Anni in fuga. Numeri e storie
Qualche numero
Un pezzo di mondo sta scappando. Scappa per lo più da guerre dichiarate, da focolai a bassa intensità, da regimi dittatoriali, ma soprattutto da guerre civili devastanti. Si tratta di un pezzo di mondo piuttosto ampio: circa 60milioni di persone, afferma l’ultimo rapporto dell’Unhcr. Nemmeno durante la seconda guerra mondiale si era arrivati a un numero così alto di sfollati. Sono epoche ovviamente imparagonabili: la popolazione mondiale è più che raddoppiata dalla metà del ‘900 a oggi. Ciò che però inquieta di più non è il dato assoluto, ma l’aumento impressionante degli ultimi mesi: 10milioni di nuovi profughi solo nell’ultimo anno e mezzo.
Il caso vuole che gran parte del pezzo di mondo che scappa provenga dalla cintura che circonda l’Europa a meridione e a oriente: da Israele al Pakistan, passando per Siria, Iraq, Afghanistan, e dalla Libia al Kenya, attraverso i conflitti in tutto il Nord Africa, represso ma tutt’altro che pacificato, il Mali, la Nigeria, il Ciad, il Sudan, l’Eritrea, la Somalia. Per citare solo l’eco lontano delle guerre che arrivano alle nostre orecchie.
Due terzi del mondo che scappa (38milioni di persone) rimane all’interno dei confini del proprio paese, oppure, nella speranza di rientrare appena le condizioni lo permetteranno, interrompe il suo viaggio in un paese confinante: Turchia, Pakistan, Libano, Giordania, Iran, paesi che consideriamo “in via di sviluppo”, sono fra quelli che accolgono il maggior numero di rifugiati. Per limitarci al caso della Siria, uno dei più drammatici, sono circa 11milioni le persone che dall’inizio della guerra, nel 2011, hanno abbandonato la propria casa. La maggior parte sono sfollati interni (oltre 7 milioni e mezzo), 2milioni vivono in Turchia, poco più di un milione in Libano e 600mila in Giordania.
Di tutto questo pezzo di mondo che scappa, nel 2015 hanno raggiunto l’Europa circa 1milione di persone. Un milione di uomini e donne che non sono il prodotto dell’attività di organizzazioni criminali, né disperati ammaliati dal nostro sistema di welfare pronti a rischiare la vita pur di godere della pubblica assistenza europea. Un milione di persone che hanno valutato che per vivere dignitosamente o più semplicemente per sopravvivere non rimaneva loro altra possibilità che la fuga.
Di questo milione di persone che hanno fatto ingresso in Europa nel 2015 solo una piccola parte è passata dall’Italia (144mila), mentre la maggior parte ha scelto la rotta verso la Grecia (oltre 800mila persone). Le mete agognate: Germania, Francia, paesi scandinavi, Inghilterra, Belgio. Dei profughi arrivati in Italia via mare possiamo dire innanzitutto che nel 2015 sono calati del 13% rispetto ai 170mila dell’anno precedente e che se il trend rimarrà lo stesso, del numero complessivo di arrivi meno di 50mila rimarranno a lungo nel nostro paese. Nel 2014 infatti solo un terzo delle persone arrivate ha fatto domanda di protezione internazionale (e soltanto il 60% circa ha avuto risposta positiva). Sembrerà incredibile, ma gli stranieri, nel complesso, non vogliono fermarsi in Italia e quelli che già c’erano, hanno iniziato ad andarsene: 48mila sono gli immigrati che nel 2014, secondo l’Istat, si sono cancellati dai registri anagrafici per trasferirsi all’estero.
Pochi o tanti?
1milione di arrivi in un anno in Europa; 144mila in Italia: come interpretare questi numeri? In termini assoluti non sono cifre che dovrebbero impensierire. 1milione di profughi su 500milioni di abitanti (piuttosto anziani) che popolano l’Europa è un rapporto decisamente sopportabile, sotto certi aspetti (demografico e produttivo) perfino salvifico. Così come è ridicolo allarmarsi per l’impatto di rifugiati e richiedenti asilo sulle casse degli stati dell’Unione. In Italia il costo per la gestione dell’accoglienza rappresenta una piccolissima percentuale, lo 0,14%, della spesa pubblica complessiva. E quel poco ritorna in gran parte ai territori che accolgono, sotto forma di stipendi a operatori, affitti e consumi.
Più complicato rispondere alla stessa domanda – sono pochi o tanti? – se prendiamo come unità di misura la nostra capacità di integrazione. Sarebbe a dire la possibilità di creare contesti in cui chi scappa riesca a mettere radici, mantenendo il grado di conflittualità a livelli controllabili o al limite usando quella conflittualità per ripensare e migliorare i territori che accolgono. Non tutta la partita si gioca sul piano dei numeri. Solo una parte del problema, ad esempio, è riconducibile al collocamento dei profughi, di cui tanto si discute in questi mesi, ovvero a una loro distribuzione ragionevole tra gli stati europei. Il resto – che cosa faremo con queste persone così diverse da noi e così diverse tra loro una volta che siano state ricollocate; cosa decideranno di fare loro una volta arrivate a destinazione; come ricostruiremo insieme una casa che dava segni di cedimento ben prima del loro arrivo, senza farci guerra gli uni con gli altri – è tutto da inventare, tutto da sperimentare. Certo buone norme, un ragionevole investimento economico, così come una sensata redistribuzione territoriale, costituiscono le condizioni minime, la base da cui partire per tentare questa impresa.
Da questo punto di vista, un numero tutto sommato contenuto di nuovi ingressi rischia di diventare una cifra insostenibile per le politiche di austerità che l’Europa si è data. È questa una buona ragione per chiudere le frontiere, per respingerli, per scoraggiarli o dissuaderli con una burocrazia insormontabile? Tutt’altro. Sarebbe piuttosto una buona occasione per mostrare che i conflitti portati a galla dal loro arrivo riguardano in realtà tutti. Non è un caso se fino alla fine degli anni ’70 il diritto d’asilo era poco rivendicato: le società europee necessitavano in misura massiccia di lavoratori stranieri, poco importava essere riconosciuti come migranti o come rifugiati. La distinzione tra migrante economico e richiedente asilo sfumava per il fatto che mettere radici attraverso il lavoro in un certo senso faceva venire meno l’esigenza di statuti e strumenti speciali. Oggi avviene il contrario. L’ossessione di discernere i buoni dai cattivi, le vittime dai parassiti (questo dichiarano di fare gli hotspot), dovrebbe farci riflettere sul fatto che il lavoro, per nativi e migranti, è un diritto fondamentale.
Gli stati dell’Unione non troveranno una posizione comune decente su profughi e migranti fino a quando non rinunceranno alle politiche suicide che negano “l’accoglienza” – casa, lavoro, reddito e sicurezza – a una fetta sempre più consistente dei propri cittadini. Una società in via di disintegrazione che possibilità ha di integrare? Chi è sradicato sradica, scriveva Simone Weil.
Stiamo parlando di numeri ben lontani dal giustificare la graduale dissoluzione dell’Europa che stiamo osservando in questi mesi. Spesse volte sulle pagine di questa rivista abbiamo sostenuto anzi che il passaggio degli uomini e delle donne in fuga da mezzo mondo avrebbe potuto risvegliare idee e coscienze, dare ossigeno alle nostre depresse democrazie, costringere a rivedere i parametri delle nostre politiche sociali, suggerire nuove pratiche educative. Ma oggi, in questo inizio d’anno, dopo il naufragio di aprile, il ritrovamento dei cadaveri nel camion abbandonato lungo l’autostrada austriaca, dopo Calais, Ventimiglia, il filo spinato di Ungheria, Slovenia, Macedonia, dopo le reazioni scomposte e paranoidi alla strage di Parigi o ai cosiddetti “fatti” di Colonia e alla connessione diretta che lentamente si è fatta spazio nella percezione di tutti tra terrorismo e crisi dei profughi, dopo la sospensione a più riprese degli accordi di Schengen, dopo tutto questo, la speranza che l’arrivo di uomini e donne in fuga da guerre, miserie e oppressioni rappresenti un grimaldello per mettere in discussione l’assetto politico e culturale della nostra società, risulta francamente illusoria.
Le storie
Ma i numeri non bastano. Né per comprendere né per reagire al problema che, insieme al pareggio dei bilanci pubblici, sta mandando in frantumi l’Europa. Per decidere cosa fare, qui e ora, sia in termini di politiche migratorie sia in termini di pratiche di accoglienza non si può prescindere dalla ricostruzione di un quadro attendibile della situazione da cui questo pezzo di mondo sta scappando. Un giovane profugo somalo incontrato qualche mese fa a Roma ha usato un’immagine efficace per spiegare la banalità di questa idea: se mi trovo nella foresta e vedo un uomo che scappa la prima cosa che l’istinto mi dice di fare è cercare di vedere da cosa sta scappando. Senza una conoscenza, pur vaga, dei paesi, dei governi, delle condizioni materiali che costringono i profughi alla fuga, qualsiasi tentativo di regolare con giustizia ed efficacia il loro arrivo in Europa, così come qualsiasi progetto di integrazione risultano abortiti in partenza.
Sono queste, credo, alcune delle ragioni alla base del lavoro di scrittura e inchiesta che con La frontiera (Feltrinelli 2015), Alessandro Leogrande ha voluto dedicare al Mediterraneo, faglia dove le tensioni e i conflitti del pezzo di mondo che scappa trovano un drammatico punto di rottura. La frontiera cuce insieme le storie di esilio e fuga, di naufragi e approdi, che Leogrande ha raccolto in questi anni in un lavoro di ricerca che si colloca al confine tra inchiesta, narrazione e collaborazione diretta a iniziative di intervento sociale. Un lavoro ibrido fatto di appunti di viaggio, resoconti di incontri, conversazioni con immigrati arrivati di recente o residenti in Italia da lungo tempo. Il tutto rimontato in un reportage narrativo che non solo cerca di ricostruire le cause della violenza che molto spesso determina la partenza o si scatena durante la fuga, ma anche di capire quale sia la narrazione più efficace per provare a dipanare eventi che nel loro groviglio di lutti e oppressione rischierebbero di rimanere incomprensibili.
Ogni esodo è fatto dalla somma di singoli, irriducibili, esodi. Come quello di Alì, in fuga dal Darfur e dalle bande di predoni che assaltano i villaggio per rubare il bestiame. La notte passata nel bosco in attesa che i predoni si allontanino e nel buio del nascondiglio la decisione di non rientrare a casa, ma di proseguire il viaggio verso nord. O come quello di Gabriel, cresciuto in una famiglia dell’elite intellettuale di Asmara durante gli anni dell’occupazione etiope in Eritrea, militante del Fronte di liberazione, fuggito in Italia quando si accorge che i compagni di partito stanno edificando una dittatura peggiore di quella che cercano di rovesciare. O come quello di Abdel, baby scafista, salpato una mattina dal porto di Alessandria come pescatore, finito a traghettare come passeur un barcone di immigrati fino al limite delle acque internazionali, tratto in arresto da una nave della marina militare e consegnato alla polizia di Catania.
La frontiera non pretende di spiegare la storia con le storie, ma al tempo stesso non rinuncia al tentativo di comprendere le cause generali dell’esplosione, politica ed economica, di alcune delle aree del mondo da cui partono gli uomini e le donne che chiedono protezione all’Europa. Su tutte l’Eritrea, paese da cui proviene la maggior parte dei profughi giunti in Italia nel 2015, a cui il libro dedica le pagine a mio avviso più appassionanti.
Perché su quella barca erano tutti eritrei? È a partire da questa domanda, all’indomani del naufragio che nell’ottobre del 2013, a largo di Lampedusa, costò la vita a oltre 360 persone, che Leogrande ricostruisce la natura della dittatura di Isaias Afewerki, eroe della guerra di liberazione contro l’Etiopia e oggi cinico burattinaio di uno dei regimi più soffocanti dell’Africa centrale.
L’unico elemento che accomuna gli uomini e le donne a cui Leogrande dà la voce o che induce al racconto, l’unica generalizzazione che è possibile trarre dalle storie del loro viaggio, è l’attraversamento di un confine. Il resto, non meno importante per decifrare la vera natura delle frontiere contemporanee, è tutto da indagare. Il resto è fatto di viaggi che durano anni, che subiscono battute d’arresto, che procedono di tappa in tappa in relazione alla casualità di un incontro, ai soldi che si è in grado di mettere insieme per raggiungere la tappa successiva. Perché i viaggi, anche quelli sui camion, nei camper, a piedi in mezzo al bosco, o attraverso il mare su gommoni e pescherecci fatiscenti, costano molti, a volte moltissimi soldi. Così tanti soldi che, se esistessero modi per entrare legalmente in Europa, basterebbero ad acquistare biglietti aerei in business class e che invece alimentano un enorme indotto di economia illegale o criminale. Se qualcuno blocca una via di fuga, con un muro o con la burocrazia, il fuggitivo non arresta la sua fuga. Non può arrestarla. È allora che qualcuno si ingegna a trovare un nuovo punto di passaggio: scafisti, passeur, organizzatori di viaggi che, a volte in modi infami e disumani, a volte solo per poter attraversare a loro volta la frontiera a prezzi ridotti, inventano alternative all’assenza di ingressi sicuri e legali.
Le parole e le cose
In molte pagine del libro Leogrande si domanda quale sia la lingua migliore per raccontare la frontiera; quale distanza tenere dagli esseri umani che, per causa e al prezzo di altissime sofferenze, l’attraversano; come maneggiare la memoria di chi, attraversandola, ha perso la vita; che rapporto stabilire tra i naufragi e la partita politica che, intorno ad essa, si sta giocando in Europa. Sono questi temi che sembrano ossessionarlo, per certi versi non meno della frontiera stessa. Hanno a che vedere con la qualità di quanto si scrive, anche nel campo della controinformazione. Non basta limitarsi a offrire una versione più completa dei fatti per contrastare la narrazione dominante. C’è un problema che riguarda l’efficacia della narrazione, che se non trova una sua radicale “alterità” finisce per assuefare, o peggio per condividere implicitamente gli stessi parametri, anche qualora di segno opposto, del discorso dominante.
Il problema della lingua è un problema serissimo. Le domande di Leogrande sono sincere, necessarie, urgenti e riguardano lui come tutti coloro che si pongono l’obiettivo di generare, con le proprie parole, qualche forma di cambiamento – se non nel contesto almeno in chi legge. Quanta parte della crisi, quella vera, la crisi delle idee, delle intelligenze, della capacità di reazione, di organizzazione, critica e rivolta è determinata dal fatto che le cose sono raccontate sempre meno per quello che sono, filtrate da convincimenti occasionali, confusi, ideologici, retorici, moralistici?
Siamo di fronte, credo, a un fenomeno nuovo, non del tutto riconducibile alla disinformazione tradizionale. Di questo “fenomeno nuovo”, per citare un esempio vicino all’oggetto di queste note, abbiamo visto nitidamente le fattezze nelle settimane successive ai cosiddetti “fatti” di Colonia. Non si tratta più solo di un’informazione manipolata e costruita allo scopo di orientare l’opinione pubblica, condizionare le scelte politiche, scambiare, a mezzo stampa, messaggi ricattatori o minatori tra un gruppo di potere e un altro. È una comunicazione che si muove ormai secondo meccanismi autonomi, che si autoalimentano, quasi mai intenzionali, quasi sempre fuori dal controllo di chi crede di dominarli. È una comunicazione che produce pensieri-massa, emozioni-massa, indistinti e trasversali agli orientamenti politici.
Le domande di Leogrande sulla lingua sono centrali e necessarie, ma hanno il limite di rimanere all’interno dell’alveo di un dibattito culturale, quello sulla non-fiction, che non può fornire risposte all’altezza delle questioni che pone.
Leogrande scrive, con La frontiera, uno dei libri più utili a comprendere e far comprendere il cambiamento forse più complesso, drammatico e significativo del nostro tempo. Ma non lo fa perchè infrange i confini tra giornalismo e letteratura, né perchè pone l’io al centro della scena o perchè lo rappresenta nell’atto di indagare. Lo fa quando mette in relazione le cose in un modo che non è lo stesso dell’ordine corrente. Lo fa quando mostra che quello che viene venduto per realtà è fittizio, mistificatorio, nient’altro che umori del momento e di chi scrive.
Mettersi al centro della scena, di questa scena, della fuga, dell’attraversamento della frontiera, è semplicemente impossibile. Meglio allora tenersene fuori, rimanere al di qua. È il di qua che dipende da noi. Di qua c’è ancora moltissimo da fare.