CERCARE IL POPOLO
Che cos’è la cultura popolare oggi? È la cultura dei gruppi subalterni? Appartiene a soggetti che possiamo definire in modo stabile, in base a caratteristiche socio-economiche e culturali? O è una lente per leggere i rapporti sempre mobili fra egemonico e subalterno nel campo concreto delle produzioni culturali?
Esistono oggi produzioni – canti, musiche, arti, letterature, teatro, cinema – culturalmente autonome nei loro processi produttivi e nei temi che affrontano, che si pongono la questione del potere e del cambiamento nell’arte non in forma retorica? Esistono espressioni artistiche che nascono da esperienze e saperi collettivi, sono frutto delle loro rielaborazioni e non aspirano a diventare prodotto di consumo ma a generare relazioni e pratiche utili al vivere quotidiano? Esistono arti che, anche se prodotte all’interno dell’industria culturale di mercato, sono però manipolate e riconquistate in modo conflittuale o critico da minoranze subalterne (i giovani che abitano i margini della città, i lavoratori e le lavoratrici precarie, i giovani rom, alcuni gruppi di migranti) che ne cambiano i significati e gli usi? O il perimetro dell’espressione culturale e artistica è ormai tutto interno al mercato per le masse, per il salotto elitario della borghesia radicale e per quello della borghesia conservatrice? Che relazioni hanno i giovani e le sottoculture giovanili con l’arte popolare? Le tradizioni e le identità di gruppi sociali – come quelle di contadini e classe operaia – un tempo fra i maggiori produttori di cultura popolare, che fine hanno fatto? Sono divenuti occasione di turismo nel circuito delle sagre di paese o nicchie di consumo “militante” o possono avere ancora una funzione di strumento di rielaborazione, espressione e trasmissione fra le generazioni della propria coscienza e visione del mondo per i vinti?
Iniziamo una ricerca che continuerà ad occupare i prossimi numeri della rivista e che vuole essere una indagine sulla cultura popolare e sui suoi significati politici ieri e oggi.
Siamo partiti da una pratica, una esperienza, una vita esemplari per capire cosa sia l’arte popolare, che viene dal popolo escluso, vive il suo quotidiano, si nutre delle sue domande e desideri, parla la sua lingua: quella di Felice Pignataro – raccontato dalla sua compagna di vita e di azione Mirella La Magna – è un’arte per il cambiamento che ancora forma generazioni di educatori attivisti e attivi a Napoli. Enzo Moscato con il suo teatro avvinto ad una lingua, ad una terra, ad una non integrazione sempre coltivata al mondo della cultura ufficiale, si è fatto cercatore di perle nelle acque profonde della tradizione ma anche costruttore di nuove forme e immaginazioni. Il canto femminista, con la sua manipolazione ironicamente sovversiva di immagini e immaginari musicali tradizionali, ci insegna che le musiche popolari sono un repertorio aperto al saccheggio e allo sconquasso delle nuove rivendicazioni e delle subalterne, un repertorio da non trattare con rispetto ma con sfrontatezza. E più che sfrontato è il rapporto con la letteratura, la tradizione, la poesia e la cultura irlandese di Shane MacGowan, componente epico ma antieroico del gruppo definito variamente punk, folk, celtic, rock The Pogues. Quando le sottoculture giovanili incontrano una tradizione poetica orale misteriosa e affascinante, l’impegno politico per l’indipendenza di una minoranza colonizzata, una tradizione letteraria di altissimo livello, l’esperienza della marginalità e dello stigma negli sradicamenti dell’emigrazione, le fedi consumate dei figli della working class nel sol dell’avvenire, non può che suonare l’ira derisoria di una generazione, che però non rinnega la cultura popolare, ma le chiede di stare al passo.