Baby gang, un fumetto a Napoli

Baby Gang. Il gioco della città, pubblicato per Monitor Edizioni, non può essere certo considerato un esordio per Diego Miedo, tante sono le produzioni e autoproduzioni che l’hanno preceduto lungo un decennio di attività che lo ha visto impegnato tanto sulla carta quanto, assai brillantemente, sui muri di Napoli. Eppure si ha l’impressione di “una prima volta”, della volontà di creare una storia di una certa ampiezza e articolazione, di fare quello che oramai siamo abitati a chiamare romanzo a fumetti.
Protagonista rimane Napoli, ovviamente, completamente assorbita nel seguire il gioco televisivo ideato dal sindaco in persona, quello che vede i criminali della città uccidersi vicendevolmente per un ricco premio finale e, forse ancor più, per il tifo dei cittadini che seguono e trepidano per la sopravvivenza dei loro beniamini. L’idea quindi è quella di provocare una ricontestualizzazione della piaga criminale attraverso un processo di spettacolarizzazione che da una parte la sposta in un altrove catodico, dall’altra devia anche il rapporto che ne hanno le “persone normali e oneste” che non rischiano più collusioni pericolose, si gustano tutto il sangue vero che viene versato ma visto attraverso lo schermo, senza il rischio di venirne sporcati direttamente o di mescolarlo con il proprio. Un corto circuito geniale di cui si bea il sindaco, che l’ha inventato, ogni volta che può, osannato da cittadini ridotti allo statuto di telespettatori. Eccezione a questa cattura collettiva sono un giornalista giovane, un vecchio scrittore che in qualche modo gli fa da mentore, un ragazzino che vuole vendicarsi dell’uccisione del fratello, scritturato nel programma. Il tentativo di agire di questi personaggi disegna una trama che ha più dell’apologo che del racconto vero e proprio.
Il primo dato interessante di Baby Gang è proprio la chiave grottesca e beffarda con cui tratta il tema della criminalità organizzata e del rapporto con la città. In tempi in cui le finzioni sempre più sembrano dover obbedire alla nostra richiesta di “capire la realtà” (quando non addirittura di “conoscere la verità”) nutrendo la nostra richiesta di senso con lezioncine consolatorie e apparentemente documentate, fa piacere trovare qualcuno che prende invece la strada della finzione dichiarata e delirante, ammiccando certo all’universo delle distopie (che da decenni già hanno raccontato anche le loro derive nella televisione o negli sport estremi) ma senza rimanerne succube. Quello che Miedo sembra fare è uno scarto nella stilizzazione, ovvero in una deformazione consapevole e ben mirata, di ciò che racconta e di come lo fa. Intendiamoci: non si tratta di escapismo, di una evasione nella maniera (ché allora anche lui rientrerebbe a pieno nel circo dello spettacolo che denuncia) ma della consapevolezza che le bugie dichiarate possono rivelarsi più vere (e fare più male). Bombolone, il ragazzino paffutello di tredici anni che si presenta sugli schermi come il concorrente più giovane del gioco a premi, incarna con evidenza il cortocircuito tra criminalità e spettacolo che purtroppo non è solo invenzione e innesca nel lettore un cortocircuito emotivo che scortica per la velocità con cui lo si costringe a passare dal sorriso incredulo e divertito alla resa del reale.
Quello che Miedo sembra fare è uno scarto nella stilizzazione, ovvero in una deformazione consapevole e ben mirata, di ciò che racconta e di come lo fa.
La stilizzazione a cui già abbiamo alluso è il secondo motivo di interesse del fumetto e riguarda tanto il ritmo narrativo quanto le immagini. Il primo è spezzato e nervoso, non tanto per ruffianeria e tenerci incollati alle pagine, quanto per dare la sensazione di un puzzle impazzito ma resistente e ostinato, di una girandola di microeventi (e non importa se è un omicidio o un’intervista: è la stessa cosa) che traducono la realtà in palinsesto. Il rifiuto di un approccio realistico e documentaristico è dichiarato, ancora, dal modo con cui sono disegnate le primissime figure: un contrasto nettissimo e ribadito per tutto il volume tra il bianco e nero, con giochi di luci e ombre taglienti che trasformano l’ambiente in un perenne set (quale in effetti è), volti e corpi estremamente sintetici, pupazzettistici e bidimensionali nell’economia dei segni con cui sono ritratti. Insomma, nei momenti più felici (non sempre tenuti per tutte le immagini) visivamente siamo più dalle parti di Dick Tracy e dei brutti ceffi, vera e propria teratologia, disegnati da Chester Gould, e filtrati da altri maestri di stile contemporanei (in primis Charles Burns, altro disegnatore di mostruosità). Ma se in Gould le maschere servivano lombrosianamente a distinguere nettamente il bene dal male, qui non si può fare più alcuna distinzione: lo spettacolo è diventato pervasivo e sembra aver agito anche sulle fattezze dei personaggi per renderli più riconoscibili e, appunto, personaggi.
Questa pervasività connota anche un terzo elemento di interesse che è quello dei testi, delle parole pronunciate dai personaggi che non sono più in grado ormai di diventare dialogo, ma sono monologhi indirizzati al pubblico, anche quando non si fa parte del programma (e la verità di questo fatto non riguarda certo Napoli, ma il pianeta intero). Che sia il sindaco, il Teschio che spopola sugli schermi o semplici passanti, tutti sembrano pronti con un microfono in mano a rispondere all’intervista di turno. Non esiste più un linguaggio specificatamente televisivo, perché tutto il linguaggio è televisivo.
E in questo sembra di vedere la lezione di Corpicino di Tuono Pettinato, tra i fumetti italiani più importanti degli anni passati, riferimento a cui più volte ho pensato: disanima radicale e spietata del nostro presente ma, di nuovo, attraverso la scelta del paradosso, con personaggi come pupazzetti, per mezzo di una stilizzazione come modo di guardare al reale. E soprattutto l’idea di una società dello spettacolo che ormai si è innervata nelle sinapsi e nelle parole. Non a caso Tuono Pettinato prendeva ispirazione dal caso di Alfredino che certo di questo processo è stata una delle prime rivelazioni. Ancora una volta esistono eccezioni: i dialoghi tra il vecchio e il giovane giornalista sembrano ancora tali, fondati su parole che cercano la comunicazione e non il rispecchiamento. E poi il confronto misterioso tra il giornalista giovane e il ragazzino che ha tentato di vendicare il fratello, immediatamente arrestato: cosa si saranno detti i due? Miedo sceglie assai acutamente di non dirlo, di trasformare in lacuna uno dei momenti di svolta. Come a dire che forse c’è speranza: non tutto è sotto i riflettori.
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