Amnesty ieri e oggi

di Antonio Marchesi
incontro con Nicola Villa
Com’è cambiata Amnesty
Da quando è stata fondata nel 1961 Amnesty è molto cambiata ma proprio per continuare a svolgere con successo la funzione che era stata pensata in origine. Mettersi in discussione in maniera sistematica è sempre stato un metodo di lavoro per l’associazione: a livello internazionale ciò ha significato, tra le altre cose, il passaggio da un “mandato limitato” alla progressiva estensione dei diritti umani di cui Amnesty si occupa, non più soltanto quelli di coloro che sono imprigionati per motivi di opinione. Inizialmente Amnesty chiedeva il rilascio dei cosiddetti prigionieri di coscienza, si occupava di tortura, di pena di morte. Si occupava anche di processi iniqui ma soltanto nella logica della repressione del dissenso politico, non dei limiti strutturali della giustizia penale. All’inizio degli anni duemila si è passati dal “mandato limitato” al cosiddetto full spectrum, cioè alla gamma completa dei diritti riconosciuti dagli strumenti internazionali, tutti quelli che gli stati si sono impegnati a rispettare, quantomeno a parole.
L’associazione ha poi dovuto introdurre un cambiamento parallelo che è altrettanto importante. Pur continuando a monitorare e a fare ricerca sulla situazione dei diritti umani in tutti i paesi del mondo, ha iniziato a fare delle scelte “strategiche”: a dare di volta in volta priorità ad alcuni temi e situazioni. Tra questi, la lotta alle discriminazione e alla violenza nei confronti di certe categorie di persone, dalle donne alle persone lgbt ai rom, alle minoranze etnico religiose; ci occupiamo anche di alcuni diritti sociali, dal diritto a disporre dei propri tradizionali mezzi di sostentamento delle popolazioni indigene, in zone del mondo che sono saccheggiate dalle multinazionali, fino al diritto all’alloggio di certi gruppi vulnerabili.
Oltre alle strategie di lungo periodo, e all’attività di solidarietà internazionale, c’è poi sempre più lo sforzo di attivarci, anche con reazioni rapide agli eventi, su questioni che interessano il nostro paese, di fare attività rientrante in quella che chiamiamo local relevance, cose che toccano più da vicino le nostre rispettive comunità.
Quanto alla ricerca, in passato questa veniva svolta, e anche garantita, certificata da Londra, dove c’era l’head quarter. Oggi, da un lato anche le sezioni nazionali di Amnesty possono fare attività di ricerca; dall’altro, il nostro Segretariato internazionale è stato decentrato, è un po’ sparpagliato in tante parti del pianeta, nell’ambito di quello che il nostro Segretario generale uscente, Salil Shetty, ha descritto come moving closer to the ground. Cioè ci si è avvicinati ai tanti luoghi del mondo in cui avvengono le violazioni, per reagire prima e avere un contatto più diretto con gli interlocutori locali.
Amnesty del resto è cresciuta molto: alle prime riunioni a cui ho partecipato, nei primi anni ottanta, c’erano persone provenienti da un numero limitato di paesi del nord del mondo – danesi, belgi, qualche senegalese a rappresentare tutta l’Africa. La maggioranza era occidentale, mentre oggi a una riunione internazionale si trova veramente un mix incredibile di culture e di provenienze.
Dal letter writing all’attivismo
La caratteristica originaria di Amnesty era quella di fare pressioni sulle istituzioni, un metodo di azione che è ancora messo in pratica con modalità diverse: ancora oggi mandiamo centinaia di migliaia di messaggi (non più, in linea di massima lettere, messaggi cartacei) per mettere pressione su governi e istituzioni internazionazionali. Col tempo abbiamo dovuto arricchire questa forma tradizionale di azione per aprirci a numerose e svariate forme di attivismo per i diritti umani. Quello che anche nella sezione italiana si sta cercando di mettere in pratica, e credo con alcuni risultati positivi, è di diversificare le forme di attivismo, chiedendo a chi crede negli obiettivi che proponiamo se è disposto a dedicare qualcosa di proprio – il tempo, la fantasia, la competenza – trovando insieme un punto di incontro, per fare cose insieme. Le forme di attivismo sono molto varie: oggi, ad esempio, c’è un gruppo di attivisti di Amnesty, composto da un centinaio di persone, che fa un lavoro di contrasto all’odio on line, intervenendo soprattutto sui social, sui blog e sui siti dei giornali. Certamente c’è ancora il lavoro fondamentale dei nostri gruppi presenti su quasi tutto il territorio nazionale; e il lavoro educativo, nelle scuole e non solo, di prevenzione delle violazioni, di costruzione di una cultura di diritti umani, un lavoro essenziale anche se non consiste in interventi urgenti su casi di violazione. Recentemente abbiamo costruito una task force di osservatori: persone che seguono le manifestazioni di piazza, che registrano tutto quello che accade e la cui presenza in qualità di osservatori neutrali di per sé dovrebbe avere un qualche effetto preventivo di eventuali abusi. Inoltre facciamo tantissimo lavoro di lobby, sui parlamenti e i governi, per modificare le leggi. E attiriamo l’attenzione dell’opinione pubblica con flash mob di denuncia, in forme le più creative possibile, di fenomeni di violazione dei diritti umani (dai respingimenti di persone verso paesi in cui subiscono torture, fino al problema drammatico delle spose bambine). Tutto questo avviene nel rispetto di certe regole di Amnesty, che ne garantiscono tra l’altro l’imparzialità e il fatto di avere come riferimento unico il rispetto dei diritti umani.
I compromessi necessari
Il pragmatismo e, allo stesso tempo, una visione ambiziosa, quasi utopistica, sono due caratteristiche che coesistono nella nostra organizzazione e che ci hanno permesso di apprezzare i compromessi necessari per raggiungere gli obiettivi difficilmente raggiungibili. “Compromesso” sembra una brutta parola, ma in realtà è la capacità di progredire per piccoli passi, quando il risultato finale non si può ottenere in tempi brevi, quando è necessario fare un percorso. Amnesty non ha paura di alzare il tiro, di dire cose che sembrano poco realizzabili oggi. Ma nel momento in cui non si ottiene quel risultato finale non è che si rinuncia al risultato intermedio, perché serve anche un piccolo successo. Questo è un criterio che applichiamo sempre, perché il nostro obiettivo è quello di cambiare le cose, cambiare la vita delle persone, rendere il mondo un po’ alla volta più giusto, più libero, meno violento. Se noi non facessimo in questo modo rischieremmo di diventare i “buoni” che si arroccano, che dicono: “avevamo ragione noi, stiamo dalla parte giusta, la storia poi e il mondo sono andati da un’altra parte”. Il nostro scopo non è quello di salvarci l’anima ma quello di avere un impatto concreto sulla vita delle persone.
Verità per Giulio
La campagna per Giulio Regeni è un esempio interessante di una iniziativa della sezione italiana, su un caso di local relevance – tale in ragione della nazionalità italiana della vittima, non ovviamente del luogo in cui è stato torturato e ucciso – , seguita da tanti altri paesi del mondo tanto da diventare un caso internazionale.
Una campagna abbastanza improvvisata, per fortuna improvvisata bene, e devo dire molto merito di questo va a Riccardo Noury, il nostro portavoce, che ha avuto un’intuizione felice, un’idea semplicissima: facciamo una scritta nera su sfondo giallo e ci scriviamo “Verità per Giulio” e cerchiamo di coinvolgere il maggior numero di persone possibili, sperando che e adoperandoci affinchè diventi virale, anche attraverso i social, coinvolgiamo poi le istituzioni, i comuni, le università, innanzitutto… e tutto ciò si è avverato. Un elemento importante che ha aiutato la campagna è stata che la figura di Giulio Regeni rappresenta un certo tipo di italiano cosmopolita, coraggioso, che vuole fare ricerca, e quindi una persona positiva in cui molti si sono identificati. Ci occupiamo anche di quelli che non sono particolarmente “buoni” e necessariamente simpatici, però in questo caso sicuramente questo elemento ha aiutato, così come un ottimo rapporto con la famiglia, con cui abbiamo lavorato per sostenerli e che però hanno anche permesso che noi li sostenessim, con cui abbiamo avuto un dialogo molto rispettoso e anche molto proficuo. Un altro elemento peculiare da segnalare, ovvero che Regeni è un italiano ucciso barbaramente in Egitto, in un altro paese. In genere abbiamo maggiori difficoltà a sensibilizzare l’opinione pubblica italiana su ciò che accade fuori dal nostro paese. In questo caso, invece, sempre con il consenso della famiglia, abbiamo potuto parlare con maggiore facilità all’opinione pubblica italiana di una violazione dei diritti umani in un altro paese, mettendo in luce come il caso Regeni sia abbastanza unico (perché riguarda un nostro concittadino) ma allo stesso tempo simile a tanti altri, perché è stato sequestrato, è stato torturato e infine è stato ucciso così come lo sono tanti Egiziani. La particolarità di questa campagna è che noi abbiamo potuto avere come interlocutore il governo italiano, con cui si può tentare di interloquire per chiedere che svolga un ruolo nella protezione dei diritti umani nel mondo, a cominciare da quelli dei suoi cittadini … ma non solo. Sul governo facciamo pressione, chiediamo che non si faccia prendere in giro dalle autorità egiziane, che non pensi solamente agli interessi economici italiani in Egitto ma anche di pretendere il rispetto dei propri cittadini all’estero, che è anch’esso un’interesse nazionale.
Partecipazione e democrazia
Una caratteristica specifica di Amnesty è che si tratta di un’organizzazione partecipativa e democratica, nel senso che non siamo un’organizzazione in cui c’è uno staff di professionisti che decide tutto e poi chiede al maggior numero di persone possibile il sostegno economico e morale per portare avanti ciò che ha deciso. Amnesty è un’organizzazione che ha volontari che si riuniscono in assemblee a livello locale, a livello nazionale, mandano i loro rappresentanti a livello internazionale. Gli obiettivi strategici del movimento vengono decisi secondo una modalità di consultazione larga e molto inclusiva, si discute, delle volte anche molto vivacemente, nel bene e nel male. Assomigliamo a un’organizzazione politica, forse anche un po’ antica, da questo punto di vista. Non siamo un’ong in cui c’è una regia che controlla tutto e che poi si affianca di milioni di supporters, che però non hanno voce in capitolo. Chi si iscrive ad Amnesty ha voce in capitolo, evidentemente la può usare o meno. Del resto siamo un’organizzazione politica anche nella nostra missione, che è quella di rivolgerci ai governi e alle altre istituzioni statali e chiedere loro governi di fare determinate cose, che è anche interagire con le forze della società, con le forze politiche, e di avere degli obiettivi che riguardano la vita delle persone e delle comunità.
La tortura è reato
Può sembrare un paradosso: se scomparissero le violazioni dei diritti umani Amnesty non avrebbe più ragione di esistere, ma se invece a scomparire fossero i regimi dittatoriali Amnesty avrebbe ancora ragione di esistere, perché le violazioni dei diritti umani avvengono anche in ambito democratico. A proposito del reato di tortura introdotto di recente in Italia tutte le resistenze, dalla politica e da altri soggetti, si sono fondate principalmente sulla sua inutilità, dovuta al fatto che la tortura in un regime democratico come il nostro è scomparsa. Amnesty ha seguito con moltissima attenzione da trent’anni l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento: ho ritrovato cose che ho scritto nel 1988 sulla necessità di introdurre il reato di tortura, ci siamo arrivati solo nel 2017, e nel frattempo c’è stato un numero non indifferente di casi di totale impunità per fatti di tortura, perché non c’era il reato, perché c’è stata la prescrizione, perché mancano i codici identificativi sui caschi dei poliziotti, perché c’è stata omertà che non ha permesso di capire chi fossero i responsabili individuali o per tutte queste ragioni insieme. Oggi ci troviamo con una storia di più di trent’anni di impunità per tortura, non di migliaia di casi di tortura comein alcuni paesi in cui il fenomeno è sistematico, ma di impunità quasi sistematica in quei casi in cui in Italia è stata praticata. Dopo un lungo percorso, finalmente, è stato introdotto nel codice questo reato che è scritto in una maniera che rende difficile l’applicazione, che ha tante contraddizioni interne, tanti limiti. Però noi, valutandolo con attenzione e mettendolo a confronto con il silenzio totale del codice penale italiano sulla tortura, con la situazione preesistente, pensiamo che sia stato fatto un passo avanti. Oggi un giudice, se ha la volontà di interpretare le norme interne in maniera conforme a quelle internazionali, magari con qualche difficoltà applicativa, può nondimeno istruire un processo per tortura, e non è affatto escluso che qualcuno sia condannato a una pena adeguata per tortura. Prima ciò era del tutto escluso. Anche se il reato è formulato male, non corrisponde a quello che avremmo voluto, bisogna anche dire che alcuni sindacati di polizia lo trovano inaccettabile anche così come è scritto, e che alcuni partiti alle ultime elezioni hanno inserito l’abolizione del reato di tortura appena approvato nei loro programmi politici. Questo fa pensare che la sua previsione non sia proprio un risultato irrilevante. Spero che possa essere un deterrente, non posso saperlo con certezza al momento ma lo spero. E, quantomeno dal punto di vista culturale, il fatto che nelle leggi italiane ci sia scritto che è vietato torturare, che se qualcuno commetterà atti di tortura sarà incriminato per “tortura” e non per abuso di ufficio o lesioni o addirittura maltrattamenti in famiglia che sono le ipotesi, tutte punibili con pene lievi, con cui i giudici hanno dovuto affrontare i casi di tortura in mancanza d’altro, mi sembra un progresso.
L’odio
Tra i nostri temi principali di questo periodo ve n’è uno che indichiamo con una parola che può sembrare forte: odio. Inteso come qualcosa di diverso dalla discriminazione e persino dellapersecuzione, si sviluppa a partire dall’una e dall’altra, ed è rivolto contro immigrati e rifugiati, ma anche contro omosessuali in alcuni paesi, minoranze, contro i Rom. L’odio è la demonizzazione dell’altro, a cui non si riconoscono i diritti che dovrebbero spettare alla persona in quanto tale. Con questa campagna vogliamo trattare una grande varietà di pratiche che vanno dai gravissimi crimini di odio fino al discorso di odio on line, che è una realtà nostra che accomuna molte persone (compresi, purtroppo, anche leaders politici e persone che aspirano ad avere ruoli pubblici).
Un’altro ambito di azione in questi tempi è la difesa di alcune classiche libertà civili che non sono affatto scontate: ci sono paesi europei in cui persino Amnesty rischia di non avere spazi di agibilità, come l’Ungheria, la Russia e la Turchia – dove il nostro presidente è stato in carcere fino a poco fa e deve essere ancora processato sulla base di accuse davvero assurde. Aggiungo che il numero dei giornalisti in carcere in alcuni paesi è impressionante.
Infine ci sono anche altri temi, come ad esempio la punizione dei crimini internazionali, che non sembra più essere una priorità della comunità internazionale, oppure il diniego dei diritti economici e sociali di base in alcuni paesi, che crea a sua volta aree di malcontento tali poi da tradursi anche in proteste che poi vengono represse: dalla violazione dei diritti sociali si passa anche poi, senza soluzione di continuità, alla violazione dei diritti civili.
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