Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti
  • Chi siamo
  • Rivista
  • Abbonamenti

Contro il calcio dei ricchi

Foto di Camillo Pasquarelli
31 Maggio 2021
Nicola Villa

Come nella migliore tradizione della commedia degli anni d’oro all’italiana, i fatti che hanno portato al rapido golpe, fallito, al mondo del calcio europeo sono un misto di dettagli grotteschi ai quali si stenta a credere. Anche i protagonisti hanno qualcosa dei migliori caratteristi diretti da un Monicelli o scritti da degli Age e Scarpelli e sono tra i capi del calcio europeo, i vertici di un business di intrattenimento sportivo milionario. Tra i molti attori di queste 48 ore, che hanno per poco distolto l’attenzione dei media mondiali dalla pandemia e dai vaccini, spiccano Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, un volto a metà tra quello di un pensionato in vacanza perennemente abbronzato e quello di un gangster del narcotraffico con una malcelata apparenza di rispettabilità; c’è Andrea Agnelli, il rampollo scemo di quella dinastia torinese d’industriali che da più di un secolo è proprietaria della Juventus, il giocattolo accanto alla Fiat; c’è la faccia cattiva da cowboy di Aleksander Ceferin, presidente dell’Uefa, in una passata vita sicuramente secondino di galera; e infine c’è il volto da working class inglese dell’ex calciatore del Manchester United Gary Neville, assolutamente disgustato da quello che stava succedendo in quelle ore e le cui parole hanno incoraggiato i tifosi a scendere in piazza e protestare.
Nella notte tra domenica 17 e lunedì 18 aprile con uno scarno comunicato su un sito abborracciato appena aperto, viene annuncia la nascita di una Super league europea, un torneo chiuso fondato da 15 club con altri 5 invitati. I dodici club firmatari della scissione sono sei inglesi (Chelsea, Liverpool, Arsenal, Tottenham, Manchester United e Manchester City), tre spagnoli (Real Madrid, Atletico Madrid e Barcellona) e tre italiani (Juventus, Inter e Milan).

Di una superlega europea si parla da anni, nel continuo tentativo di rinnovare il calcio europeo, ma la pandemia e i buchi di bilancio dei grandi club hanno fatto da acceleratore. L’idea è quella di fare il salto di qualità economica che altri sport minori e in crisi europei hanno già fatto negli ultimi dieci anni per massimizzare i profitti, impoverendo di fatto i campionati nazionali, come l’Eurolega di basket (nella quale gioca solo Milano, ma non Sassari e Venezia che sono anche più forti) e la Celtic league di rugby che si chiama Pro14 (alla quale sono invitate solo la Benetton Treviso e le Zebre di Parma), ma l’ambizione è quella di emulare i numeri dell’intrattenimento sportivo Usa. Se la Champions league genera 2 miliardi di euro, l’Nba di basket americano il doppio, il football americano addirittura cinque volte tanti.

Il calcio, impariamo presto dalle ricostruzioni sui giornali e televisioni in quelle ore, è un business sempre in perdita, ma in quest’ultimo anno con gli stadi chiusi e diritti televisivi in riduzione ha accumulato debiti spaventosi. Sembra che le 12 squadre intenzionate a fondare il proprio torneo abbiamo insieme più di 3 miliardi di euro di debiti (il Barcellona da solo ne avrebbe un miliardo) ed ecco che la banca americana JP Morgan sarebbe pronta a investire 300 milioni ogni anno per il blasone di questi club, più del doppio di quanto redistribuisce la Uefa con la Champions league.

A poche ore dall’annuncio, tutto il mondo, calcistico e non, insorge. Sarebbe la fine del merito sportivo, della possibilità che Davide batta Golia, del Leicester campione d’Inghilterra e della piccola Atalanta qualificata nella Coppa dei campioni. Anche i giocatori e gli allenatori delle squadre di calcio interessate sono all’oscuro di tutto e cominciano a esprimere forti dubbi. Si sospetta un bluff per avere più voce in capitolo per la prossima riforma delle coppe, ma i club più ricchi d’Europa si sono mossi come dei dilettanti soprattutto sul lato della comunicazione e senza sponde politiche. Chi si spende di più, nel comunicare il piano, è appunto Perez del Real che va in una tv amica, la colorata e scandalistica Chiringuito tv, a difendere l’idea di avere ogni settimana dieci grandi partite europee. Andrea Agnelli, intanto, si dimette dall’associazione dei presidenti europei e si nega al telefono a Ceferin, che è anche il padrino dell’ultima figlia dell’imprenditore italiano. Ceferin, che è un ex avvocato penalista sloveno, usa parole di fuoco contro di lui e la “sporca dozzina” e fa apparire l’Uefa e la Fifa delle associazioni benefiche parlando di solidarietà. La Fifa, in questo frangente storico, ha sulla coscienza responsabilità gravissime nell’organizzazione dei prossimi mondiali in Qatar, sia per la morte degli operai che hanno costruito gli stadi, che per la corruzione con la quale l’emirato si è comprato il diritto di ospitare la competizione. La solidarietà viene nominata, incredibilmente, anche sul sito della Superlega.

Sempre Agnelli rilascia una sola intervista sul giornale di famiglia, quella “Repubblica” che poche settimane fa ha esultato per la fusione Fca con Renault che ha dato vita a Stellantis, una nuova superlega automobilistica (visto che anche lì ci sono solo debiti). Nelle stesse ore però l’opinione pubblica italiana, soprattutto il “Corsera” il cui editore è Cairo presidente del piccolo Torino, si è tutta schierata con forza contro il progetto tranne il “Foglio” che d’ufficio deve difendere le prospettive del turbocapitalismo, ma anche qui con poca convinzione.

Chi ha esultato per la vittoria del calcio e del merito sportivo col naufragare del progetto Superleague, non può ignorare che la strada verso un intrattenimento d’elite per pochi è già tracciata.


Il premier inglese Boris Johnson, che non ha alcun interesse per il calcio ma un fiuto politico non indifferente vedi la Brexit, si schiera contro con parole molto dure, minacciando azioni per bloccare il progetto. Anche William dei Windsor, il futuro re, e presidente onorifico del calcio inglese, esprime il suo dissenso. Con lo stesso aplomb dei reali inglesi, Mario Draghi, il premier italiano, fa sapere timidamente che ha dei dubbi.

Martedì 19 aprile in appena 48 ore il progetto si sgretola in modo grottesco. I tifosi inglesi scendono addirittura in strada e i loro club sono i primi a sfilarsi. Gli ultimi a farlo sono proprio Juventus e Real i cui presidenti avevano parlato poche ore prima di “patto di sangue” e minacciato conseguenze legali per chi avesse rinunciato. Per molti osservatori è sembrato incredibile che una rivoluzione così strutturale del calcio europeo, fosse pensata e organizzata così male da parte di dirigenti che sono abituati a trattare col mondo politico e con l’opinione dei tifosi. Sono usciti centinaia di articoli e di commenti per spiegare questo livello di impreparazione, è circolata molto la frase di un giornalista dell’ “Economics”, Simon Kuper: “proprio come il petrolio fa parte del business del petrolio, la stupidità fa parte del business del calcio”. Verrebbe voglia di allargare: è la stupidità che muove il mondo.

Tra le lettura più diffuse sulle ragioni del fallimento del golpe, si è data molta importanza al ruolo dei media e dell’opinione pubblica, nonché alla capacità di mobilitazione dei tifosi. È stata, per molti, la rivincita dell’idea romantica del calcio, nonché l’idea che uno sport popolare, del popolo e dei lavoratori, non possa rispondere a regole solo economiche e spettacolari. L’ex calciatore polacco Boniek a una domanda sulla Superlega sul modello degli sport americani ha detto semplicemente “siamo europei” mentre lo sdegno di Gary Naville rimanda proprio all’anima socialista e operaia che molte squadre britanniche rivendicano nelle loro narrative: “Sono disgustato soprattutto dallo United e dal Liverpool. Il Liverpool finge, col suo slogan ‘Non camminerai mai da solo’, di essere il club della gente, il club dei tifosi. Il Manchester United, ha 100 anni, è nato dai lavoratori e ora vuole partecipare a un campionato senza competizione”.

Soprattutto sui social è circolata la foto di uno striscione della tifoseria della squadra tunisina Club Africain, esposto durante un’amichevole del 2017: “Created by the poor, stolen by the rich”. Lo slogan rimanda proprio a questo immaginario condiviso e romantico, ma se stiamo all’origine moderna di questo sport (mettendo da parte il gioco della palla nell’antichità dai greci agli inca e il calcio fiorentino), dobbiamo immaginarci una minoranza di nobili inglesi che ha codificato, nell’Ottocento, queste regole in un gioco diventato in un secolo di portata globale. Semmai il calcio è diventato una promessa di emancipazione per le classi subalterne con i loro campioni dalle umili origini diventati campioni universali (Pelè e Maradona), un formidabile catalizzatore di consenso e fenomeno culturale adottato dalla classe lavoratrice. Non a caso si fanno dei grandi paragoni, nella storia della cultura popolare, tra calcio e cinema, i due fenomeni più fortunati del Novecento che hanno sempre con difficoltà dialogato tra loro, ed entrambi via via indeboliti, “uccisi”, dalla televisione e dallo show business.

Quello che “la sporca dozzina” ha ignorato totalmente, nel maldestro tentativo di golpe della Superleague, è stata proprio la sopravvivenza postmoderna di questa cultura popolare. Il fatto che migliaia di persone si identificano culturalmente con quelle che sono, a tutti gli effetti, delle aziende private.

Nelle varie ricostruzioni del golpe fallito, un’ottima figura l’hanno fatta i club che non si sono iscritti alla lista dei secessionisti. Sul sito della Superleague si faceva riferimento a 15 squadre fondatrici e il pensiero è andato alle tre che non figuravano: le due tedesche Bayern e Borussia e la squadra di Parigi, il Psg. I tedeschi hanno svolto il ruolo di moralizzatori, forti del fatto che i loro modelli di business sono gli unici sostenibili, mentre il Psg è di proprietà di un imprenditore, guarda caso, quatariota e non ha problemi di soldi. Proprio la presenza di imprenditori stranieri, fondi di investimento che hanno fatto del calcio europeo, soprattutto quello inglese, un terreno di conquista, è tra i motivi dell’attuale crisi del calcio. Tutti i tentativi di porre un freno a questa bolla economica da parte della Uefa sono andati falliti come il tanto citato fair play finanziario che non ha mai posto un freno alla crescita delle cifre in questo business sempre più elitario. Da anni si parla di un tetto salariale obbligatorio, ma la realtà è che ogni anno si battono nuovi record, sia per i trasferimenti che per gli stipendi. Nel 2017 il calciatore brasiliano Neymar passò dal Barcellona al Psg per 222 milioni di euro, mentre l’anno scorso, secondo Forbes, Messi ha guadagnato 125 milioni e Cristiano Ronaldo 117.

Chi ha esultato per la vittoria del calcio e del merito sportivo col naufragare del progetto Superleague, non può ignorare che la strada verso un intrattenimento d’elite per pochi è già tracciata. Negli ultimi vent’anni il campionato italiano è stato vinto solo dalle tre squadre che volevano crearsi il loro torneo continentale, mentre nei vent’anni precedenti (fino agli anni ottanta) avevano vinto lo scudetto sette squadre differenti. Stessa cosa in Europa dove la Champions league da quando è stata riformata nel 1993 ha sempre gli stessi padroni, a esclusione di un’anomala vittoria del Porto nel 2003.

Il progetto della Superlega rientra con coerenza nella logica del capitale che deve trasformare, espandendolo, un mercato in crisi. Anche se questo tentativo sembra fallito, è difficile esultare e trovare una morale e una purezza in questa storia, perché i cialtroni che governano questo mondo hanno imboccato una strada già segnata da cui è difficile cambiare direzione.


Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.


info@gliasini.it

Centro di Documentazione di Pistoia

p.iva 01271720474 | codice destinatario KRRH6B9

Privacy Policy – Cookie Policy - Powered by botiq.it