Angela Zucconi e la parola comunità
Negli ultimi mesi la riedizione della bella autobiografia Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, edita da Castelvecchi, e la pubblicazione del quaderno La parola Comunità per le Edizioni dell’Asino riportano alla dovuta attenzione un grande personaggio come quello di Angela Zucconi.
Si tratta di un interesse diffuso negli ultimi anni, in cui i protagonisti dimenticati di importanti progetti di sviluppo sociale e democratico per l’Italia postbellica (basti pensare a Adriano Olivetti o Danilo Dolci) vengono riscoperti, complice il tramonto di quelle ideologie politiche che negli anni della guerra fredda hanno trionfato, segnando la fine di molte di quelle esperienze.
Cinquant’anni nell’utopia è un testo denso e importante, che racconta il percorso di crescita di Angela Zucconi nelle colonie libiche e gli anni di formazione intellettuale tra Italia, Germania e Danimarca, fino al periodo della resistenza e del dopoguerra vissuti con una partecipazione e una “presenza al proprio tempo” rigorosa e potente (per molti versi esemplare). L’approdo al servizio sociale di un personaggio politicamente e culturalmente così ricco e complesso parrebbe oggi una inspiegabile “retrocessione” mentre allora non era che la scelta consapevole di un impegno per la ricostruzione del paese che non poteva fermarsi al solo lavoro politico e culturale, ma esigeva pensieri e prassi nuove anche per l’agire sociale e lo sviluppo delle comunità. Cinquant’anni nell’utopia è un testo prezioso per meglio conoscere personaggi e avvenimenti poco noti della storia dell’antifascismo e dell’impegno nella ricostruzione del paese, con una particolare attenzione per la “questione meridionale”. Angela Zucconi fu stretta collaboratrice di Adriano Olivetti, Manlio Rossi Doria, Guido Calogero, Leonardo Benevolo, Paolo Volponi e tanti altri protagonisti del Novecento italiano, diresse per lunghi anni la scuola per servizio sociale Cepas (Centro di educazione per assistenti sociali) facendone un centro culturale di grande importanza, con un lavoro di elaborazione e divulgazione di tutte quelle discipline che in Italia, dopo vent’anni di fascismo e cinque di guerra, non erano mai arrivate. Al Cepas la psicologia, le scienze sociali (sociologia urbana e rurale) e le moderne tecniche di servizio sociale erano studiate e “praticate” con grande anticipo rispetto al mondo accademico e culturale di allora.
La parola comunità, invece, è un’agile raccolta di materiale grigio (articoli e documenti relativi ai progetti di comunità cui la Zucconi lavorò per anni) introdotta da una nota di Goffredo Fofi (che studiò servizio sociale proprio al Cepas) e chiusa da un breve ritratto biografico curato da Maria Stefani, che attualmente è responsabile dell’archivio storico del Cepas. Questo volumetto ci restituisce un senso immediatamente pratico del lavoro di Angela Zucconi come grande innovatrice del lavoro sociale in Italia. I documenti qui raccolti (risalenti alla fine degli anni Cinquanta e alla prima metà degli anni Sessanta) ci riportano la grande profondità e lungimiranza del lavoro della Zucconi che, attraverso la riflessione e la sperimentazione, mise a fuoco già allora molti dei nodi, delle contraddizioni e delle aspirazioni che caratterizzano anche oggi il lavoro di assistenti e operatori sociali.
Innanzitutto la dimensione comunitaria cui il lavoro sociale deve ambire. Attraverso l’ingresso in Italia delle tecniche di servizio sociale di comunità di origine anglosassone (community work) si poneva l’obiettivo non solo dell’aiuto e sostegno delle persone in stato di bisogno, ma anche dell’attivazione e della crescita della comunità in cui quelle persone vivevano, considerando il territorio come parte integrante della loro vita.
Per dare un ritorno immediato dell’attualità degli scritti più tecnici (relativi cioè alle tecniche di servizio sociale insegnate al Cepas e sperimentate nei progetti di comunità) di Angela Zucconi basta leggere il primo documento contenuto nel quaderno. Già in questo articolo del 1952 (anni in cui il sistema assistenziale era ancora sostanzialmente di carattere caritatevole, paternalistico e frammentato ereditato dal fascismo) Angela Zucconi scriveva: “Ogni situazione di bisogno (inteso in senso lato) risulta prodotta da una concomitanza di cause, alla quale si deve tentare di contrapporre una concomitanza di iniziative. Il terreno più favorevole perché queste iniziative si incontrino con i bisogni e operino in solido è appunto il Centro Sociale”. Quest’ultimo doveva diventare la base operativa del community work, il centro di conoscenza e il motore di azioni di sviluppo che oggi definiremmo “partecipate” o “dal basso”: partendo dalla conoscenza del contesto di lavoro (studi di comunità) le assistenti sociali avrebbero dovuto coinvolgere e attivare la popolazione nella soluzione dei problemi del proprio territorio in modo da rendersi autonome e artefici della propria emancipazione dallo stato di necessità (quel che oggi va tanto di moda con il nome di empowerment). La dimensione di comunitaria avrebbe permesso alle assistenti sociali di interagire con tutte le persone del contesto (non solo con i più bisognosi e con gli “assistiti”) e di diventare così un osservatorio sociale permanente. Il lavoro sociale doveva quindi guardarsi da diversi rischi, innanzitutto da quello della burocratizzazione dell’intervento e di una sua eccessiva frammentazione: “un centro che nasce con la sola ambizione di coordinare i servizi esistenti rischia di burocratizzarsi in partenza [….]. La sfera di influenza propria del Centro Sociale si estende dal vicinato al gruppo e dal gruppo alla comunità, e rappresenta il superamento non solo di questo tipo di circoscrizioni, ma di tutte quelle forme di “sezionamento” che nella nostra società pullulante di associazioni raggruppano gli uomini che hanno gli stessi bisogni, quelli che svolgono la stessa attività […]”.
Nell’analisi dei rischi di degenerazione che corrono gli operatori c’è anche quello di adagiarsi e richiudersi in uno sguardo patologizzante, incapace di cogliere potenzialità e punti di forza delle persone dei contesti in cui opera: “l’assistente sociale che assume la direzione di un Centro deve cominciare con il liberarsi da certe abitudini mentali: quella di sentirsi più al suo posto in ambienti patologici, di considerare più i mali che le risorse di un individuo o di un gruppo, l’abitudine a vedere la gente divisa per categorie, mentre la vitalità del centro sociale è proprio legata all’eterogeneità dei gruppi e degli individui”.
Il quaderno contiene poi interessanti materiali sul più significativo tra i progetti di comunità cui lavorò Angela Zucconi, il “Progetto E”, che riguardava un comprensorio territoriale nell’entroterra abruzzese, e alcune amare riflessioni di come quella stagione in cui sembrava possibile un profondo rinnovamento nell’intervento sociale e nello sviluppo economico e sociale “a misura d’uomo” sia presto terminata con la scomparsa di alcuni protagonisti e con l’impetuosa e disordinata mutazione che il boom economico impose al paese dagli anni Sessanta in poi.
Leggendo queste pagine il paragone con l’oggi è impietoso. Salta subito all’occhio come le storture che caratterizzavano il sistema assistenziale ereditato dal fascismo e da cui un moderno ed efficace lavoro sociale doveva emanciparsi avessero molti punti in comune con le attuali criticità del sistema di welfare: un approccio fortemente parcellizzato e diviso rigidamente in categorie (oggi li chiameremmo target), una proliferazione di enti le cui competenze e prestazioni spesso si accavallavano senza alcun tipo di regia, un approccio puramente “erogativo” che tendeva a cronicizzare lo stato di bisogno invece che emancipare le persone. A queste e altre degenerazioni il lavoro delle assistenti sociali (figura sconosciuta in Italia fino alla fine degli anni Quaranta) doveva porre rimedio attraverso moderne tecniche di servizio sociale e una visione che comprendesse lo sviluppo della comunità come causa e insieme conseguenza dell’emancipazione delle persone in condizione di fragilità. Quel compito, che Angela Zucconi e altri si davano con tanta lucidità a partire dall’immediato dopoguerra, sembra oggi paradossalmente ancora lontano dall’essere portato a termine.
Anche nel confronto con il contesto ampio in cui la Zucconi si trovava a operare lo scenario attuale ci sembra purtroppo molto distante: leggendo dei progetti del Cepas si scopre che potevano contare sul sostegno di importanti imprenditori (come Adriano Olivetti), di grandi enti pubblici che si occupavano della ricostruzione postbellica (come l’Unraa Casas, o l’Ina Casa), di studiosi e intellettuali di grande calibro (urbanisti, sociologi, letterati, filosofi), riuscendo così a dare vita a circuiti virtuosi e all’avanguardia. Soprattutto si percepisce la spinta forte al rinnovamento e all’innovazione del paese che sembrava possibile e a portata di mano, a livello culturale, economico, sociale e politico.
Anche oggi si torna a parlare di lavoro di comunità, ma sempre più spesso in riferimento a contesti che sono profondamente segnati dalle storture già allora ben delineate: la burocratizzazione, l’approccio patologizzante e cronicizzante, la limitazione al mero aspetto erogativo dell’assistenza, la settorializzazione estrema e paralizzante del sistema, sono oggi fenomeni diffusi. Si possono realizzare progetti di welfare di comunità (welfare generativo, sussidiarietà la terminologia negli anni è divenuta ampia!) in situazioni impantanate e in dismissione come sono oggi i sistemi di welfare, da quelli comunali fino ai grandi enti nazionali? Se per “coinvolgimento della comunità” si intende la fortissima riduzione del pubblico a favore dei soggetti privati e delle principali forze economiche (che spesso si muovono con logiche di mercato e non certo orientate al “bene comune”) si è, purtroppo, sulla buona strada. Se invece, come sarebbe giusto, con “welfare di comunità” si intende un profondo rinnovamento e ridefinizione dell’intervento assistenziale pubblico, in senso democratico, partecipativo e responsabilizzante, la strada da fare sembra ancora più lunga e difficile di quelle che si aprivano allora alla generazione di Angela Zucconi.