Contro l’individualismo civico
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Durante i diversi corsi di analisi matematica che seguii all’università – tra i corsi più belli che io ricordi, anche per via delle straordinarie capacità di un professore che seppi rivalutare soltanto dopo qualche settimana di lezioni (qualche mese, a essere onesti) –, una categoria di oggetti in particolare mi è sempre rimasta cara: gli insiemi di misura nulla. Sono cose buffe, questi insiemi, perché magari sono giganteschi e molto popolosi ma sono al contempo, in un certo senso, irrilevanti. Saltiamo a piedi pari le definizioni: si fa prima con un esempio. Da una spiaggia puoi togliere uno, tre, cinquanta, millemila granelli di sabbia e quella rimarrà comunque una spiaggia: da un insieme (che possiamo considerare) infinito ne avremo rimosso uno di misura nulla. E alla fine non cambia niente. Gli insiemi di misura nulla possono essere grossissimi, ma nello schema generale delle cose non contano granché. Mi perdonerà il mio professore di analisi per la brutale banalizzazione.
Qualche giorno fa alla radio passava una pubblicità di Eni che mi ha dato parecchio da pensare, a cercarla la si trova con relativa facilità su YouTube. In sostanza: l’italica multinazionale annuncia che da adesso ricicla l’organico per farne biocarburante avanzato. Bella cosa, lo dico senza ironia. Ma non si ferma lì, “non basta” come dice lo stesso spot. Perché per “fare davvero la differenza” c’è bisogno anche di Luca – che ricicla sempre la plastica –, di Silvia – che a casa è sempre attenta a non sprecare l’acqua – e di Chiara – che in città usa l’auto il meno possibile. Immagino che l’elenco potrebbe continuare. “Eni più Luca più Silvia più Chiara è meglio di Eni”, conclude lo spot (potrei aver sbagliato l’ordine dei nomi, fa niente). Ecco allora che mi sale del fastidio e mi tornano subito alla mente gli insiemi di misura nulla.
Questa storia che ognuno nel suo piccolo contribuisce a fare la differenza è un’idea che permea la nostra società a un livello preoccupante: ci viene insegnata fin dalla prima infanzia, “se tutti spegnessimo la luce quando usciamo dalla camera e chiudessimo l’acqua mentre ci laviamo i denti…”, e pensatori anche altrimenti parecchio svegli ci hanno costruito intere reputazioni. Ma soprattutto è la narrazione dominante in tanti, tantissimi, troppi casi dove la sproporzione dimensionale tra i grossi attori e i piccoli singoli a cui viene attribuita gran parte della responsabilità ricorda da vicino la sproporzione tra la spiaggia e i granelli di sabbia che presi a uno a uno – per quanto numerosi – rimangono un insieme di misura nulla. Tornando a Eni e più in generale all’imminente catastrofe climatica, è un’idea diffusa al punto che crediamo per davvero che “Eni più Luca più Silvia più Chiara” sia meglio di Eni.
Che da un lato è lapalissiano: aggiungendo a una cosa molto grande delle cose piccole si otterrà qualcosa di più grande di prima. Magari di poco più grande, magari più grande in modo trascurabile, ma più grande. Che poi dall’addizione si ottenga qualcosa di migliore, oltre che di più grande, come suggerito dallo spot tramite uno slittamento semantico utile almeno quanto fazioso, è tutto da dimostrare. In ogni caso, l’idea che una moltitudine numerosa di eventi singolarmente piccolissimi possa avere effetti misurabili è ben comprovata: ci si basano le campagne elettorali su quest’idea, per dirne una, al grido di “ogni voto conta”. Perché la spiaggia è in effetti fatta di granelli. Vale a dire che se a Luca e compagnia aggiungiamo altri miliardi di individui la faccenda si può fare in effetti rilevante.
Magari rilevante al punto che Eni non conta poi così tanto nell’equazione. Ed è qui che la narrazione si fa problematica, che assume più i contorni del proverbiale scovatore di pagliuzze tutto intento a indicare gli occhi altrui quando nel suo c’è una trave, un tizio lo sta pugnalando e la casa gli va a fuoco.
Intendiamoci. Non sto in alcun modo difendendo la sciatteria civica di tanti singoli, né promulgando del bieco benaltrismo, né tantomeno proponendo un “liberatutti facciamo l’accidenti che ci pare tanto non cambia nulla”. Anzi vorrei chiarire fin d’ora che la responsabilità individuale non è solo indiscutibile concettualmente ma un obbligo al quale a nessuno dovrebbe essere permesso di esimersi. “Siete lo stesso coinvolti”, diceva uno sveglio. Il mio problema non è nei confronti di una non esautorabile assunzione di responsabilità personale, ma sulla narrazione che ci siamo abituati ad accompagnare a quella attribuzione di responsabilità. Che, diciamocelo, fa almeno un poco ridere: Eni che dice a me di differenziare la plastica perché ognuno deve fare la sua parte. Risate amare. Risate cionondimeno. Consoliamoci con quelle e facciamocele bastare ché tra qualche tempo avremo tutti troppo caldo per ridere ancora.
Timothy Morton, nel fondamentale Iperoggetti, ascriveva il cambiamento climatico a una nuova categoria ontologica. Quella degli iperoggetti, appunto. Tali entità sono in prima analisi viscose – cioè influenzano direttamente o indirettamente tutto ciò con cui sono in relazione –, sono non-locali – ogni manifestazione dell’iperoggetto è soltanto una sua proiezione spazialmente localizzata – e agiscono su tempi scala non umani. È chiaro che il cambiamento climatico, di cui la catastrofe è la più probabile conseguenza, possegga in toto tali caratteristiche, e nel resto del saggio Morton elabora le sue riflessioni e propone dei passi per appropriarci dell’iperoggetto come categoria ontologica. Dovremmo leggerlo tutti, questo libro. Ma se i cambiamenti climatici sono davvero un iperoggetto, ed è facile vedere perché, ne segue subito che una narrazione mirante all’individuo di fronte all’immobilismo profittevole dei grandi attori è faziosa al limite dell’intellettualmente disonesto. Perché se pure è vero che ognuno deve fare la sua parte, sentirselo ricordare con costanza da governi pusillanimi, organizzazioni sovranazionali fantoccio e gigantesche corporation post-capitaliste sa più di attribuzione di colpa che di equa e pesata ripartizione di responsabilità. Come vedere Cthulhu avvicinarsi e gridare ai popolani che non hanno affilato abbastanza bene le spade.
È necessario un cambio di prospettiva deciso e radicale per far fronte alle sfide che la contemporaneità ci pone sempre più di frequente. E soprattutto è fondamentale smettere di chiedere a un insieme di misura nulla di avere un effetto così più grande di lui come giustificazione per il mancato impegno “dall’alto”: non è che niente funziona perché Luca e Silvia e Chiara non ci provano abbastanza, è proprio che contiamo tutti troppo poco e ci siamo disabituati ad aspettarci che chi conta davvero faccia valere il suo peso.
Questa tendenza comune a localizzare la responsabilità sui singoli o su ristretti gruppi di singoli, demandando il cambiamento all’azione individuale, è pervasiva e multiforme. E, anche quando non è catastrofica quanto nel caso della crisi climatica, non è di certo meno fastidiosa. L’abbiamo visto quando la difesa dei partiti di governo alla disumana crisi migratoria che avevano contribuito a creare era “perché non te li prendi a casa tua”. L’abbiamo visto, con particolare forza nell’ultimo anno e in special modo con il progressivo sgretolarsi del sistema librario, con la nascita dell’e-commerce. “Abbiate cuore e non comprate da Amazon” si ripete senza sosta, e nel frattempo la legislazione sulla tassazione dei colossi del web stagna e la necessaria riforma del sistema distributivo del libro pure. L’abbiamo visto con l’esplosione della gig economy, preferendo ribadire di “non ordinare da Just Eat” piuttosto che pretendere una regolamentazione del lavoro che arriverebbe comunque fuori tempo massimo. Perché alla fine la colpa è tua che compri da Amazon se il piccolo libraio chiude ed è tua se il povero rider per mezzo euro all’ora deve consegnarti sotto la pioggia un bombolone alla crema per pagarsi l’affitto in una città in costante gentrificazione. E qua non stiamo nemmeno più parlando di iperoggetti. L’aveva capito bene Bandura quando identificava i principali fattori per il disimpegno o il distacco morale, poi impiegati con tanta efficacia nell’addestramento militare di mezzo mondo. Forse però non pensava che tecniche di dislocazione e diffusione della responsabilità sarebbero state adoperate, scientemente o no, nella narrazione collettiva – anche quella proposta dalle frange più progressiste dello spettro politico – per deresponsabilizzare chi davvero dovrebbe far girare gli ingranaggi del cambiamento e invece sta lì a ripeterci (e forse a ripetersi) che “Eni più Luca più Silvia più Chiara è meglio di Eni”.
Ma soprattutto l’abbiamo visto, nell’ultimo periodo, con l’esplodere della pandemia e con l’ascesa degli sceriffi da balcone e la ridicola caccia al capro espiatorio che ne è seguita. Troppo in fretta l’inadeguatezza della nostra classe dirigente si è potuta fare scudo prima di chi andava a correre, poi di chi consegnava le pizze, poi ancora dei corrieri di Amazon. Troppo in fretta il Leviatano spastico che chiamiamo Stato ha potuto lavarsi le mani dal sangue dei morti delle RSA e della privatizzazione della sanità per puntare il dito all’apparenza immacolato sulla movida. Troppo in fretta ci siamo potuti accanire su adolescenti che entrano nelle presentazioni editoriali dei salottini colti e pisciano sulle pareti virtuali di Zoom invece che chiederci se magari non era il caso di gestire in modo diverso la scuola, riconoscendole un ruolo un poco più ampio rispetto a quello di fabbrica di nozioni a cui è stata così a lungo ridotta.
Quest’accanimento sui giovani – insieme di misura nulla per eccellenza, dotato di rilevanza demografica e rappresentatività politica tendenti allo zero, inoffensivo tanto dal punto di vista economico quanto da quello sociale – è il vero capolavoro politico della gestione della pandemia e il coronamento definitivo di quest’idea diffusa che sia soltanto la mal direzionata azione dei singoli a determinare l’infausta condizione che ci è capitata. Così, mentre il Paese pullula di complotti capaci al contempo di diffidare della comunità scientifica e di difendere il sedicente vaccino made in Putin, boomer col naso fuori dalla mascherina inveiscono contro i giovani e le loro birrette. Così, mentre un po’ tutti ridacchiano eleggendo Mondello capitale italiana della cultura, l’esimio Antonio Scurati può chiedersi sul Corriere perché i millennial “non capiscano che la strada è ancora lunga e in salita e che la scelta migliore sia in termini pratici che morali sarebbe lasciare perdere i divertimenti inutili”. Non vorrete mica vanificare tutti i (nostri) sacrifici. Così, mentre ci avviamo ancora una volta a fare i conti con la metratura irrisoria delle nostre case e con la qualità scadente della nostra connessione internet, l’attenzione è tutta puntata a inseguire con gli elicotteri un poveraccio che passeggia in spiaggia (ce la ricordiamo quella scena surreale?) invece che alla serie di scelte che ci hanno condotto qui e ora.
Berciare su radio DeeJay, con finta ironia, di tagliare gli stipendi agli statali insensibili per darli alle guide alpine è comodo. È facile immaginare un nome e assegnare una faccia a quell’impiegatuccio che, forte del suo salario fisso e garantito, si ritrova colpevole (e quindi punibile) di non curarsi dell’albergatore di montagna con moglie e figli sull’orlo del lastrico. Di certo è più facile che pretendere che lo Stato, che una faccia e un nome non ce l’ha (tranne quando gli si appioppa quella del Premier, esattamente per lo stesso procedimento di personalizzazione), si prenda carico e responsabilità del disastro sanitario prima ed economico poi che ha contribuito a provocare.
Abbiamo scelto o ci è stato insegnato a scegliere per l’individualismo civico, per l’estrema localizzazione della responsabilità, e di conseguenza della colpa. È una pratica facile e comoda perché ci permette di evitare le domande difficili e di puntare il dito su un insieme di misura nulla invece che fare i conti con la natura complessa degli iperoggetti cui siamo chiamati a confrontarci. Per cui ok. Mettiamoci la mascherina e manteniamo il distanziamento, rispettiamo il coprifuoco ed evitiamo i cenoni natalizi, facciamo notare a chi sgarra che sgarrare è sbagliato. Ma quando sarà il momento di tirare le somme stiamo almeno un poco attenti. Ché Luca, Silvia e Chiara non pesano quanto Eni.
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