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Ancora sui matti, un libro di Paolo Milone

Illustrazione di Frédéric Coché
29 Aprile 2021
Oreste Pivetta

“Ho iniziato a lavorare nel 1980 in un Centro di Salute Mentale…”. Si presenta così a quarant’anni di distanza da quel principio, in una “nota dell’autore” in ultima pagina, Paolo Milone, psichiatra di Genova… Ha cominciato quindi due anni dopo l’approvazione della legge 180, la cosiddetta legge Basaglia, in realtà firmata da un altro psichiatra genovese, senatore democristiano allora, Bruno Orsini, che aveva ben conosciuto come Milone il manicomio di Quarto, quell’enorme, per certi versi affascinante, di sicuro inquietante, ospedale fortezza, dagli alti corridoi, dalle grandi stanze, dal lussureggiante giardino, di una sua immobile bellezza, spaventosa se si prova a immaginare l’andirivieni di fantasmi dentro quegli spazi.

Dopo il Centro di Salute Mentale, a  Milone toccò un reparto psichiatrico ospedaliero, una sorta di avamposto d’urgenza di fronte ai casi più gravi o, forse, di fronte ai casi “quando non si sa che cosa fare”: “Prendiamo le persone che neanche il carcere regge”.  Il reparto diventerà per noi “reparto 77”. Mi viene in mente “Stalag 17”, il film di Billy Wilder, ambientato in un campo di concentramento tedesco: ma da quell’inferno i prigionieri americani riusciranno a fuggire. 

Paolo Milone ha raccolto queste sue vite per “frammenti” in un libro dal titolo bello (letterariamente), L’arte di legare le persone (Einaudi), titolo che sa di provocazione, scoperta, che può esprimere gesti e intendimenti assai diversi, ma che subito mi ributta in testa i nomi di Francesco Mastrogiovanni, di Giuseppe Casu, di Agostino Pipia, di altri prima di loro e più lontani nel tempo. Il più conosciuto dei tre è stato Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento, l’anarchico che cantava di fronte ai carabinieri “Addio Lugano bella”. Aveva in macchina imboccato una strada contro mano. Dopo la segnalazione, per i suoi pochi precedenti (di anarchico più di che matto) scattò il tso, il trattamento sanitario obbligatorio.  Lo bloccarono in spiaggia e lo costrinsero al ricovero nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo di Lucania . Lo abbiamo visto morire in tv dopo ottantasette ore di contenzione, legato a un sudicio letto. Il cammino di Mastrogiovanni e la sua morte (nell’agosto del 2009) sono tutti documentati in un film di Costanza Quatriglio, 87 ore, costruito (come per il servizio televisivo) grazie a testimonianze e soprattutto grazie ai materiali delle telecamere di sorveglianza installate fuori e dentro il reparto. 

Giuseppe Casu, di Cagliari, era un venditore ambulante senza licenza. All’ennesima multa dei vigili diede in escandescenza. Finì anche lui in tso e finì legato ad un letto dell’ospedale S.s. Trinità. Morì il 22 giugno 2006. Allo stesso modo, nello stesso ospedale, si chiuse l’esistenza di Agostino Pipia, geometra di 45 anni: embolia polmonare e il cuore cessò di battere.

Storie atroci di contenzione. Una volta, prima di Basaglia, si usava così: camicie di forza, gabbie, legacci bloccati ai quattro angoli del letto, strozzina (un lenzuolo bagnato intorno al capo finché il poveretto perdeva i sensi). Ovunque e comunque chiavistelli e inferriate. Cominciò Basaglia, a Gorizia, ad aprire, ad abbattere i muri, a cancellare la contenzione. “Mi no firmo” rispose il primo giorno al direttore amministrativo,  che gli stava presentando la lista dei “contenuti”. I farmaci aiutarono (il “carrellino dei farmaci”, come lo raccontò sul Corriere della sera Mario Tobino, lo psichiatra e lo scrittore, autore tra l’altro delle Libere donne di Magliano o di Per le antiche scale, resoconti della sua esperienza manicomiale). I farmaci servono a calmare, a sedare, a far sì che il malato in sofferenza s’acquieti, s’addormenti, senza tuttavia che possa guarire.

Paolo Milone è arrivato dopo Basaglia (anzi, proprio nell’anno in cui Basaglia morì) e ha vissuto quindi la psichiatria della “rivoluzione”, perché la chiusura dei manicomi rappresentò una rivoluzione, l’unica in Italia, ma ha conosciuto anche la psichiatria dei ritardi, delle inadeguatezze, del boicottaggio, tutte le contraddizioni di un sistema, come sempre, lento (o contrario) a capire, lento a cambiare, lento ad accettare una riforma, che secondo Basaglia, si sarebbe dovuto applicare, ma al tempo stesso adeguare, modificare, aggiornare in base all’esperienza che via via si poteva maturare. Una riforma, come sosteneva Basaglia, è sempre un traguardo da cui ripartire. 

Paolo Milone è stato intimamente testimone di questa storia. Non è un analista di leggi, protocolli, circolari e non troverete nelle sue pagine un accenno diretto alla legge 180, a Basaglia, a Trieste, alle inadempienze, a una sola riga dell’armamentario della burocrazia sanitaria, ma solo ombre di una polemica contro le “mode”, contro il pensiero vincente, senza quelle verifiche che la cultura pretenderebbe: “Quando in Medicina si fa un passo avanti nessuno demonizza i vecchi metodi, nessuno accusa chi li praticava. / Non è così in psichiatria. / Qui si bonifica il presente mettendo il male nel passato. Per questo voglio parlare del legare le persone”. 

La sua vicenda narra di un corpo a corpo tra lui e il malato, di uno scontro/incontro tra due sensibilità, tra la tentazione della resa e la moralità della resistenza, tra la constatazione dell’impotenza di fronte ai morti, ai suicidi, e la consolazione di aver comunque realizzato il possibile, che non è mai tutto, non è mai neppure rinunciare a qualche cosa. Legare significa non solo stringere polsi e caviglie per mettere gli altri e il malato eventualmente al riparo da una crisi e per consentire l’iniezione riparatrice. Talvolta non si presenta alternativa, sostiene Milone. Ma legare è anche condividere: sentimenti, timori, sensibilità, errori, persino il rischio dell’amore: “La prima volta che ti capita, ti stupisci: / mi sono innamorato di una paziente? / Penso a lei, mi piace, la desidero…”. Legare per Milone significa anche parlare, accudire, accompagnare, rimpiangere. Lucrezia, la giovane che si lacera i polsi, che nasconde le lamette, che si droga, che sbeffeggia il dottore, sceglie il salto nel vuoto del suicidio: a lei, che si è lasciata cadere, persa per sempre, a lei corre il pensiero di chi nella cura può aver dimenticato qualcosa, un’attenzione, una frase, una stretta di mano, può non aver compreso una solitudine ed è costretto a riconoscere la propria resa. Destino di chi opera là dove la conoscenza materiale, apparentemente inoppugnabile, non arriva e non arrivano le radiografie, le tac,  le risonanze, ma ci si deve appellare alla propria sensibilità o addirittura alla propria idea del mondo e persino alla politica oppure rifugiarsi nelle classificazioni, di cui Milone ci offre esempio e che ripeto a caso, come capita nelle chiacchiere di chi non sa: depresso, isterico, ipocondriaco, depresso meno consapevole, euforico, caratteriale, ovviamente schizofrenico. Dimentico gli alcolisti e i tossicomani. Del resto per secoli la psichiatria è stata l’arte di classificare e incasellare, l’arte di rinchiudere il malato al suo posto scientificamente determinato. L’arte insomma di legare, attribuendogli una casella, secondo le linee guida del Compendio di Emil Kraepelin, ad uso degli studenti e dei praticanti, inseguendo l’ordine, là dove l’ordine può proprio esistere.

Una volta, prima di Basaglia, si usava così: camicie di forza, gabbie, legacci bloccati ai quattro angoli del letto, strozzina (un lenzuolo bagnato intorno al capo finché il poveretto perdeva i sensi).

 I “frammenti” sono tali,  brani talvolta brevissimi, talvolta autentici aforismi. Le righe vanno a capo quando vogliono, senza rispetto della grafica delle canoniche “sessanta battute”, senza una dichiarata ricerca della poesia, o forse sì, del suo ritmo, ma molto spesso di forte, intensa, poesia. Sembrano trascrizioni alla lettera di appunti tratti da uno di quei quadernetti che si celano facilmente nella tasca della giacca o del camice, insieme con una matita, taccuini le cui pagine si riempiono di parole seduti ad una panchina o ad un muretto. Sono appunti di viaggio nei vicoli in salita di Genova, lungo scale ripide e umide, sono sfoghi, sono paure, sono consolazioni, sono domande che toccano alla fine una persona sofferente che ti siede davanti nella piccola saletta dei colloqui. Mi verrebbe da dire, per citazione illustre, la “banalità dello psichiatra” che s’aggira tra i malati e cerca una risposta tra gli strumenti della sua umanità, consapevole che la sua scienza gli può concedere ben poco, salvo l’etichetta di qualche psicofarmaco, quando la distanza si riduce e quando si riduce troppo diventa inferno… Debolezza della psichiatria: puoi distinguere tra una strada e l’altra, “ma ogni psichiatra fa quello che sa e può”… La constatazione di una ragionevole impotenza. “Io che ci faccio qui?”, si chiede a un certo punto Milone (a un “certo punto”, perché nei “frammenti” di Milone non c’è traccia di cronologia, ma valgono solo labili accostamenti per temi). È la domanda che si rivolgeva Bruce Chatwin, grande viaggiatore, ma in giro per il mondo. Il mondo della mente può essere più misterioso, oscuro, tenebroso e non se ne può fuggire. Puoi scappare dal deserto. Puoi tentare di scappare dalla mente, ma alla fine ti ritrovi sempre lì, dentro, fuori, attorno alla tua testa, a meno che uno (e sono tanti, come elenca Milone) non decida di salire un ponte di lasciarsi volare (poi c’è chi lo psichiatra deve ritrovare in pronto soccorso, disteso su un letto chirurgico mentre gli compongono mille fratture).

Non so dare un voto al libro. Non è un saggio, è quasi un romanzo, tante fotografie insieme, che di sicuro aiutano a capire quanto l’esistenza sia complicata, anche se quelle esistenze non ci riguardano. I manicomi sono stati creati, fin dai tempi della rivoluzione francese, perché quelle esistenze non ci riguardassero e non ci disturbassero. Basaglia, spalancando le porte, ce le ha un po’ sbattute in faccia, senza tuttavia che ce ne rendessimo bene conto, senza che ci rendessimo conto che siamo tutti qui, nelle nostre diversità e nelle nostre codificate, convenzionali, normalità. 

Dapprima, leggendo, ho provato sconcerto, persino irritazione e noia. Che cosa mi stai a raccontare,  dottor Milone, i tuoi guai, mi fai della letteratura con le tue righe smozzicate, mentre fuori cade tutto a pezzi. Poi tra qualche pezzo ti ritrovi, dalla parte del medico o dalla parte del malato o dalla parte di padri, madri, fratelli, che poco si consolano al sentire dibattiti psichiatrici, che soffrono e che spesso sperano che qualcuno sappia legare. Bene, con cautela, con dolcezza però… Allora partecipi e hai qualche possibilità in più di capire il “mestieraccio”, vedi i letti, le stanzine, i camici bianchi (Basaglia non se l’era mai messo, emblema di autorità e potere), senti le serrature che si aprono e chiudono, intuisci le lunghe notti di guardia e le corse lungo corridoi illuminati al neon nell’illusione di riuscire a salvare qualcuno. Ti auguri solo che il duro bisogno di “fare” non cancelli il valore prima dell’etica e ci si può commuovere, come è capitato a me, che in uno di quei “posti” ci sono stato, parente soltanto, e per poche visite, guardandomi attorno, impotente: “Io continuo ad  aggirarmi, con i miei occhialini, alla ricerca del dolore degli altri”. Non è un ospedale come tanti, dove un bicchiere d’acqua, una mano in aiuto per rialzarsi, una frase di saluto possono rappresentare un conforto anche per il più sfortunato dei degenti. Ricordo un ragazzo, un ventenne, alto, bello, che batteva ripetutamente il capo contro il muro. Ricordo soprattutto la signora in rosso, età incomprensibile: capelli rossi, labbra rosse, vestito rosso, scarpe rosse. Mi guardava e domandava: “Sto bene così?”. Che cosa potevo rispondere? 


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