Come Ada Gobetti parlava ai genitori
di Sara Honegger
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Non siete soli. Scritti da “il Giornale de genitori” 1959-1968, a cura di Angela Arceri, Centro Studi Piero Gobetti e Edizioni Colibrì, è il titolo di un articolo pubblicato da Ada Marchesini Gobetti sull’“Unità” il 16 giugno 1955 che Angela Arceri ha scelto per presentare, a distanza di più di mezzo secolo, quel “Giornale dei genitori”, che la stessa Gobetti fondò e diresse fra il 1959 e il 1968, anno della sua morte. Un titolo che definisce l’obiettivo principale della rivista: offrirsi come luogo di riflessione e discussione per i genitori interessati a trovare o a riscoprire il significato profondo del loro ruolo educativo.
Siamo nel pieno di quella che è stata chiamata la mutazione antropologica degli italiani: 25 milioni di persone coinvolte nella migrazione interna; nascita e crescita esponenziale di consumi e sistemi di comunicazione; la scolarizzazione di massa; il profilarsi di un “universo giovanile che progressivamente si definisce come mondo a sé”, come ha scritto Guido Crainz, mondo su cui il mercato si getterà a piene mani. Ada avverte tutto questo con sensibilità e lungimiranza, riconoscendo in anticipo sui tempi il venir meno di un “ossigeno morale”, essenziale a far sì che non si scivoli, senza neanche rendersene conto, nel conformismo, nel culto del capo. E alla voglia di una vita migliore – uno dei temi centrali nella frattura generazionale – risponde con la necessità di spostare lo sguardo dalle cose – quel benessere che già allora stordiva con le sue promesse – al patrimonio morale e ideale che ogni genitore può lasciare ai propri figli.
L’attualità della sua proposta editoriale si deve a diversi aspetti. Il primo riguarda la decisione stessa di impegnarsi in prima persona attraverso una rivista che si occupa di educazione. La passione educativa non era nuova per lei. Da tempo teneva due rubriche dedicate ai genitori su “L’Unità” e “Noi donne”, articoli poi raccolti nel libro Non lasciamoli soli, pubblicato nel marzo del 1958. È anche grazie ai proventi del libro, andato subito esaurito, che decide di dar vita al “Giornale dei genitori”. Quel che cerca è uno strumento flessibile, capace di seguire da vicino le enormi trasformazioni sociali ed economiche del tempo e il loro impatto sulla vita quotidiana. Non ha la pretesa di insegnare ai genitori il loro “mestiere” né intende dare soluzioni bell’e pronte e definitive. La rivista vuole invece essere “uno strumento di lavoro che permetta loro di affrontare da sé i problemi” (dall’editoriale del primo numero, maggio 1959) relativi all’educazione dei figli, sia nell’impostazione ideale sia nella pratica quotidiana. Ovviamente non fa tutto da sola, anzi, la chiave del successo della rivista sta anche nella sua capacità di coinvolgere figure di primo piano appartenenti a diversi mondi del sapere e della vita sociale: quindi pedagogisti ed educatori, ma anche intellettuali capaci di inquadrare in un contesto sempre ampio il tema educativo. Accanto a Dina Bertoni Jovine, Lucio Lombardo Radice, Luciana Nissim Momigliano, Loris Malaguzzi, Goffredo Fofi, Grazia Honegger Fresco, Gianni Rodari, troviamo Galante Garrone, Bianca Guidetti Serra, Renata Viganò, solo per citarne alcuni. Scorrere l’indice dei nomi posto alla fine di Non siete soli conduce in quell’Italia, che non esitiamo a definire migliore, che in modi e rigore diversi, ha provato nel tempo a rendere vive e attuali le pratiche e le utopie della Resistenza, esperienza centrale anche nella formazione di Ada, e che lei stessa restituì nel famoso Diario partigiano (Einaudi1956).
Il secondo aspetto riguarda l’oggetto della sua attenzione, ovvero la famiglia. Subito viene da chiedersi come mai, se il problema di fondo è quel “paese mancato”, quella Resistenza mai attuata fino in fondo (basti rileggere L’orologio di Carlo Levi) dedicare tanto impegno proprio all’educazione in famiglia. Claudia Mancina e Mario Ricciardi (Famiglia italiana, a cura di Claudia Mancina e Mario Ricciardi, Donzelli 2012) ci ricordano che esiste “un legame positivo fra l’affermazione dell’individualismo e la forma moderna e democratica delle relazioni famigliari. La famiglia infatti ha un ruolo essenziale nella formazione degli individui e dei cittadini, che può avere una curvatura autoritaria in certi contesti, sociali, liberale in altri; non è di per sé autoritaria, come ha sostenuto la scuola di Francoforte. C’è un evoluzione della famiglia, dalle forme autoritarie alle attuali forme aperte e paritarie, e questo cambiamento – che è insieme conseguenza e causa dell’affermazione dell’idea di eguaglianza – è uno dei tratti più significativi della storia occidentale. Ma in tutte le sue forme essa ha un ruolo formativo che difficilmente può essere ignorato o sostituito”. Ecco, Ada Gobetti non lo ignora affatto. Avverte in tempo reale la crisi di questa istituzione complessa, intima, sociale e giuridica al tempo stesso, il suo trasformarsi, forse troppo velocemente, rispetto alla capacità resiliente degli individui. Ovviamente non le interessa la famiglia quale baluardo di una società arroccata su principi autoritari, a difesa di privilegi consolidati dalla storia. Le sta invece assai a cuore la famiglia quale primo nucleo di socialità, luogo dove si possono esperire, in quel modo così profondo che caratterizza l’apprendimento nelle prime fasi evolutive della vita, il dialogo, la ricerca della verità, il reciproco rispetto, la necessità di sentirsi parte attiva di un mondo in cammino. In altre parole, le sta a cuore la famiglia quale luogo dove la politica, intesa come partecipazione attiva alla vita del paese dove per arte si è nati, sia di casa: qui di tutto si può parlare, anche di libertà religiosa o di sesso – ricordiamolo, siamo nell’Italia pre ’68 – perché ciò che si teme non sono gli argomenti, bensì la frattura generazionale intesa anche come silenzio, fuga dall’impegno quotidiano.
Il terzo aspetto riguarda la lingua con cui Ada ha scelto di parlare, di vivere giorno per giorno il proprio impegno politico. E anche in questo si rivela profondamente consapevole dello spirito del suo tempo. Negli anni in cui spesso maldestre sono le risposte all’analfabetismo e alla mancanza di istruzione di buona parte degli italiani, negli anni in cui vivacissima è la discussione sulla lingua nazionale che si sta imponendo attraverso la scuola e la televisione (a questo proposito si può leggere La lettera sovversiva di Vanessa Roghi, Laterza) sceglie un italiano semplice ma mai semplificante, capace di dare nome esatto alle cose e di raggiungere lettori di tutti i tipi. Leggere i suoi articoli è come sedersi a una tavola di cucina per parlare bevendo una tazza di caffè, una tavola che lentamente prende la forma del gruppo di discussione, dove i diversi pareri sono riportati quasi con dovere di cronaca. Lo spessore pedagogico del suo pensiero, la capacità di monitorare continuamente la temperatura culturale e sociale del suo tempo e l’orizzonte internazionale in cui si muove, arrivano a chiunque e permettono a chiunque di confrontarvisi, cercando dentro di sé le domande e le risposte più adeguate alla propria situazione. I temi che di volta in volta decide di affrontare nei suoi articoli di fondo sono quanto mai vari. Ma tutti ruotano intorno a un perno assai chiaro: l’educazione dei figli è il primo mattone di una società più giusta.
Sta qui il quarto, ma non meno importante aspetto tutt’oggi attuale del suo lavoro: la raffinata ricucitura di mezzi e di fini, fin nelle cose più semplici del quotidiano. Perché è nelle scene di ogni giorno, nelle parole e nei gesti del quotidiano, che i genitori trasmettono, consapevoli o meno che ne siano, le proprie convinzioni, il proprio modo di stare nel mondo, l’impegno o la fuga. La famiglia può essere il luogo dove si apprendono le regole dell’autoritarismo, della legge del più forte, del “me ne frego”, diremmo di nuovo oggi, oppure, come auspicava già nel 1869 Stuart Mill nel suo famosissimo The Subjection of Women – “una scuola di simpatia nell’eguaglianza, nel vivere assieme nell’amore, senza potere da una parte e obbedienza dall’altra”.
Non c’è bisogno di dire altro per sottolineare l’attualità del progetto editoriale che Ada porta avanti in anni in cui alta è la fiducia nella portata militante della carta stampata. Se l’esplosione degli opuscoli, delle riviste, dei fogli politici si avrà soprattutto a partire dal ’68, esiste già un’editoria alternativa legata all’educazione portata avanti da singoli o piccoli gruppi militanti: basti pensare a “Scuola e città”, attiva dal 1950 grazie a Lamberto Borghi; ai “Quaderni del Movimento di Cooperazione Educativa”, sviluppatisi rapidamente nell’Italia del boom economico grazie alla diffusione della tipografia di stampo freinetiano e all’impegno personale di molti maestri, fra cui l’insuperato Mario Lodi. Così come esistono riviste che, pur non trattando specificatamente di pedagogia, se ne occupano, e proprio nel senso dato a questo tipo di impegno da Ada Gobetti, come i “Quaderni Piacentini” (cfr. I “Piacentini”, di Giacomo Pontremoli, edizioni dell’Asino 2017). Nessuno, però, si rivolge a quella cellula base della società che è la famiglia. Nello sguardo a questo preciso spaccato, dove le contraddizioni sembrano incunearsi in modo dirompente, sta l’assoluta novità e precisione del progetto editoriale ideato e portato avanti da Ada.
Viene da chiedersi che spazio avrebbe, oggi, una rivista di questo tenore. Non lo si prenda come uno sguardo moralistico, ma in anni in cui il filtro del tempo e della parola di carta hanno smesso di giocare il loro ruolo – pensare una cosa e postarla su un profilo o scriverla in un gruppo whatsapp è questione di un secondo – la calma riflessiva e la costruzione di un pensiero consapevole che traspare dalle pagine di Ada, assumono un sapore quasi doloroso. Non c’è mai un nemico contro cui scagliarsi, un dibattere senza oggetto di lavoro chiaro, un perdere costantemente il senso dei propri confini e limiti. C’è, invece, la volontà di analizzare per comprendere e scegliere, guidati da solidi principi di giustizia. È grazie a questo andamento socratico del pensiero che le pagine di Ada svolgono il loro ruolo di educatrici alla libertà, per parafrasare il titolo di un libro di Lamberto Borghi, uno degli intellettuali che hanno contribuito al giornale. Pur appartenendo a un partito dogmatico, Ada sembra incapace di far sua ogni deriva autoritaria: la difficile formazione che lei stessa visse accanto a Piero Gobetti, la porta a trasformare quella fatica nella forma dialogica dei suoi scritti, coinvolgendo i genitori nella necessità di tenere vivo il dialogo con se stessi ancor prima che con i figli.