Assistiti e assistenti
“Se vuoi fare veramente qualcosa, dimettiti”
H.D Thoreau, Uomini non sudditi, Piano B, 2010
Mettiamo che una buona idea per un nuovo libro abbia fatto capolino nella testa di un editore. Se poi si tratta di un editore di libri illustrati dovrà trovare l’illustratore più adatto per quella storia, lo scrittore più capace a renderla per quel tipo di pubblicazione. Mettiamo che questo lavoro tra l’editore, lo scrittore e l’illustratore, anche con grande fatica e dispendio di tempo, vada a buon fine: la storia di questo nuovo libro non è ancora cominciata. Abbiamo bisogno che il libro trovi sulla sua strada un buon tipografo, un buon rilegatore e allestitore, un buon distributore, un buon libraio e infine un buon lettore. Se solo una di queste parti del processo viene a mancare è lecito domandarsi: “a che pro continuare ad avere idee, immaginazione, fantasia e provare a metterle in pratica?” Il risultato è la depressione, la crisi.
È solo un esempio ma si potrebbe estendere a tanti cicli produttivi anche molto diversi tra loro. Ma anche a molte altre sfere che non riguardano direttamente la produzione di un oggetto ma a cose molto più astratte come per esempio la trasmissione di conoscenze e competenze. L’educazione per esempio. Non si pensa mai abbastanza quanto il prodotto finale o la proposta educativa fatta a una classe, l’organizzazione di una scuola, sia frutto di una catena in cui necessariamente diverse persone sono chiamate a svolgere bene il proprio lavoro, senza il quale ciò che alla fine risulta non funziona, non è bello, è inutile, superfluo, di puro consumo, non lascia traccia, non crea esperienza, al massimo intrattiene. E infatti siamo diventati tutti medici spuri davanti alla malattia conclamata della nostra società. Ma il medico intrattiene, solo la natura cura.
Siamo al punto che questa catena in diversi punti si è spezzata. Non solo all’origine o alla fine ma anche nei suoi punti intermedi. È spezzata la cooperazione e comunicazione e il rispetto tra le diverse parti del ciclo, è spezzato il senso etico per cui so che dal mio lavoro dipende quello che verrà dopo, e se sarà ben fatto avrà rispettato anche quello che è venuto prima. È molto raro trovare oggi un circolo virtuoso perché è sempre più difficile che ciascuno senta il proprio lavoro come mestiere e quindi come responsabilità di svolgerlo nel migliore dei modi. Un tempo si diceva “a regola d’arte”. Probabilmente perché, oltre al rispetto verso se stessi, si è perso il senso della responsabilità collettiva, la coscienza che il proprio lavoro ben fatto faccia parte della ricchezza di quella società, di quel territorio, di quella nazione. “In ogni stato in cui ho messo piede, ho notato che la cosa più essenziale di tutte è un elevato e integro proposito dei suoi abitanti1”. Elevato e integro proposito, ma per quale fine?
Se smettessimo di pensarci come minoranza che si impegna attivamente in modo elevato e integro differentemente da una maggioranza alienata e sottomessa, e smettessimo di ripararci dietro l’ideologia della nostra utilità anche quando questa non è individuabile in nessuna ricchezza tangibile offerta alla società, ma solo frutto della nostra immaginazione, e ci vedessimo per quello che siamo, intrattenitori davanti alla malattia conclamata, forse avremmo la possibilità di dimetterci da quella ideologia narcisistica e potremmo ripartire da un altro principio fondamentale, l’unico in grado di riparare la catena spezzata di cui facciamo inevitabilmente parte, ovvero: “quanto bene so fare il mio lavoro?” E poi: “quale senso al di sopra di me assume nella società? Quale ricchezza materiale e immateriale offre? Quali cambiamenti è in grado di produrre?
“Il fine di chi lavora non dovrebbe essere quello di guadagnarsi da vivere o di trovare ‘un buon lavoro’, ma piuttosto quello di eseguire bene un certo lavoro2”.
Quante sono, oggi in Italia, le persone che si preoccupano di questo principio fondamentale?
Nel lavoro educativo, nei cosiddetti servizi alla persona poi, c’è qualcuno che lo ricorda?
“Un uomo efficiente e di valore fa ciò che può, che la comunità lo paghi o meno3”.
Saper fare bene il proprio lavoro però non sembra più essere una prerogativa per trovarlo, piuttosto l’incompetente a mezzo di curriculum presenta tramite internet la propria incompetenza al miglior o anche ormai al peggior offerente sperando di essere piazzato e non sempre rimarrà deluso.
Nel campo di cui ci occupiamo, ovvero quello dell’educazione, intervento sociale, servizi alla persona, assistenza, a ben guardare possiamo dire che oggi una vasta schiera di incompetenti sono mantenuti dalla carità dei loro assistiti. La loro carità consiste nell’essersi lasciati esistere come tali a nutrimento di tante e variegate forme di eserciti della salvezza. Allargando l’immagine siamo finiti tutti, assistiti e assistenti, in ospizi di carità sempre più fatiscenti, sempre più affollati, dove ci si siede tutti insieme alla stessa mensa dove il pasto scarseggia o è di pessima fattura. Il pasto caldo e il giaciglio per la notte sono diventati bisogni comuni, sia per gli assistenti – che hanno perso da generazioni l’arte di vivere, ovvero di fare fronte ai bisogni fondamentali di sussistenza, dipendenti anch’essi dalla carità – che per gli assistiti – che l’hanno persa in conseguenza del nostro intervento finito male. Gli uni e gli altri si intrattengono in forme di routine come fossero fondamentali funzioni vitali della società, che in verità potrebbero essere svolte inconsapevolmente, come le analoghe funzioni del corpo fisico.
Ma chi sono gli assistiti e chi sono gli assistenti?
I due aggettivi cambiano faccia, non è detto che gli assistiti siano sempre l’utenza, e che gli assistenti, chi se ne prende cura. Possiamo dire che senza gli assistiti non potrebbero esistere gli assistenti. Per cui i veri assistiti sono gli assistenti.
Gli immigrati sono uno dei casi più emblematici di questo capovolgimento semantico. Quanti immigrati assistono funzioni sociali, culturali e politiche, persino rimborsi spese, contratti di lavoro, affitti, burocrazie?
Sono assistenti di un certo impegno civile e politico come pretesto d’indignazione.
Sono assistenti economici nel senso che forniscono un impiego o qualcosa del genere per chi si occupa di loro.
Sono assistenti di una certa “creatività” che trova in loro le ragioni della denuncia e della comunicazione, giornalisti, scrittori, registi, videomaker, teatranti e così via.
Sono assistenti dello stato quando una sanatoria (l’ultima) viene pagata 1300 euro solo per presentare la domanda.
Sono assistenti di tutto un apparato universitario che prolifera studiando l’immigrazione, le sue forme, le sue molteplici letture, descrizioni e interpretazioni.
Sono assistenti di una miriade di incontri culturali, feste e festival.
Sono assistenti di un cospicuo settore che va sotto il nome di educazione non formale.
Sono assistenti di un enorme apparato per la sicurezza che va sotto il nome di lotta all’immigrazione illegale, dal controllo delle frontiere, ai Cie, ai Cara e così via (centinaia di milioni di euro in entrata e non in uscita come si pensa).
Sono assistenti della natalità di un intero paese.
Sono assistenti di scuole che altrimenti chiuderebbero.
Sono assistenti dei professionisti dell’intercultura.
Sono assistenti di ragioni di vita.
Sono assistenti di motivazione.
Sono assistenti del pane quotidiano (anche se scarso) per migliaia di persone.
Sono assistenti della buona volontà e del narcisismo che offre il sentirsi impegnati in una causa.
Sono assistenti di professionalità come quella dei medici che non trovando sbocchi o posti nei canali ordinari la svolgono ai margini inventando ambulatori, camper, tende senza confini, senza frontiere…
Sono assistenti degli educatori sfornati a migliaia dalle facoltà di scienze della formazione.
Sono assistenti della terza età, nella versione del suo reimpiego come impegno civico.
Sono assistenti di tutta una schiera di creativi che non trovando il talento, e non avendo la consapevolezza della fatica che presuppone ogni gesto creativo, velocemente e con superficialità trovano la comunicazione sociale.
Sono assistenti nell’edilizia, nelle fabbriche, nell’agricoltura.
Sono assistenti nel vero senso della parola: sono colf e badanti.
Un certo senso di colpa per essere assistiti dagli assistiti rafforza in noi il bisogno di sentirci salvatori, di percepire, loro, più vittime che persone. Spesso e nel caso degli immigrati, ancora una volta, questo diventa più evidente che altrove. Il nostro esserci, il nostro intervento è così ipertroficamente auto-costruito, auto-indotto, auto-imposto, privo di significato che il senso glielo dobbiamo trovare noi vestendoci di panni ideologici e schiacciando la persona nell’inettitudine dell’iper-vittimismo. Se non vediamo la vittima non possiamo vedere il salvatore, e se non vediamo il bisognoso non possiamo vedere i bisogni, e se non vediamo i bisogni non possiamo vedere i servizi e se non vediamo i servizi non possiamo vederci in quegli uffici.
Ovvero in una posizione così fragile: ho bisogno di loro per lavorare, per mantenere uno status e un’identità sociale, per mantenere un apparato, ormai una corporazione senza coscienza di esserlo, devo irrigidire il mio sentimento di salvatore e la visione dell’altro come inetto, non autosufficiente, incapace, appunto da assistenzializzare.
La cosa peggiore è che gli assistiti assumono in sé quel ruolo e diventano rivendicativi che non significa attivi sui propri bisogni ma in cerca di chi glieli risolva perché così ci si è presentati con l’onnipotenza del salvatore, ma con le frecce del tutto spuntate già prima di cominciare a lottare.
Assistenzializzarli significa adattarli alla società, essere assistenzialisti significa essere conformi alla società, accettarla in pieno. Assistenzializzarli perché possano desiderare ciò che trovano e non cercare ciò che desiderano e questo è l’effetto ultimo ormai evidentissimo. Minoranze attive che dicono di non volersi adattare alla società, ma che finiscono per imporla ai propri assistiti.
Non resta appunto che dimettersi, dimettersi dalla propria falsa ideologia. Compito arduo perché sotterranea, priva di coscienza, mai esplicitata, eppure diventata, tra i professionisti dell’aiuto, tacita parte di una routine quotidiana. Per farlo c’è una possibilità nuova che ci viene offerta dalla contingenza storica. Gli educatori dovrebbero saper interpretare un fatto del tutto nuovo e inaspettato, ovvero l’avvicinamento/somiglianza tra assistiti e assistenti. Avendo progressivamente perso i nostri bei televisori a colori, i nostri appartamenti, l’illusione di essere una specie di medico e infermiera, e impieghi remunerati, ci viene offerta la possibilità di passare dall’altra parte e sperimentare quella stessa degradazione, quello stesso pervertimento che degli assistiti ha fatto merce di scambio, e dell’incontro tra diversi per sesso, per età, per provenienze, per culture, lingue, condizione sociale, non una possibilità nuova per tutti ma un grande gioco di intrattenimento, un po’ come sull’autobus e sul tram gli adulti si deliziano spolliciando sul loro tablet attraverso i vari social network. Collegati ma totalmente separati, isolati, insensibili, intangibili. A questa nuova natura antropologica non è immune nel profondo, il modo in cui noi incontriamo l’altro, perché è questo che diciamo di voler fare. Senza sapere fino in fondo che l’altro siamo diventati noi. Forse oggi più che ieri, in virtù di questo altro sempre più presente in noi, possiamo essere più propensi a ritrovarci parte di una condizione umana che ci accomuna gli uni agli altri, con sempre meno garanzie superflue e accecanti e così forse diventare più capaci di stringere una nuova e diversa alleanza, fratellanza.
Infatti non si tratta più di assistere ma di allearsi, cercare i propri alleati, cercarsi, scegliersi, riconoscersi perché non tutti lo siamo per status, come eredità data dalla condizione sociale, per definizione. Chiedere di più a se stessi e agli altri. Assistiti e assistenti non sono più simili e vicini solo nel disagio che li accomuna, e questo non li rende immediatamente persone alleate di buona volontà, ma evidentemente si assomigliano anche nel pervertimento della possibilità di essere migliori di quello che si è e forse la china maggioritaria è quella che si sarà tutti peggiori di quello che si era. Per questo sarà sempre più necessario scegliersi e crescere insieme.
Se per un attimo ci spogliassimo del passato e ci immaginassimo come piante pilota colonizzatrici di un ambiente che non è mai stato così lineare, con caratteristiche tanto omogenee per centinaia di chilometri, lande deserte e cementificate, spianate dalle ruspe dell’attività umana, con effetti catastrofici ben peggiori che dopo l’impatto di un meteorite, forse ci potremmo vedere ben presto fiorire qua e là. “Dapprima qualche timida erbetta nei luoghi più impensati. L’anno dopo le avanguardie erano già più numerose. Altre piante fecero capolino quasi ovunque. Passato un altro anno, già si notavano vaste zone verdeggianti, ravvivate da fiori rossi, bianchi, azzurri, gialli, viola, come se nulla fosse accaduto. Si videro altre piante che prima non crescevano in quella zona, e che si mostravano soddisfatte per le condizioni del nuovo ambiente4”. E allora nel giro di un ciclo vegetale attraverso l’attività di piante pilota potremmo veder rinascere l’uomo, lo potremmo vedere darsi da fare senza scomporsi, foggiarsi daccapo gli oggetti e gli arnesi necessari, reinventare la capanna, l’aratro, il carro, il mulino, e scegliere i nuovi semi da spargere sulla nuova terra rimossa. Una nuova fratellanza attiva e capace di riconoscere i nuovi e più potenti diserbanti che torneranno a essere usati per omologare e spianare, sterilizzare il territorio. Ma c’è sempre comunque la possibilità di ricominciare sapendo che ovunque si stia e qualunque cosa si stia facendo il compito è farsi trovare e trovare alleati, e non adattarli al “terreno del diserbo”, ma ricolonizzarlo. Cercare insieme l’ora più mattutina, quella del risveglio dalla sonnolenza, in cui siamo meno servitori e più vicini al nostro Genio. Sapendo che è la mattina delle nostre azioni a riportarci alle epoche più eroiche. “Semplicità, semplicità, semplicità” diceva Thoreau, e intanto, trovati i nostri alleati, nuovi colonizzatori insieme a noi, darsi un primo fondamentale compito “fare bene il proprio lavoro” coscienti che non siamo il tutto, ma la parte di un tutto che per essere ha bisogno che il lavoro sia fatto da ciascuno a regola d’arte. Un uomo non deve fare tutto, ma qualcosa, e la speranza è che non lo faccia nel modo sbagliato, ma con dedizione e in modo realmente efficacie. Fare bene il proprio lavoro significa permettersi di non spendere tutta la propria vita nel guadagnarsela, ma guadagnarsi la vita amandola.
1 H.D. Thoreau, Uomini non sudditi, Piano B, 2010
2 H.D. Thoreau, Op. Cit.
3 H.D. Thoreau, Op. Cit.
4 Ernesto Schick, Flora Ferroviaria, ed. Florette, 2010