Compagna Milva

Milva ci ha lasciati poche ore prima di quel 25 Aprile di cui ha cantato per una vita valori e ideali. Grande interprete del teatro musicale del secondo Novecento, ha legato il suo nome soprattutto a quelli di Bertolt Brecht (con gli album Milva canta Brecht del 1971 e Milva canta un nuovo Brecht del 1989, entrambi sotto la direzione artistica di Giorgio Strehler, e Die sieben Todsünden der Kleinbürger del 1983), e di Astor Piazzolla, col Live At The Bouffes Du Nord (1984), ma anche di Ennio Morricone (Dedicato a Milva da Ennio Morricone, 1971) e di Luciano Berio (La vera storia, azione musicale su testo di Italo Calvino, 1982): collaborazioni che le sono valse fama duratura non solo in Italia, ma anche in Germania e in Francia.
Amata dai più come interprete colta, grazie alle magnifiche versioni dei Canti di Libertà (1965) e dei Canti della libertà di tutto il mondo (sottotitolo del disco Libertà, 1975), non disdegnò interpretazioni pop – piccola parte della sua produzione – sin dagli esordi nel 1959 con la canzone Le Rififi, passando per Sbarre (1963) e L’ultimo tram (1964, unico brano sanremese di autentico rilievo in una manifestazione alla quale partecipò più volte senza ottenere particolari onori). Alle notevoli interpretazioni per Tenco, De André e Jannacci, fanno da contraltare quelle per discutibili brani di Vangelis e Theodorakis; grande successo fu Alexander Platz, di Franco Battiato, sulle note di Giusto Pio e Juri Camisasca, canzone del 1982 confluita nell’album Milva e dintorni, che nel 1990 Milva fu chiamata a interpretare davanti alla Porta di Brandeburgo poco dopo la caduta del Muro di Berlino.
Scomoda in Italia per alcuni, forse a causa di un atteggiamento spesso divistico, o per l’adesione a ideali libertari e per l’associazione con una certa sinistra intellettuale, Milva ha vissuto la contraddizione di tempi in cui l’ammirazione per l’essere voce di idee e storie impegnate si scontrava con la convinzione che il pensiero alto era cosa da cantautori maschi, e non certo da signore.
Donna dal sorriso largo e contagioso, con la chioma rossa arcaica, apparentemente fredda, aggressiva e originale, casalinga e barbara (prendendo in prestito le parole usate da Massimo Marino in un bel ricordo apparso su Doppiozero), non contenta della provincia ferrarese, abbandonò inquieta l’umile terra d’origine per fare di Milano, coi suoi salotti, la propria casa. Qui, anche grazie al marito, il regista Maurizio Corgnati, entrò in contatto con l’ambiente della canzone intellettuale. L’incontro col compositore Gino Negri la portò lontano dai primi successi pop, a registrare nel 1963 Le canzoni del Tabarin e Canzoni da cortile, disco di due lati con copertine e titoli propri che raccoglieva brani riarrangiati della tradizione italiana tra le due guerre mondiali (quella dei cantastorie e dei tabarin, i nostrani café chantant). L’interpretazione di Milva (artista giovane all’epoca, e sul mercato discografico da pochi anni) colpisce ancora oggi per la varietà delle sfumature rese, da beffarde e ironiche ad accorate e profonde, e per la piena padronanza vocale in pezzi nati per lo più per voci maschili.
Milva ha vissuto la contraddizione di tempi in cui l’ammirazione per l’essere voce di idee e storie impegnate si scontrava con la convinzione che il pensiero alto era cosa da cantautori maschi, e non certo da signore
Paolo Grassi, patron del Piccolo Teatro, e allora già mito intellettuale di un teatro politico e impegnato, vedendola su Rai 2 in Milva Club, la volle in uno spettacolo sulla Resistenza e contro il fascismo, con Arnoldo Foà, per cantare e recitare poesie di Brecht, Neruda, Rafael Alberti e altri cantori della libertà. A intercedere per Grassi con la cantante di Goro fu Negri, che scrisse al marito Corgnati una lettera d’altri tempi: nacque così la nuova Milva, quella del sodalizio con Strehler (raccontato da Cristina Battocletti in un recente libro sul regista, Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste), delle canzoni di Bertolt Brecht, Kurt Weill e Hanns Eisler, che con la sua voce profonda indugia sullo strazio della moglie di un soldato tedesco, che dalla Russia ricevette soltanto il cadavere del soldato, o canta la ragazza di Norimberga, Maria Sanders, che si oppose al nazismo con la forza dell’amore.
Riconosciuta come interprete drammatica, frequentò anche il cabaret, senza mai cadere nella trappola della volgarità, come quando nel 1969 vestì i panni sui generis della prostituta Esmeralda nello spettacolo Angeli in bandiera, di Garinei e Giovannini, con Gino Bramieri, per un personaggio che dichiarando la sua assoluta indipendenza di donna rifiuta l’idillio matriarcale tramandato in famiglia dalla bisnonna fino alla madre.
Piazzolla definì la voce di Milva “profonda come la notte”: mezzosoprano di formazione lirica, la cantante puntò col tempo a sviluppare soprattutto una nasalizzazione ricercatamente teatrale, che conferì forse alla voce grande duttilità, ma minor bellezza. Più del belcanto (classico e pop, dalla cui scuola veniva), sua peculiarità fu la perfezione esecutiva e l’innata enfaticità, da cui la versatilità che le consentì di attraversare stili e repertori.
Milva lascia un ampio patrimonio culturale, costituito da più di 130 tra album in studio, album live e raccolte (di cui 39 per il solo mercato italiano, a testimonianza di una fama internazionale che la portò a incidere per paesi stranieri, lontani e vicini, e a confrontarsi con diverse tradizioni autoriali e folkloriche), apparizioni in spettacoli teatrali, film e trasmissioni televisive: un patrimonio di cui però è difficile trovare traccia, essendo rimasti in catalogo pochi dischi. Triste segno di un interesse scarso e sporadico per una voce raffinata e atipica della storia della musica popolare italiana del Novecento, ma anche per un repertorio, quello dei canti di Liberazione e del nostro e altrui folklore – così ben valorizzato da Milva – troppo presto dimenticato.
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