Annie Ernaux e la nostra storia
La casa editrice L’Orma ha preso a pubblicare, in splendide traduzioni, i romanzi di Annie Ernaux, autrice francese ormai celebre in patria.
Il posto è uscito nel 2014 ed è stato saluto in Italia da meritato, entusiastico, riconoscimento. Ero in Erasmus a Parigi nei primi anni ’90 quando lo lessi in originale (La place, 1983) e mi ha lasciato stupita, tanti anni dopo, riconoscerlo come se fosse ieri: precisamente, in qualche luogo di quella “memoria lettrice” che assimila le pagine più belle a luoghi della vita vissuta, stavano le scalette buie del retrobottega di un bar drogheria dove una ragazza – che avrebbe potuto essere mia madre – consumava la frattura generazionale coi genitori. La stessa da cui ho sentito segnata, appunto, la vita dei miei. Odori, parole, sentimenti personali che si fanno letterariamente emblema di storia collettiva: ecco cosa a soli vent’anni avevo sentito, senza capirlo del tutto, nel libro di Ernaux. Il merito va riconosciuto a una poetica e alla scrittura, apparentemente semplice e parlata, in realtà perfettamente calibrata sulla singola scelta lessicale e ritmica. Illusoriamente facile, precisamente lieve.
Il posto (in cui alla morte del padre la scrittrice ricostruisce i modi e le ragioni di un distacco culturale e di classe) ha di poco preceduto da noi l’uscita nel 2015 – sempre grazie a L’Orma – di quella che finora è l’opera principale di Annie Ernaux ossia Gli anni (Les années, 2008). Anche questo testo non ha mancato di essere celebrato, fino a ricevere a luglio 2016 il Premio Strega europeo. I luoghi e i numeri del dibattito culturale italiano sono tuttavia così ristretti che un evento letterario fatica a diventare un evento culturale su cui meditare collettivamente oltre lo spazio effimero di un inserto letterario settimanale. Eppure il libro di Annie Ernaux si presterebbe bene a ridefinire questioni non irrilevanti della nostra recente scena letteraria. Cosa è (stata) l’autofiction; perché l’autobiografismo è un bisogno e/o un fallimento; come ridefinire l’individualismo nell’epoca della comunicazione massificata ultraveloce; se e come sia legittimo articolare una riflessione sulla scrittura femminile e maschile; quale valore e possibilità di una memoria storica recente condivisa. E ancora: come chiedere all’arte quella conoscenza del particolare nella storia generale che sempre più diventa appalto delle etnografie accademiche (di antropologi o sociologi) o di giornalismi letterari o romanzi di inchiesta, sbilanciando confusivamente le teorie e le fruizioni e quindi gli usi di queste pratiche di ricerca e rappresentazione.
Perché Gli anni ci mette di fronte a tutte queste cose? Perché è una sorta di autobiografia generazionale, è la narrazione di settanta anni di vita, di UNA vita, che distilla il pathos di sé nell’esercizio del noi.
La scrittrice racconta la porzione di tempo che il suo corpo ha attraversato come il paesaggio, l’ambiente condiviso nei quali ha abitato respirato parlato agito assieme alle altre e agli altri. Anni ossia architetture, modi di dire, di mangiare, di spendere e canzoni, film, eventi della politica e del lavoro che non sono stati sfondo ma sostanza stessa della propria vita. Non la cornice ma i termini nei quali ha potuto pensare, dire e sentire il proprio tempo e se stessa in esso con le altre /gli altri. Rappresentare ciò grazie all’esercizio della scrittura è un potente dono di talento letterario. Ernaux racconta, le pagine volano e gli eventi della sua vita non hanno peso o musica diversa da quelli di tutta la sua generazione: un matrimonio, dei figli, il ’68 o la guerra di Algeria, dice noi senza fatica e appassionando.
Ogni decennio pesca una foto e la descrive, la ragazza e poi la donna che è stata lei ma che siamo state noi. Distanti e stesse, intime eppure estranee ai nostri ieri. Leggerla aiuta a sentirsi come un fuscello trasportato da un fiume, come quel corpo (cosa è un corpo?) che è stato vestito e detto e conosciuto da se stesso in maniera sia assolutamente unica che assolutamente determinata storicamente. Certo si tratta di un’eterna questione, classico della ricerca storico filosofica ma qui essa è letteratura, non è né filosofia né teoria della storia.
Prendiamo il tema dei figli. Come si fa a dire noi parlando di loro? Ernaux ci riesce bene ottenendo un effetto straniante e naturalissimo al tempo stesso. Fare i figli accade come accadono gli altri “fatti della vita” (così il libro stupendo di Laing sulla nascita, del 1978), la nascita la morte la malattia l’amore la vecchiaia il lavoro l’amicizia. I figli sono formati dal loro tempo come tutti e altrettanto che dai loro genitori, i quali li guarderanno vivere come parti del mondo oltre che come propri. Questo si vede leggendo gli anni raccontati da Ernaux – mentre quelli passano dai tredici ai trenta anni, dai videogiochi agli smartphone e la madre sempre prepara pranzi e cene – e la sua prosa fa pensare: che illusione volere solo per loro, per i propri, accecate dall’individualismo ipercompetitivo e dall’ossessione valutativa di oggi. Se qualcosa si può davvero per i figli e le figlie, anche oggi in cui si pensa che solo la scelta dell’asilo giusto li salverà, è qualcosa che riguarda il mondo, la presenza generale e attenta nel mondo. Sia chiaro che questo è un pensiero che il libro fa fare. Annie Ernaux è misura, chiarezza, selezione: non ci sono teorie enunciate se non sul proprio romanzo e sulle proprie scelte di stile nel libro. Tuttavia esso nel suo rigore, come un libro di ricerca ma in un’altra maniera, fa pensare.
Pensare agli anni dal 1940 al 2010, gli anni di una che è stata bimbina nella guerra e ha visto l’11 settembre, che è passata dalle grandi illusioni del decennio 68-77 all’iperindividualismo cinico-consumista e fortificato di oggi. Una come mia madre e mio padre e le/i loro coetanei, a cui più volte ho chiesto (come ogni figlia/o ai suoi?): come hai fatto, dove eri. Ernaux ce li racconta, privatissimi ma generali: ci rappresenta cosa è accaduto con le merci e con la televisione, qualcosa che le altre scienze umane ci metteranno ancora tempo a definire.
Andare a fare la spesa, portare in casa un elettrodomestico, riempire il carrello nelle corsie guardando i colori sulle scatole. La consolazione, lo stordimento, la gratificazione , l’incantamento e infine la narcosi e gli automatismi che il consumismo è stato in grado di portare nelle esperienze di vita. Un mare in cui desiderio e benessere si davano la mano per rapirci, per isolarci, cose fra le cose. È stato così? Quanto è ancora così? Il festino fantasmagorico continua e come in sogno ciascuno di noi ogni giorno balla per alcuni istanti dimentico di tutto con una cosa o una cosetta, fatta in Cina o in Bangladesh, così carina così inutile, così assurda e forse ingiusta eppure nostra.
In questo libro si trovano delle immagini, delle scene per capirlo, per guardarsi. Ad esempio anche sulle automobili. Quando è che la terra si è coperta di capannoni, di tangenziali, di smog, che non c’è più stato spazio nelle strade per i bambini le parole le fontane? Come vedere il mondo da dietro il parabrezza è diventata una forma dell’abitare e del vivere. Ernaux mostra l’accadere di queste trasformazioni, la durata epocale della trasformazione, la modificazione delle coscienze, della sua coscienza, e dei corpi, del suo corpo. Lo mostra sostenendo questo straordinario noi, una prosa fluidissima con un pronome e una dimensione quasi intrattabili: la grandezza del libro, si ripete, è in questa capacità di distillare da una storia di un io il ritratto di una generazione.
Tenere l’intimo e saperlo interpenetrato dal collettivo, dalle parole immagini e tecniche del tempo dato. Con un effetto, tra l’altro, di umiltà e di distacco, di sforzo di conoscenza spogliato di presunzione o titanismo. Non siamo immuni, mai, dal peggio del nostro tempo: le connivenze, le cecità, le debolezze, le cose peggiori come le migliori ci toccano e ci capitano e si va via con pensieri e parole non nostre, di tutti. Le resistenze, le veglie, i progressi si danno, per come possibile, in virtù di azioni reattive, di organizzazioni comuni, di cooperazioni. Anche questo si intravede sotto la prosa de Gli anni.
Infatti qualsiasi lettrice o lettore constata una cosa lampante: negli ultimi settanta anni, nella parabola di vita raccontata dalla scrittrice, un evento è più decisivo presente trascinante di altri e si tratta dalla presa di coscienza e del movimento femminista. In questo arco di storia del novecento è stata la storia delle donne, la possibilità delle donne di vivere altrimenti, a imporsi come segno e fronte di liberazione e cambiamento positivo per tutte e tutti. Nel libro non è proclamato, si tratta – si tocca – con mano e basta. Ernaux lo lascia emergere come un sasso nel tempo.
Dalla paura e dall’ignoranza del sesso, del mestruo e di sé, dalla disistima e dalla costrizione, dalla vergogna e dall’autolimitazione attraverso l’esperienza dei gruppi di autocoscienza e di liberazione femminile l’autrice ha avuto acceso ad alcune esperienze e conoscenze che hanno segnato la sua presenza storica più delle altre. Sì, è vero, comunque è stata (siamo state e stati) cieca e complice e la storia è andata così ma quella in ogni caso, con la sua debolezza, è stata una rivoluzione. E non bastano una o due generazioni per consolidare e definire questo cambiamento perché la storia, anche oggi, ancora è lenta. Non importa chi oggi usa o abusa la parola femminismo perché l’idea che l’umiltà, la cura, i corpi, il molteplice, l’alto e il basso, la cultura e il lavoro possano essere altrimenti è ancora all’inizio.
La possibilità nel libro di usare il noi, di vedersi così una e così niente, è sicuramente, oscuramente, necessariamente legato a quelle esperienze.
In questi giorni di (futili e rumorosi) dibattiti su islam, fertilità pubblica, burkini comunque di nuovo i corpi e le cittadinanze delle donne – che è come dire di bambine/i e stranieri/e – sono il punto e di nuovo è illusorio credere di poter pensare e stare se non con lavori e azioni che contemplino il collettivo.