Siamo a Dro, nella splendida Valle di Laghi, dove ho incontrato la maestra Alessia Parisi. In prima e in seconda elementare le maestre fanno un lavoro propedeutico con dei giochi cooperativi attraverso i quali bambini imparano il valore della collaborazione e dell’aiuto reciproco. In terza viene fondata la cooperativa, sempre con le solite modalità: incontri introduttivi con gli esperti della Federazione Trentina delle Cooperative, fondazione della cooperativa, divisione dei vari incarichi, eccetera. I bambini creano da soli le tessere dei soci che vendono al costo di un euro e depositano i loro soldi in un libretto aperto presso la Cassa rurale (che è anch’essa cooperativa). L’attività delle cooperative consiste essenzialmente nella creazione di manufatti di ogni genere, perlopiù ricavati da materiali di riciclo, che vengono venduti nei mercatini (a Natale e a fine anno). Anche in questo caso, gli utili sono devoluti ad associazioni no profit o a enti umanitari come Emergency e Operazione Mato Grosso. L’aspetto più interessante delle cooperative di Dro sta nell’approccio pedagogico, dove il modello dell’impresa simulata s’incontra con le tecniche cooperative del MCE e della Pedagogia istituzionale. “L’MCE – racconta Alessia – mi ha insegnato a sviluppare il concetto di cooperazione fino a stabilire uno spazio fisso dove i bambini potessero confrontarsi e imparare a prendere la parola, andando oltre la mera produzione di oggetti”. Alessia sembra sottolineare la necessità di passare dal fare cooperativa all’essere cooperativa, prendendo le distanze dalla “pedagogia del lavoretto” che rischia di annacquare il progetto della cooperativa scolastica.
Nelle scuole superiori le cooperative sono state introdotte nel 2016 a seguito della legge sull’alternanza scuola-lavoro (che in Trentino si chiama ancora così); pertanto sono attive esclusivamente nel triennio.
Passando dal primo ciclo al secondo, le cooperative perdono una parte della loro carica pedagogica e della loro capacità di abbattere i muri tra la scuola e il mondo esterno. Per rendersene conto basta pensare all’uso del denaro che dentro le scuole tende a essere un tabù (insieme al sesso e alla morte, come notava già Fernand Oury). Se nel primo ciclo gli studenti si trovano, a volte, a gestire anche grosse quantità di denaro, che custodiscono dentro una cassaforte nell’ufficio del dirigente o in un libretto aperto presso la Cassa rurale (l’apertura di un vero conto corrente è purtroppo impossibile per legge); nelle scuole superiori spesso questo non è concesso.
Anche l’investimento di energia e di tempo da parte dei docenti è inferiore nelle superiori. Non è prevista ad esempio l’ora di compresenza e la maggior parte delle attività sono svolte dagli studenti al di fuori della scuola. Ciononostante le esperienze interessanti e ricche non mancano.
La prof.ssa Irene Cagol mi ha raccontato ad esempio l’esperienza del liceo Bertrand Russell di Cles, in Val di Non, dove le cooperative scolastiche si impegnano ogni anno nell’organizzazione di un viaggio in Marocco che viene finanziato attraverso la produzione e la vendita di prodotti come yogurt, creme, saponi e piante. Quel che rimane degli utili viene devoluto alla comunità berbera del villaggio di Hassilabied che ospita gli studenti.
Nell’ultima tappa del mio viaggio sono andato a Pergine, nel liceo Marie Curie, dove le cooperative si dedicano esclusivamente ad attività di volontariato. La prof.ssa Lorenza Pisoni mi ha parlato della collaborazione tra la cooperativa di una quarta liceo delle scienze umane e la cooperativa sociale Amica che gestisce asili nido e case di riposo in Valsugana. “Le studentesse – racconta Lorenza – hanno iniziato con un’attività di raccolta fondi per promuovere un nuovo progetto nelle fiere. In seguito hanno chiesto di approfondire il modo in cui la cooperativa lavora da anni sulla psicomotricità, e hanno potuto ricevere una formazione specifica da operatori esperti. Nell’ultima fase sono state coinvolte nelle attività del Centro diurno per anziani dove, a partire dai loro ricordi d’infanzia, hanno realizzato dei giochi da bambini ma riadattati per essere fruiti dagli anziani”.
Chi mastica un po’ di pedagogia attiva non può non sentire una certa aria di famiglia. I punti di contatto con la scuola di Winnetka fondata da Washburne e, soprattutto, con la Pedagogia istituzionale di Oury sono numerosi. Nelle cooperative trentine c’è probabilmente una minore formalizzazione dei momenti assembleari – il famoso “consiglio” della Pedagogia Istituzionale – ma, di contro, una maggiore proiezione verso il mondo esterno. Nella piccola scuola di Rumo, in Val di Non, i bambini sono riusciti a raccogliere denaro a sufficienza per la costruzione di un depuratore degli scarichi fognari.
L’esperienza delle cooperative scolastiche trentine può forse contribuire ad animare il dibattito sul rapporto tra scuola e lavoro, che, negli ultimi anni, si è fossilizzato sempre di più attorno al nodo della tanto contestata Alternanza Scuola-Lavoro, sfociando in una contrapposizione tanto agguerrita quanto sterile tra i critici, in nome della “Cultura” impartita nelle aule scolastiche, e i gli entusiasti, che, sotto la maschera di un finto progressismo, promuovono un’idea di scuola come addestramento al lavoro.
Quando si parla di scuola e lavoro, non possiamo tuttavia prendere in considerazione soltanto la fascia d’età che frequenta il triennio delle superiori (16-18 anni), come se la formazione professionale venisse necessariamente dopo quella generale. L’esperienza delle cooperative scolastiche dimostra infatti che la cultura del lavoro può essere sperimentata persino da dei bambini con enormi vantaggi in termini pedagogici: l’operosità diventa un importante campo di prova per crescere, confrontarsi, fare delle scelte, imparare ad autogestire il proprio fare collettivo.
Benché la mia simpatia per le cooperative scolastiche sia più che evidente, non voglio affatto spacciarle come la chiave di volta per cambiare finalmente la scuola italiana. Sarebbe bello se fosse così semplice. Ma non basta creare una cooperativa per educare davvero alla cooperazione; così come, per educare al digitale, non basta installare in tutte le classi le LIM. A fare la differenza è – come sempre – la cornice pedagogica entro cui si interviene.
Mi viene in mente in proposito una frase di Philippe Meirieu: “Non credo che in pedagogia possano esistere norme di azione che funzionino ‘a colpo sicuro’, anche se ribattezzate buone pratiche e certificate da una marea di consiglieri scientifici e di ispettori generali”. È così. L’idea che insegnare si riduca ad ‘applicare un metodo’ come fosse la ricetta della pasta alla carbonara è molto diffusa di questi tempi. Proprio un paio di giorni fa mi è arrivata alle orecchie la notizia che una ben nota casa editrice scolastica si sta interessando alle cooperative scolastiche trentine e sta già confezionando il suo prossimo manualetto d’istruzioni con tanto di schede per gli insegnanti su “come creare la cooperativa di classe”…
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