Bilbolbul, ovvero cosa è successo in questi venti anni
Cogliamo l’occasione, come altre volte è successo in questa rivista, della presenza a Bologna di Bilbolbul per riflettere anche su queste pagine sullo stato di salute del fumetto oggi. Un invito ancora più forte dato il tema della quindicesima edizione del festival, dedicato a un tentativo di fare il punto di questi ultimi venti anni in Italia, e nello specifico nei confronti della forma del graphic novel, che certo non esaurisce la varietà d’offerta del mondo dei comics ma è stata indubbiamente quella che ne ha rinnovato la percezione da parte di lettori e lettrici.
L’ascesa del romanzo a fumetti nelle librerie, nelle vendite e ancor più nell’immaginario di questi anni va forse inserita in un contesto più ampio e di per sé nuovo, ovvero quello dello statuto dell’immagine nei prodotti editoriali contemporanei. Chi ha fatto scuola nel secolo scorso, per più generazioni, è ben stato abituato a vivere il visivo come qualcosa di slegato dall’oggetto libro e dalla pratica di lettura, se non nel tempo di rodaggio dell’infanzia dove i libri con le figure servivano proprio ad allenarci ad abbandonarle via via, una volta diventati “grandi”. Questa idea del visivo come supporto propedeutico alla “lettura vera” spesso si è accompagnato a quella di un vero antagonismo tra immagini e parole. Un antagonismo, direi, storico, che ci riporta alle campagne anti-fumetto presenti nella scuola dagli anni Cinquanta e poi a tutti i babau visivi che via via si sono succeduti, dalla televisione ai videogiochi fino al “computer”, indicando così in modo ironico tutto ciò che viene dal digitale. Le immagini rischiano (“sono!”) di essere diseducative perché alla meglio distraggono, più spesso seducono, impigriscono, danneggiano l’intelligenza… Collocata in una sì lunga tradizione l’affermazione del graphic novel, a cui andrebbe accostata almeno quella dell’albo illustrato, denota davvero un cambio di direzione. Verrebbe da dire quasi un ribaltamento se pensiamo alle proposte culturali offerte dalla rete (escludiamo i social media, ché sarebbe ancora un altro discorso): per quanto sempre supportato e corredato dalle immagini il testo non ha perso certo centralità e anzi ci siamo abituati a sostenere la lettura di articoli e scritti molto lunghi che un tempo avremmo considerato insostenibili sullo schermo.
E se c’è un “rivale” oggi alla parola scritta sembra al massimo essere il canale uditivo (con l’esplosione dei podcast, ma anche dei messaggi vocali) piuttosto che quello visivo. Le immagini invece hanno sfondato il muro della pagina stampata e, oltre che con il fumetto e l’albo illustrato, ne sono piccoli segnali la riapparizione del romanzo illustrato per adulti, con prodotti sofisticati e intrinsecamente ibridi come Manifesto incerto. Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio di Frédéric Pajak (L’Orma, 2020) a opere meno di nicchia e rappresentative nel loro essere indizi come la riproposizione da parte di Neri Pozza di alcuni romanzi in catalogo (ad esempio La vita davanti a sé di Romain Gary con illustrazioni di Manuele Fior). Che tutto ciò aiuti a superare il logocentrismo che almeno da Platone in avanti ha innervato la nostra idea di cultura (e di educazione) mi sembra un tantino pretenzioso; che questa diversa accoglienza nei confronti delle immagini (anche dal ceto pedagogico, tradizionalmente tra i più sospettosi) sia ben lontana da una reale capacità di vederle (cioè leggerle) è un fatto ma si può sperare nell’inizio di un percorso che porterà a frutti importanti. E comunque ciò non toglie che la presenza delle immagini in libreria ha davvero un altro impatto per quantità e valorizzazione e che un affresco sul graphic novel di questi venti anni non può non tenerne conto.
Allo stesso modo non possiamo non considerare che questo periodo sia stato anche quello della conquista di uno statuto culturale diverso da parte del fumetto. Ricordo che Alessio Trabacchini, tante volte presente su queste pagine, mi raccontava di una sua ricerca sui periodici di decenni fa e che ogni certo numero di anni aveva incontrato l’affermazione dell’adultità finalmente raggiunta dal fumetto, ormai decrepito a questo punto. Ma questa maturità ritornante ciclicamente non deve farci esitare dalla soddisfazione di vedere sempre più spesso il fumetto considerato come merita (sul piano dell’immaginario più che della competenza critica). Questa affermazione ha portato anche a notevoli confusioni, a partire dalla considerazione del graphic novel come qualcosa di diverso, e di più colto e raffinato, rispetto al fumetto, con distinzioni a volte comiche, certo non accettabili. Di qui la necessità di una controreazione (che spesso non esce dall’isoletta davvero striminzita degli esperti) di chi ha sentito la necessità di retrodatare l’avvento del romanzo a fumetti, di mostrarne tutta la labilità di distinzione rispetto ad altri formati e, cosa più importante, di contrastare una possibile gerarchizzazione qualitativa per cui tanti romanzi a fumetti (assolutamente non necessari, quando non brutti) godrebbero comunque d’ufficio di una considerazione maggiore di tante opere importanti del passato e del presente che non rientrano in quella tipologia. Rimane un fatto: la progressiva affermazione di singoli volumi autoconclusivi (o di un’opera in più volumi ma comunque non seriale nella logica) in un canale di vendita come quello della libreria (non più edicola o fumetteria) che si facciano forza della capacità di cattura e dello stile di un autore o un’autrice (e non della fama e riconoscibilità di un personaggio) sono elementi indubbiamente nuovi a livello così massivo e hanno spostato il nostro modo di pensare e di poter incontrare il fumetto.
Due gli effetti primi di questo spostamento: uno quantitativo e di offerta editoriale, certamente più ricca, variegata ma anche più convulsa di un tempo e non senza omissioni; di questo parlano gli articoli di Matteo Gaspari ed Elisabetta Mongardi. L’altro è quello immaginativo legato ai contenuti che si è “scoperto” il fumetto può affrontare. Discorso delicato e che non è qui possibile affrontare davvero: sono certo riconoscibili approcci e direzioni precisi e connotanti (in primis l’autobiografismo, il fumetto d’inchiesta o quello biografico) e certamente per ognuno è possibile trovare precedenti importanti che risalgono a ben prima di questi venti anni. Quello che qui ha più senso dire è che senza dubbio il fumetto è stato, nel periodo che prendiamo in esame, uno dei media che più ha saputo raccontare il nostro presente, il rapporto con il reale, la crisi del soggetto individuale nel mondo che ci troviamo a vivere. Se non è possibile, per fare une esempio, comprendere l’immaginario e la realtà del Dopoguerra e del Boom economico senza considerare il cinema, credo sarebbe altrettanto limitativo non prendere in esame il fumetto per avere una visione complessa della nostra cultura e del nostro vivere a partire dalla seconda metà degli anni Novanta ad oggi. La quantità, la qualità, la varietà di figure artistiche e di opere offerte in tale lasso di tempo, pensando sia alle produzioni autoctone sia a quelle tradotte da altri paesi, è tale che davvero non mi sembra di esagerare nel dire che il fumetto ha espresso in questi decenni uno dei suoi momenti d’oro, da accostare a quello delle origini a inizio del Novecento e a quello dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta. Un periodo che forse ora si è esaurito, non perché manchino opere di interesse o di valore assoluto (e l’articolo di Marco Libardi ce ne dà un assaggio tra le nuove generazioni), ma perché sembra spenta la forza propulsiva ancora viva qualche anno fa, un po’ per naturale ciclicità, un po’ per assorbimento del mercato, un po’ per una canonizzazione che via via ci sembra sempre più visibile.
Due gli effetti primi di questo spostamento: uno quantitativo e di offerta editoriale, certamente più ricca, variegata ma anche più convulsa di un tempo e non senza omissioni. L’altro è quello immaginativo legato ai contenuti che si è “scoperto” il fumetto può affrontare
Quali sono le eredità che ne riceviamo? Due sembra utile segnalare qui, per quanto il discorso per forza sia più complesso. Da una parte si è esplicitata la natura spuria (“bastarda” la chiama Emanuele Rosso nel suo pezzo) del linguaggio: ars combinatoria per eccellenza, il fumetto si è dimostrato più adatto di altri media nel ritrarre la confusione del nostro presente, la simultaneità e l’incongruità delle stimolazioni che viviamo nella nostra quotidianità, la sensazione di avere davanti un mosaico difficile da ricomporre in unità. La natura frammentaria e discreta (nel senso di assenza di continuum e di costanti presenze di cavità) del fumetto è riuscita a rappresentare questa nostra condizione al meglio. E non è un caso forse che molte delle opere che via via hanno costruito la storia recente del graphic novel siano opere ibride, spesso non puramente romanzesche (nonostante il “novel” che ne fa da appellativo) ma spurie, in continua oscillazione tra racconto, rappresentazione dell’io, documentazione del reale. Una ibridazione che è ben riconoscibile anche in tanta produzione letteraria e cinematografica del presente e se non mi arrischierei a dare un primato cronologico al fumetto, certo è che quest’ultimo ha saputo parlare assolutamente alla pari con tutte le altre arti.
La seconda eredità riguarda il modo con cui ci stiamo abituando a considerare il dialogo iconico e verbale strutturale nel fumetto. Miranti entrambi a far procedere la narrazione, se ne potrebbe fare una storia proprio considerando le modalità con cui la dimensione visiva ha giocato con quella verbale. Esistono, in altre parole, fumetti che ci invitano a fermarci per la spettacolarità delle immagini e chiedono di essere guardati e altri che invece utilizzano il disegno come forza propulsiva del racconto, un disegno funzionale a farci andare avanti. Non per forza è artisticamente inferiore al primo, ma è ben consapevole di essere in qualche modo un “disegno scrittura”, più che un “disegno pittura”. Un esempio eclatante può essere Persepolis, ma anche Maus, che certo non cerca lo stupore dell’occhio, ma la concentrazione della lettura. In questo il graphic novel si è dimostrato davvero letterario come approccio, abituandoci a un tipo di disegno sempre più sintetico, fino allo scarabocchio o all’astrazione.
Un’ultima domanda: quali sono le urgenze dopo questi venti anni? Certo, verrebbe da dire con caustica ironia, non servono libri in più! O forse un solo settore andrebbe alimentato, ma con intelligenza e senza pregiudizi, quello rivolto all’infanzia e alla prima adolescenza, che non gode ancora di un’offerta del livello di qualche decennio fa, per quanto ci siano segnali importanti di rinnovamento.
Due mi sembrano le direzioni che bisognerebbe alimentare. La prima è quella di un diverso spessore della critica, che ancora non è riuscita a diventare solida e a uscire da un approccio informativo. Il problema della critica va ben oltre il fumetto, ma è specifica per l’assenza storica (tolto nomi isolati) di una strutturazione. La seconda direzione è un’intensificazione dell’attività di formazione e di educazione alla lettura come risposta a una richiesta in lenta ma inesorabile crescita da parte di scuole, biblioteche, lettori e lettrici. Servono esperti che aiutino a selezionare e a far leggere il meglio, ma serve anche (come Emanuele Rosso puntualizza nel suo articolo) esercitare una pratica specifica della lettura che non è affatto scontata, ma anzi richiede una palestra e ostinati allenamenti.
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