Alice Rohrwacher nel Paese delle Meraviglie
Una piccola isola che non esiste, frutto di sogni e reminiscenze, cinta da rupi e fitta di cipressi, l’albero dei cimiteri. Sul filo d’acqua piatto, forse un lago o una laguna, una barca sta portando una bara all’isola e, insieme al rematore, una figura enigmatica coperta da un velo bianco è l’unica testimone del corteo funebre. Questa è L’isola dei morti, il famoso quadro che il pittore svizzero Arnold Böcklin eseguì in diverse versioni a fine Ottocento e che è diventato, oltre che un simbolo tardo-romantico, una delle massima rappresentazione del funerale, del lutto e della morte. Alice Rohrwacher è riuscita a rileggere questa potentissimo opera, molto fortunata in passato, nel suo secondo lungometraggio Le meraviglie, unico film italiano in concorso al Festival di Cannes. L’ha reinterpretata non per raccontare un funerale qualsiasi, ma per descrivere un lutto ben più grande e profondo: la fine di un mondo.
Il film è ambientato in una campagna del centro-Italia di confine tra Umbria, Toscana e Lazio, anticamente l’alta Etruria, dove una famiglia senza una identità precisa, o meglio meticcia perché italo-tedesca-francese, si è rifugiata per allevare le api e produrre il miele, ma soprattutto per crescere le figlie in un luogo protetto, lontano dai paesi e dalle città vicine, da quel mondo in radicale mutamento con cui è inevitabile scontrarsi. Al vertice di questa famiglia, composta in prevalenza da donne, c’è un solo uomo: un padre nevrotico e autoritario che ha interiorizzato, quasi al limite della disperazione, la lotta tra il suo progetto di vita e una società che lo ostacola, ad esempio con la burocrazia, le restrittive e innumerevoli leggi sugli standard sanitari per avviare una piccola azienda a gestione famigliare. Quella che si è scelta questa strana famiglia non è una vita semplice: c’è la fatica di un lavoro minacciato dal cambiamento climatico che uccide le api, una ricerca della sopravvivenza, la resistenza e il compromesso con la burocrazia delle leggi e con la comunità di contadini, allevatori e cacciatori, già arresi e integrati al nuovo corso, che li circonda. Il punto di vista del racconto è quello della maggiore delle figlie, Gelsomina, la primogenita combattuta tra l’essere l’erede naturale di ciò che il padre ha costruito e i desideri (le merci e i consumi) che la società sta elaborando proprio in quegli anni. I primi anni novanta sono, infatti, l’epoca di questa storia, il tempo dell’adolescenza della regista trentenne, periodo di incubazione finale della trasformazione della nostra società. La prima parte del film è praticamente descrittiva – grazie a un pregevole lavoro specifico sul paesaggio tosco-umbro-laziale quasi documentario – e viene interrotta da due eventi: il primo è l’arrivo di un bambino, un minorenne straniero, affidato all’azienda dal tribunale e da un programma di servizi sociali in cambio di denaro; il secondo evento è la tentazione di partecipare, con gli altri contadini e allevatori della zona, a un concorso televisivo con in palio un sacco di soldi, letteralmente, per il miglior etrusco moderno, denaro vitale per la sopravvivenza dell’impresa. A causa di queste due incursioni esterne nello spazio protetto della famiglia, emerge la ribellione di Gelsomina al padre, un personaggio tragico che è difficile, tuttavia, condannare e biasimare perché molto umano.
Le meraviglie è un film che sa tenere un doppio binario, uno reale e l’altro metafisico: su uno scorre la storia d’amore tormentata e contraddittoria tra un padre e sua figlia – ma è tutto l’amore di una famiglia a essere raccontato –, mentre sull’altro si delinea qualcosa di più misterioso che ha a che fare con l’infanzia e il passaggio all’adolescenza, con la resistenza e al superamento di questo amore. Proprio all’inizio del film, Marinella, la secondogenita chiede alla madre, in una prima auto-consapevolezza della morte, quanti anni avranno i genitori quando loro, le figlie, saranno sessantenni. Questa domanda appartiene proprio a una sfera metafisica che è stata frequentata con più efficacia dalla letteratura e raramente dal cinema. Peter pan e Alice nel paese delle meraviglie sono proprio due capisaldi, per esempio, perché hanno saputo raccontare il rifiuto della crescita e le paure misteriose sulla fine dell’infanzia. Sono continui i rimandi e le allusioni della Rohrwacher a questi temi e a queste opere: il rito di passaggio, l’attraversamento dello specchio, della protagonista Gelsomina, per esempio, avviene proprio durante la trasmissione televisiva, parodia etno-gastronomica, “Il paese delle meraviglie” presentato dalla madrina-dea etrusca Milly Catena (una Monica Bellucci libera finalmente in un personaggio non ridotto alla sua riconoscibile bellezza).
Rohrwacher si riconferma, dopo il sorprendente esordio Corpo celeste (2011), come una delle più interessanti autrici del nuovo cinema italiano che viene dal documentario. Non a caso immediatamente apprezzata all’estero, per avere una formazione e un’identità europea, ha realizzato un film coraggioso e importante che ci racconta molto della nostra storia recente e su chi o cosa siamo diventati. Inoltre Rohrwacher è tra le poche registe a saper raccontare, senza sociologismo e didascalismo, la condizione dell’adolescenza, i riti di passaggio e le “meraviglie” della relazione, lavorando soltanto con attori giovani e bambini non professionisti. Il film racconta, come detto, la fine di un mondo, ma è un mondo che contiene molti temi, in particolare quello storico, tanto che potrebbe essere letto come un’opera generazionale. Vi è raccontata, appunto, la generazione dei padri, i figli del ’68 che hanno vissuto la delusione della politica e quindi del collettivo e vivono il riflusso alla ricerca di una difficile utopia domestica e privata, una fuga in campagna. La strana casa, alta è tagliata quasi in due, dove abita la famiglia, che sorge isolata sulla collina come un monumento di una civiltà perduta, è il simbolo di questo tentativo. A questa generazione segue quella dei figli degli anni novanta, il piccolo boom, la prima generazione italiana che ha ricevuto l’irresistibile impatto educativo della televisione, una cultura consumistica massificata. La canzone T’appartengo di Ambra, primo fenomeno televisivo teen italiano con la trasmissione “Non è la Rai”, che ricorre nel film ha un doppio significato: è sia un richiamo immediatamente pop, e non auto-compiaciuto e nostalgico, di formazione sentimentale di quella generazione oggi dei trenta-quarantenni, sia una paradossale interpretazione ricattatoria e disperata dell’amore, in tutti i sensi. L’utilizzo di questa canzone è un esempio dell’approccio che la regista ha adottato per raccontare una storia, che la riguarda e ci riguarda, con estremo pudore e coraggio. Rohrwacher non giudica i suoi personaggi, anche quelli che sarebbero dei facili bersagli, come quelli che appartengono al mondo della televisione. Non c’è il ricorso al grottesco e al kitsch neanche per raccontare quella televisione: siamo di fronte a testimoni arresi allo spirito del tempo, precursori della moda della mercificazione dei prodotti locali. La leggerezza con cui è raccontata quel concorso televisivo ricorda la grazia e la crudeltà di alcuni film surreali di Sergio Citti (mentre i maestri della Rohrwacher sono coloro che hanno contaminato maggiormente fiction e documentario come i fratelli Dardenne e Leonardo Di Costanzo). Alla dimensione storica si affianca, inoltre, una più alta e enigmatica che dà l’opportunità per una lettura più pessimistica. Le meraviglie non racconta soltanto la fine dell’utopia, ma allude alla possibile fine della specie attraverso l’allegoria della scomparsa delle api, uccise dai pesticidi e dal cambiamento climatico. È proprio questo aspetto a risultare decisivo: la scomparsa di una cultura di un’utopia, di una umanità, viene accompagnata dal ricordo dell’amore che nutriva quegli esseri. C’è pietà e pessimismo in questa ri-rappresentazione di un’isola dei morti che ci interroga e ci pone molti quesiti su cui sarà necessario tornare.