Cherchi, Pontiggia e le scuole di scrittura
Una pagina in più o in meno non farà la differenza. Ma quaranta o cinquanta… Mi capita di leggere romanzi dei nostri bei giorni e di concludere assai spesso invocando il “taglio”. Il doloroso taglio. In genere confido il mio desiderio di sobrietà e continenza a pochi intimi. Una volta l’ho comunicato all’autore e ho avvertito nella sua risposta, e scorto nell’espressione degli occhi, il peso dello sconcerto e della mortificazione: “Tagliare, come tagliare, quando nomi, cognomi, avvenimenti, virgole, esclamazioni sono soppesati con tanta sofferenza e tanto acume, non capisci, tagliare per giunta proprio lì dove metto a nudo il mio animo e manifesto i miei tormenti”.
Provo interesse per le più svariate questioni. I tormenti dell’autore invece mi lasciano freddo o addirittura mi annoiano. Di rado ho trovato il coraggio per manifestare questi miei sentimenti: ho troppo rispetto per quelli degli altri. Ma un po’ di conforto ho scoperto in un libro da poco pubblicato (editore Belleville), in cui sono raccolte le conversazioni radiofoniche di Giuseppe Pontiggia, scrittore e pure editor di talento, critico letterario, persona assai amabile e di vivacissima ironia. Giuseppe Pontiggia è morto tredici anni fa e mi pare che si possa iscrivere anche lui al lungo elenco dei dimenticati, malgrado l’indiscutibile valore del suo lavoro, romanzi e saggi (basterebbe ricordare La grande sera, Vite di uomini non illustri, Il giardino delle Esperidi). Valore che si ritrova pure in questo libro, Dentro la sera, titolo ripreso dalla trasmissione di Radio 2, nel corso della quale Pontiggia tenne, tra maggio e luglio 1994, venticinque lezioni di scrittura, una gran fatica nella speranza che qualcuno imparasse – e impari – a scrivere e in primo luogo imparasse – e impari – a leggere, primo passo, forse il passo fondamentale. Un amico poeta mi diceva sempre che se tutti gli aspiranti poeti leggessero libri di poesia, lui diventerebbe ricco. Vale comunque. In Italia si legge poco e periodicamente qualcuno si lamenta del calo delle vendite dei libri. Mai che qualcuno si interroghi però circa la qualità dei libri che si vendono e si acquistano, e che poi si dovrebbero leggere. Nel commercio conta la quantità e il prezzo è una livella per il capolavoro e per l’ultimo giallo (il genere che “tira”): un tot a pagina. Mi ha colpito che a una recente e annuale convention dei librai sia stato invitato il padrone di Eataly. Perché – ha spiegato un celeberrimo libraio – bisogna trovare il modo di animare le librerie. Soprattutto di profumarle di aromi gastronomici tra il salmone abbrustolito e le patate fritte. Il libro che comanda la classifica e la salsiccia alla griglia, il thriller che sta al secondo posto e la pasta un po’ scotta.
Pontiggia nell’insegnare a scrivere intanto insegna a leggere: basterebbe considerare quella paginetta (ma se ne potrebbero mettere in fila molte altre) a proposito dell’inizio dei Promessi sposi, quando al memorabile, cioè mandato a memoria, “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli…” antepone come vero prepotente attacco quanto arriva poco dopo, cioè l’ingresso in scena di don Abbondio: “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra…”. Pontiggia giustifica la scelta: “La presenza del personaggio, dell’uomo, anima di una vitalità improvvisa la scena…”. Il luogo, il momento, la sera, il giorno, l’anno, il curato, che prega, cammina, scalcia i sassi, tutto raccolto in quel paragrafo. Come se qualcuno, l’autore, Alessandro Manzoni, pronunciasse il fatidico: “Ciak si gira”. Pontiggia procede attraverso un tortuoso cammino tra Hemingway, Blixen, D’Arrigo, Tolstoj, Dostoevskij, eccetera, analizzando e sezionando testi. Insegna a leggere e forse non insegna a scrivere, ma mette in guardia. Mi viene da ricordare il breve saggio di un vero poeta, Giovanni Giudici, che ci spiegava come tutti avremmo potuto scrivere che “quest’ermo colle mi fu sempre caro” oppure che “mi fu sempre caro quest’ermo colle”, ma come il verso d’alta poesia non potesse suonare diversamente da “sempre caro mi fu quest’ermo colle”.
Siccome ho accennato “ai tormenti dell’autore”, che mi lasciano un po’ indifferente, torno all’inizio, alle prime pagine di Pontiggia, e leggo: “Certo un artista attinge alla sua interiorità, ma il suo scopo non è di esprimerla, il suo scopo è di esprimere qualcosa che sia vivo, vitale e vero per gli altri”. Chi scrive – ci dice Pontiggia – dovrebbe avere in mente di creare qualche cosa di vitale, qualcosa che viva al di fuori di lui e dopo di lui: “Noi sentiamo tante volte in televisione personaggi che dicono: ‘Ho realizzato me stesso’ e tolgono a chi li guarda il desiderio di perseguire una finalità simile, vista la modestia dei risultati. Non indugiamo poi su certi attori che dicono: ‘Voglio denudarmi. Voglio mettere i miei visceri in piazza’. Ma per l’amor di Dio. Nessuno vuol vedere i tuoi visceri, tienili nascosti. Non è questo il problema, noi non abbiamo nessun interesse per i tuoi visceri. Noi abbiamo interesse per un’arte che sappia coinvolgerci, capace di comunicarci qualche cosa di importante”. Così Pontiggia, che mi rimanda a un aforisma di Karl Kraus: “Perché scrive certa gente? Perché non ha abbastanza carattere per non scrivere”. Pontiggia ci racconta di Karl Kraus e della sua arte e interpreta molti dei suoi aforismi, ma questo sull’assenza di carattere degli “scrivani” l’ho riletto in una rubrica di Grazia Cherchi per “l’Unità” (ora in Scompartimento per lettori e taciturni, pubblicato da Feltrinelli dopo la morte di Grazia). Ne ho letto un altro, che trascrivo perché professionalmente mi riguarda: “Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di uno un giornalista”.
Grazia Cherchi era amica di Pontiggia, anche lei si occupava di scrittura e soprattutto invitava e insegnava a leggere: i suoi articoli (anche quelli assai brevi, cinquanta righe, apparsi sull’“Unità” come quello da cui ho tratto gli aforismi) erano guide stimolanti esprimendo giudizi sicuri, di fronte ai quali si sarebbero potute sollevare obiezioni, ma ai quali non si sarebbe mai potuto negare qualità, chiarezza, vigore, onestà. Per capire come Grazia Cherchi intendesse la scrittura scelgo una via indiretta e rimando a un bellissimo ritratto che lei fa di Romano Bilenchi, scrittore che amava tanto (questo per “L’Indice”, anno 1989, adesso nel menzionato Scompartimento…: perché Feltrinelli non lo ripubblica?). Ecco: “Questa gente che sputa i propri sentimenti come sangue mi rende esausto” (Rilke), “Do ascolto alle vecchie grammatiche dell’Ottocento, che dicevano di usare il meno possibile gli avverbi di modo, che rovinano qualsiasi prosa” (Bilenchi), “Scrivere tutto e togliere quasi tutto, come disse, mi pare, Cechov” (ancora Bilenchi). Di Bilenchi Grazia annotava: “Bilenchi ha talora la pazienza e la generosità di leggere i dattiloscritti che gli portano in visione amici e conoscenti, e di fare loro anche un po’ di editing, asciugando in primo luogo i testi delle inutili e onnipresenti ridondanze”. In queste poche considerazioni chi li ha provati riconoscerà il lavoro e lo stile di Grazia, che odiava gli avverbi in “mente” e che tagliava con vigore. Ma che soprattutto sapeva rimettere in piedi pagine traballanti (“la pagina regge?” chiedeva e si chiedeva), con quella intelligenza della struttura del romanzo e del racconto, come un ingegnere di case, casette e grattacieli.
Grazia, come Pontiggia, s’era molto occupata degli scritti degli altri, prima che gli scritti qualche volta diventassero libri. Si era occupata di editing e su questo aspetto del lavoro di Grazia ha scritto Giulia Tettamanti, nella sua tesi di laurea (alla Statale di Milano, con Gianni Turchetta), tesi che è da poco diventata un libro, dal titolo molto bello: Tuffarsi nell’altrui personalità. Il lavoro di editor di Grazia Cherchi (pubblicato da Unicopli e con una prefazione di Benedetta Centovalli). Ho conosciuto Giulia all’inizio del suo progetto, quando mi chiamò, uno tra i tanti amici di Grazia, per sapere qualcosa di Grazia, appunto, della sua collaborazione con le pagine dell’“Unità”, per qualche ricordo che l’aiutasse a ricostruirne la personalità.
Confesso che alla prima telefonata rimasi un po’ stupito. Banalmente, mi stupì constatare che una giovane nel 2015, a vent’anni dalla morte, potesse occuparsi di Grazia Cherchi e del suo lavoro, del lavoro di editing in particolare, e con tanta passione, per il semplice motivo che la cultura e la memoria sono macerie ormai e mi sembrava che vent’anni di brutta politica, di cattiva scuola, di pessimo giornalismo, eccetera eccetera, avessero consunto ogni frammento di quelle storie. Chi voleva ancora ricordare? Forse solo noi che avevamo vissuto.
Giulia Tettamanti mi ha invece smentito. Grazia Cherchi l’aveva incontrata, come spiega, quasi per caso, scoprendo il suo nome nel corso delle sue ricerche universitarie in un saggio di Alberto Cadioli. Non so come le sia nata la passione per un mestiere difficile, che pretende intelligenza, gusto, severità fino all’asprezza (e che concede solo oscurità), come quello dell’editor, un’ombra alle spalle dell’autore, di successo o meno, proprio per “tuffarsi nell’altrui personalità”, per esaltarne gli aspetti eccellenti. Così Giulia si è dedicata a ricostruire la biografia di Grazia Cherchi. A proposito della quale non aggiungerò nulla di mio: sta tutto scritto, con precisione e nei dettagli, nel libro. Che è storia di Grazia e del suo tempo, dall’inizio alla fine, dalla nascita e dalla scuola, dal liceo Manzoni di Piacenza e dalle prime adolescenziali letture, dai “Quaderni piacentini”, alla politica, dalla critica militante ai giornali, alle case editrici, ai libri in proprio, alla malattia (taciuta ai più, sopportata con rassegnazione e con feroce ritegno) alla morte in una stanza di una clinica milanese. Lasciamo le ultime terribili pagine. Le altre raccontano subito, anche nell’incompletezza di un indice, della formazione e della complessità di un’intellettuale vera, autentica, “intellettuale fuori centro, eretica e ironica”, come la ricorda Benedetta Centovalli, intellettuale militante che non si può rinchiudere nell’immaginetta, simpatica certo e pure brillante, della “zarina”. Al fondo di tutto vi è lo sguardo critico nei confronti della società contemporanea, a Piacenza come altrove, quando nascono i “Quaderni piacentini” o quando s’avvia la stagione dei movimenti (non dimentichiamo il suo racconto dei fatti di piazza Statuto, Torino, esemplare per precisione nella ricostruzione) o nei giorni del terrorismo, nella “Milano da bere” craxiana o nel Paese ormai avvelenato dal berlusconismo. Non credo che Grazia Cherchi sia mai stata iscritta a un partito. La sua politica era altra cosa e cominciava dall’estrema sensibilità nei confronti della “quotidianità comune”, del “giorno per giorno” vissuto dai ragazzi come lei e poi dagli adulti come lei, dai vicini di casa e dagli scrittori famosi e ambiziosi, dal tramviere e dal compagno occasionale di scompartimento ferroviario. Considerava la politica come una strada segnata dalla solidarietà e dalla vicinanza, ma non per questo libera dal vincolo del giudizio e quindi integralmente inscindibile dalla cultura. Con rigore e con fermezza, ovunque si possa manifestare il proprio impegno e la propria responsabilità. Così la parola giusta dell’editor diventa un’arma contro la sciatteria dello scrittore, sciatteria che riassume in sé tanti vizi di una società e di un Paese: “La rivoluzione dei testi ben curati, delle parole scelte, precise, verificate, della letteratura fatta a regola d’arte dentro il vivo delle nostre contraddizioni”, come conclude Benedetta Centovalli la sua prefazione… Contro il degrado delle nostre coscienze, aggiungo. Si potrebbe citare Carlo Levi: “Le parole sono pietre”.
Giulia Tettamanti dedica l’ultimo capitolo a un libro di Grazia Cherchi, brevi narrazioni, recensioni, note varie: Basta poco per sentirsi soli (pubblicato da E/o in prima edizione nel 1991 e poi nel 1995, ora credo introvabile). Con Giulia ho ripreso in mano questo libro, “bozzetti di finissimo realismo, ritratti di figure tipiche… scritti da una penna lucida, abituata ai toni della cronaca giornalistica e della critica letteraria e culturale”, “una prosa secca, asciutta”, dialoghi precisi, essenziali. Rileggendo, mi sono soprattutto persuaso di una cosa: dell’egoismo dei più che riduce alla solitudine e che motiva l’amarezza e la generosità di Grazia, che si manifestava anche nel suo sforzo di rinsaldare attorno a sé una comunità di persone, una “minoranza” che lei riteneva “buona”. Forse proprio questa “generosità” spiega come un paio di mesi fa alla presentazione del libro di Giulia si siano riconosciuti ancora tanti amici, che ancora avrebbero avuto voglia di pronunciare quel risoluto intendimento a conclusione di ogni loro incertezza e di ogni loro debolezza, come ci ricordò il giorno dei funerali Giovanni Giudici: “Sentiamo Grazia”.
Non vorrei chiudere però senza ricordare un’altra biografia (la prima sorpresa per me) di Grazia Cherchi, questa a opera di Michela Monferrini (Grazia Cherchi, editrice Ali&No 2015), libro assai intelligente che raccoglie, ordinando per argomenti, quanto scrisse lei di sé e quanto scrissero gli altri di lei. A proposito di editing e di Grazia, Michela Monferrini osserva: “La parola editor come viene oggi usata non la descrive pienamente, lettrice sarebbe più giusta”, cogliendo i punti veri del carattere di Grazia, cioè la cultura e la passione autentiche. A completare il quadro, cioè a definire il procedere di Grazia nella revisione dei libri, ricorderò con orgoglio che l’editing lo fece anche per me e così citerò una citazione di me medesimo dal libro della Monferrini, che mi citava appunto da un articolo apparso su “L’immaginazione”: “Mi indicava le correzioni e poi i tagli che erano un ‘via, via’ sbrigativo, senza appello, accompagnato da un gesto risoluto della mano. Vedevo con pena le righe condannate scivolare a terra, dissolversi tra la polvere del corridoio… Mi ha insegnato a leggere e a scrivere, e soprattutto ad ascoltare, leggendo e scrivendo, per avvertire il ritmo, la misura, il rumore di una pagina, scoprire le lentezze e le lungaggini e poi colpire senza timidezza, senza nostalgie, senza rimpianti”. Eravamo in treno, rientrando dalla “gaia” Torino (“gaia” era suo). Perdonate la vanità.