Conversazione al centro di deportazione
poesie di Warsan Shire
traduzione di Paola Splendore
Warsan Shire è nata nel 1988 in un campo per rifugiati in Kenya da genitori somali. A circa un anno arriva in Inghilterra dove ha continuato a vivere nei pressi di Londra. Nota attivista e performer,Warsan pubblica le sue poesie prevalentemente in rete, ma anche su riviste internazionali. Molti i premi ricevuti, le residenze e i laboratori svolti in tutto il mondo. Nel 2014 è stata nominata “Young Poet Laureate for London”, un riconoscimento dedicato a poeti emergenti. Ha pubblicato tre piccole raccolte: Her Blue Body (Flipped Eye 2015); Teaching My Mother How to Give Birth (chapbook Flipped Eye 2016) e Our Men Do Not Belong to Us (Slapering Hol Press 2014). Una selezione delle sue poesie più recenti è apparsa nel volume Your Family, Your Body, Penguin Modern Poets 3, 2017.
quello che hanno fatto ieri pomeriggio
hanno incendiato la casa di mia zia
ho pianto come fanno le donne alla tv
piegandomi a metà
come una banconota da cinque sterline.
ho chiamato il ragazzo che mi amava
tentato di fare la voce normale
ho detto ciao
ha detto warsan, che c’è, che è successo?
ho pregato,
e queste sono più o meno le mie preghiere:
caro dio
vengo da due paesi
uno ha sete
l’altro è in fiamme
hanno bisogno di acqua tutti e due.
dopo, quella notte
tenendo un atlante in grembo
ho passato le dita sul mondo intero
e ho bisbigliato
dove fa male?
ha risposto
dappertutto
dappertutto
dappertutto
quello che abbiamo
I nostri uomini non ci appartengono.
Anche mio padre un pomeriggio se ne andò, non è mio.
Mio fratello è in prigione, non è mio. I miei zii, se ne
tornano a casa e gli sparano in testa, non sono miei.
I miei cugini, pugnalati per strada per essere troppo o non abbastanza,
non sono miei. Poi gli uomini che cerchiamo di amare dicono
che noi portiamo troppo dolore, vestiamo troppo di nero,
siamo troppo pesanti per averci accanto, troppo tristi da amare.
Così se ne vanno, e noi piangiamo anche loro.
È per questo che siamo qui?
per sederci al tavolo di cucina a contare
sulle dita quelli che sono morti,
quelli che se ne sono andati, e quelli portati via da polizia,
droghe
malattie
un’altra donna?
È assurdo.
Guarda la tua pelle, la bocca di lei, quelle labbra, quegli occhi,
Dio, senti come ride.
Il solo buio che dovremmo fare entrare nella nostra vita è la notte,
perché così almeno abbiamo ancora la luna.
Souvenir
Ti sei portata dietro la guerra
senza saperlo forse, sulla pelle
nelle valigie fatte in fretta
nelle fotografie
sbuffi rimasti tra i capelli
sotto le unghie
forse ce l’avevi
nel sangue.
Sei arrivata a volte con tutta la famiglia,
a volte con niente, neppure la tua ombra
sbarcata su nuova terra come un’apparizione dall’accento forte
jeans rigidi e un sorriso di disperazione,
pronta ad adattarti, lavorare sodo
dimenticare la guerra
dimenticare il sangue.
La guerra sta negli angoli del tuo salotto
ride insieme a te agli show televisivi
riempie i vuoti di tutte le tue conversazioni
sospira nelle pause delle telefonate
ti dà la scusa per lasciare situazioni,
incontri, persone, paesi, amore;
la guerra sta a letto tra te e il tuo partner
è dietro di te al lavandino del bagno
anche il dentista ha fatto un salto davanti al buco nero
della tua bocca. Sospetti
che forse ha visto la guerra lì dentro,
tutto quel sangue.
Conosci la pace come uno che è sopravvissuto
a una lunga guerra,
prendila un giorno per volta perché tutto
ha l’odore di una possibile guerra;
sai quanto facilmente la guerra può scoppiare
un momento tranquillo, quello dopo sangue.
La guerra ti colora la voce, la riscalda persino.
Non fa differenza se eri
l’assassino o un parente della vittima.
Nessuno fa domande. Forse eri tutte e due.
È un po’ di tempo che non baci più nessuno.
Tutto per te ha il sapore del sangue.
Conversazioni sul mio paese (al Centro di Deportazione)
beh, è stato il mio paese che m’ha spinto fuori, cacciato via, il coprifuoco e gli oscuramenti, come una lingua contro un dente che si muove. Oddio, sai com’è difficile parlare del giorno in cui la tua città ti ha afferrato per i capelli, trascinato oltre la vecchia prigione, oltre i cancelli della scuola, oltre i torsi bruciati e mutilati, impalati come bandiere? Quando incontro quelli come me riconosco il desiderio, la perdita, il ricordo della cenere sui loro volti. Nessuno lascia il suo paese a meno che il paese non sia la bocca di uno squalo. Per tanto tempo mi sono portata in bocca il vecchio inno nazionale che non c’è più spazio per un’altra canzone, un’altra lingua o un altro linguaggio. Conosco quella vergogna che ti avvolge come un sudario, che ti sommerge tutta. Ho fatto a pezzi e ingoiato il passaporto nell’albergo di un aeroporto. Sono piena zeppa di una lingua che non riesco a dimenticare.
*
Mi chiedono come sei arrivata qui? Non me lo vedi sul corpo? Il deserto libico rosso di corpi dei migranti, il golfo di Aden gonfio, la città di Roma senza giubbotto. Spero che il viaggio sia stato più di tutte quelle miglia perché i miei figli sono tutti nell’acqua. Credevo che il mare fosse più sicuro della terra. Vorrei fare l’amore ma i capelli mi puzzano di guerra e di tanto fuggire. Vorrei stendermi ma questi paesi sono come quegli zii che ti toccano, quando sei piccola, mentre dormi. Guarda tutti questi confini, che traboccano di corpi spezzati e disperati. Ho il colore del sole che brucia sul viso, i resti di mia madre non sono mai stati sepolti. Ho passato giorni e notti nella pancia di un camion; quando sono uscita non ero più la stessa. A volte mi sembra che qualcun altro porti addosso il mio corpo.
*
Sono poche le cose certe. Non so dove vado, il posto da cui vengo sta scomparendo, non sono la benvenuta e la mia bellezza qui non è bella. Il mio corpo brucia per la vergogna di non appartenere, il mio corpo desidera. Sono il peccato della memoria e dell’assenza di memoria. Guardo il telegiornale e la mia bocca diventa un acquaio pieno di sangue. Le file, i moduli, le persone alle scrivanie, gli inviti a presentarsi, il funzionario dell’immigrazione, gli sguardi per strada, il freddo che si insedia nelle ossa, la scuola serale di inglese, la lontananza dal mio paese. Ma Alhamdulilah tutto questo è meglio dell’odore di una donna che brucia, o di un mucchio di uomini che somigliano a mio padre e mi strappano i denti e le unghie, o di quattordici uomini tra le gambe, di un fucile, di una promessa, di una bugia, del suo nome o della sua mascolinità nella mia bocca.
*
Li sento dire andatevene, li sento dire immigrati di merda, rifugiati di merda. Come possono essere così arroganti? Non sanno che la stabilità è come un amante con la bocca dolce sul tuo corpo per un attimo; l’attimo dopo sei un fremito sul pavimento ricoperto di macerie, moneta scaduta che aspetta di tornare. Solo questo posso dire che prima ero come te, apatia, pietà, sistemazione ingrata e ora il mio paese è la bocca di uno squalo, ora il mio paese è la canna di un fucile. Ci vediamo dall’altra parte.